Per preghiera o esigenza della stessa sorte di chi prega: ovvero spera; Io all’anagrafe Adernò Sebastiano, nato l’undici maggio millenovecentosettantotto, figlio di Adernò Paolo e Listo Michelina, nel mettere ordine ordine nella mia vita, non rinvenni alcuna misura. Da che poi decisi di trovarmene una, di base immensa e altezza calpestabile, tale che per me e chi volessi accanto, fosse chiamata comunemente Strada. E fu sera e fu mattina. Come oggi precede domani. E domani vien meno ad ogni dovere di esserlo. Così deposi ogni attesa. Valutando che attendere e sperare poco s’accordavano con tutto ciò che avevo tralasciato di fare. E tra la certezza di un inganno funzionante e comprovato da tanta Letteratura sospirata ed invocativa, scelsi un inganno di più alta mole, ovvero l’Amore. Pensai che ogni idea pecca di vanità. E che assumere categorie poco si confacesse al dispetto che già mi procuravano le supposte. Dacché in questa forzatura scorsi tutta la comodità di stare seduti su certezze che in sé non lo erano. Ma purtroppo assomigliavano. Così iniziò la mia vita. Dubitando di tutto ciò che fino ad allora mi dissero fosse giusto et irremovibile. Togliere negare dibattere e dubitare. Sottrarre schiantare strozzare. Negare. Negare almeno a me stesso l’unicità del giusto. Che poi ci fu un gusto adolescenziale nello sputtanare tutto e tutti. Per prima mia madre, insegnante per fortuna. Che io a quattordici anni avevo già letto più libri di quanti ne prevedesse il suo programma ministeriale all’Istituto Magistrale Matteo Raeli di Noto. Con mio padre non ce ne fu bisogno. Lui mi ha sempre contemplato come suo capolavoro. Unico figlio da quella parte. Fratello di un fratello e di una sorella dall’altra. Così svuotai la cesta dei giocattoli. Per inventarmene uno nuovo. Un gioco di quelli dove ci si impegna molto e si vince poco. Forse pochissimo. Ma almeno non si perde e comunque si gioca. La prima regola fu che Io è poco. Troppo poco per declinarci tutto. A partire dalle donne che già in sé incarnano troppo peso e differenza. Compresi così che tentare d’avvitare tutto all’idea che avevo delle cose, assomigliava a far di me la sola ed univoca unità di misura dove giusto e sbagliato funzionavano solo tenendo il mio utile come perno. Molti vivono così. Per gioco questo non assimilabile. Anzi era proprio il difetto da evitare. Poi non ricordo come e quando. Di sicuro non stavo però mangiando un gelato. Ma non ricordo proprio come mi capitò di comprendere quanta devianza generava l’aspettativa di una qualsiasi ragione. Ma spiego meglio i termini di questa elementare equazione. Prendendo come incognito ciò che accadrà e come risultato l’idea che ci siamo fatti della cosa, mi accorsi che non troppo involontariamente noi agiamo sull’altrui affinché risultante e risultato coincidano. Ci comportiamo in tale maniera perché fondamentalmente ci interessa più mantenere un primato di supremazia su ciò che accadrà, piuttosto che sperare il bene altrui. E spesso l’amicizia, l’amore divengono una partita truccata. Dove di partenza ognuno ha stabilito un risultato. E si gioca a sottrarre le carte all’altro. Ma sono proprio i quattro angoli che circoscrivono la nostra ragione a precludere le possibilità altre. Ma insomma? Ma come potrebbe accadere qualcosa di bello e diverso, se noi già, in termini potenziali non ammettiamo sia possibile? Come può generarsi altro se ogni cosa che si distanzia anche di poco dalla nostra previsione, ci genera sospetto e lo chiamiamo dispetto. E qui che si spegne la candela e si dice buonasera. Ci crediamo o no nei miracoli? Perché non serve un Prete per capire che furono proprio i Miracoli a fare girare le palle a Caifa decretando la morte del superdotato Gesù. Ci crediamo o no? Li ammettiamo come eccedenza possibile capace per vie molecolari a noi non indagabili di esularsi dagli elementi, o no? Il mio primo gesto d’Amore fu questo. Credere nei Miracoli.
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