di Diego Conticello
(In copertina: Nino De Vita in una foto di Dino Ignani)
La poesia di Nino De Vita nasce da un rapporto simbiotico con l’ambiente naturale del marsalese, precisamente di quelle contrade marine affacciate sull’oasi naturalistica dello Stagnone, proprio di fronte all’isola fenicia di Mozia e alle celeberrime saline del capo lilibeo.
In questo scenario ancora incontaminato l’autore si è mosso, fin dall’infanzia, avendo sempre cura di registrare e classificare il particolare minimo, compreso quello apparentemente insignificante (lui per decenni insegnante di Osservazioni scientifiche in diversi istituti agrari del trapanese), pertanto nei suoi versi traspare quella vena nomenclativa, talvolta esasperata ed accompagnata da una assoluta precisione derivante dalle inclinazioni formative.
Il rapporto con questa natura ne risulta talmente intimo da essere non simbolico ma emotivo, per cui non è l’assidua frequentazione coi classici della letteratura a forgiare una ‘maniera’ di imitazione epigona (viene, tanto per dire, immediato l’accostamento col primo Montale di Ossi di seppia), bensì la precisione prende slancio dalle cose in sé, per costituirsi nucleo continuo e irrinunciabile del dettato prima intellettivo e poi descrittivo.
In tal senso Nino De Vita potrebbe idealmente far parte di quel pantheon di scrittori-scienziati che, partendo da Galileo fino ad arrivare ai nostri Primo Levi, Carlo Emilio Gadda, Lorenzo Calogero, Giuseppe Bonaviri (volendo tacere sui recenti esiti discutibili di un Cesare Ruffato), fanno del rigore nomenclativo una caratteristica osmotica alla loro controparte “dottorale”. Non lontano dalla poesia anglo-statunitense che da Whitman (si vedano i paralleli testuali col maestro di Leaves of grass) ha condotto al moderno “imagismo” di William Carlos Williams – anch’egli scienziato, di preciso medico pediatra – o a certe prove di Ezra Pound e, nei casi migliori, alle altezze stratosferiche di T.S. Eliot, il nostro canta la natura con la stessa esattezza verbale a lungo interiorizzata negli studi agrari prima e negli anni di insegnamento poi.
Futuri contributi dovranno pertanto tenere in conto questo non trascurabile, anzi ‘necessario’, punto di partenza per lo studio completo di un’opera così appartata quanto degnissima di considerazione.
***
La poesia di Nino De Vita ha la compostezza delle cose immobili, impassibili, sfiorate dagli elementi di una natura non irresistibile e, tuttavia, nemmeno arcadica, autoritaria e materna in egual misura e – parimenti – lentissima, lontana dai ritmi veloci che contraddistinguono la nostra epoca.
De Vita è un poeta prettamente dialettale ma ha esordito in lingua con le liriche di Fosse Chiti. Questo strano titolo ha il significato toponomastico di “Fosse Cretose”, una contrada confinante con quella in cui il poeta vive (il termine ‘chiti’ vuol dire appunto ‘di creta’ nello stretto vernacolo della contrada di Cutusìo).
Nei versi di questa sua prova d’esordio l’autore marsalese descrive, lucrezianamente direi, con assuefacente insistenza questo variegatissimo ecosistema, quasi lasciando sproloquiare ogni evento che vi si svolga – sia esso maestoso o microscopico – come in una sorta di continuata prosopopea ‘fisica’, dove la presenza umana è sì contemplata ma, spesso, defilata o del tutto assente.
De Vita sembra annotare il susseguirsi delle stagioni col taccuino del fine botanico/zoologo, in uno sguardo perpetuamente vigile che registra insieme l’inquadratura fuoricampo e il primissimo piano, l’ampio paesaggio e l’insetto più misero. Animato da uno smisurato slancio che abiura eccessive sovrastrutture antropiche il poeta, come dice Stefano Jacomuzzi, «sembra voler ricostruire un rapporto antichissimo con le cose della natura, senza che esso sia deviato e corroso alla base da una forte carica di appropriazione simbolica o di recupero memoriale».
Queste “epigrammatiche micro-parabole” si dipanano lungo il corso ideale delle quattro stagioni, tante sono le sezioni della raccolta, segnando al contempo una labile traccia di ciclicità, evidente nelle misture meteorologiche di eventi ‘fuori stagione’ («Cade violenta, batte sulle foglie/ ampie delle zucchine/ la grandine/ e sul sedano,/ sui fusticini eretti/ del peperone…// Il sole,/ spuntato dalle nubi,/ negli angoli la trova/ dell’orto, dei canali,/ nel fosso del concime, immiserita…»).
Il susseguirsi di questo pullulare di accadimenti restituisce il giusto valore a cose altrimenti classificabili – secondo il comune sentire dei giorni nostri – come ridicole inezie da crudo orizzonte quotidiano. A destare la coscienza del lettore non è dunque l’evento osceno od immorale, quanto l’accezione mortifera come germe insito anche nella descrizione più serena («Lisciato legno/ un nodo// anelli tondeggianti,/ striature…// È la vita/ dell’albero/ la morte…»).
L’azione umana in questo ristretto habitat risulta spesso estemporanea o ristagna in voluti marginalismi da ‘sfocato’ fotografico, sotteso al ritratto ora faunistico ora floreale in rilievo («Buttano con le pale/ il frumento nell’aria.»; o ancora: «Nelle sere/ d’estate/ a conversare/ – nei porticali o sotto le tettoie/ rinverdite –»).
Il tratto versificatorio di De Vita, per Alfonso Lentini, «consiste (tra l’altro) in quella particolarissima capacità di “dare il nome” alle cose facendo scaturire dal nome un misterioso surplus di significato che in qualche modo, per riflesso, finisce col trasmettersi (arricchendola) anche alla cosa». Dunque, per una sorta di procedimento analogico rovesciato, il significato pare scaturire dalla cosa in sé, come a sviare il passaggio intellettivo, emanando dal proprio interno aloni di senso che divengono – ma solo in seconda battuta – metafore di un implicito e nascosto pensiero ch’è dello stesso poeta («Sono i cerchi, sui fianchi della botte,/ arrugginiti.// Dalle doghe/ il vino/ trapassa in righe oscure/ di muffa fino al bordo/ sul fondo…// Ha moscerini/ che ronzano e nel foro/ s’infilano/ la spina.»).
Una profonda oculatezza nella cernita della terminologia (stomi, micelio, tramoggia, austori), il gusto insistente per il particolare orrido o macabro («Sta riversa. Le zampe/ mosse nell’aria, lente; le ali rotte,/ l’addome insanguinato…»), quantunque crudamente realistico, l’eclettica cultura che spazia su orizzonti alquanto inusitati, potrebbero certamente ascrivere De Vita a quella temperie tutta mediterranea che è la poesia ‘neo-barocca’, di cui Lucio Piccolo è forse l’esponente siciliano più noto insieme ai transfughi Bartolo Cattafi e Angelo Maria Ripellino. Come per l’estroso ‘pintore’ dei Canti barocchi, la poesia del nostro esponente lilibeo – per dirla con Giovanni Raboni – «vive di una sommessa, incantevole, “inspiegabile” precisione. Erbe, fiori, insetti sono osservati e salvati con un’impassibilità che nasconde e protegge il battito, il tremore di una sottile febbre amorosa». De Vita è forse il poeta che in assoluto ha più consonanze col cavaliere di Calanovella, nonostante il rifiuto netto di uno schema compositivo tradizionalistico (che concepisce la costruzione poetica solo su base rimica e metrica). Entrambi usano trattare diffusamente di gestualità risalenti ad una cultura contadina ormai in disfacimento inesorabile («Divorano le foglie/ di gelso/ ai lembi/ i bachi/ da seta// tre larvette/ che si muovono/ lente// muoiono dentro i bozzoli/ agli angoli// e rispuntano/ farfalle// nella piccola/ scatola per le scarpe/ di cartone.»). Così invece Lucio Piccolo nella lirica La seta: «Fatica nostrana nei giorni involati/ la seta: le veglie all’interno/ tepore, le foglie del gelso brucate/ dalle torpenti farfalle ai cannicci./ Sospesa alla trave la falce/ d’incanto, il crescente/ e l’aria grave di fiati rurali,/ d’attesa – poi girano i fusi, le spole, la grana…/ ma se la prendi con mano/ che un poco trema/ e la spieghi e la stendi/ è una fontana nel vento e nel sole.». Con un procedimento di acuta diminutio dai risvolti quasi eufemistici, il poeta riesce a mettere sullo stesso piano l’evento universale e il particolare più misero («S’infila dalla porta/ del casolare/ l’alba:// impolverate/ vibrano ragnatele/ agli angoli del tetto/ ancora bui…»); e questo particolare assurge a simbolo di una visione fatalista, quasi gattopardiana dell’esistenza, spesso inerme nei confronti del fluire storico («Melagrana spaccata/ contro il sole/ piccoli cuori rossi/ le formiche/ che salgono/ dal tronco […]/ in una nube/ d’insetti/ l’odore acre/ della/ marcescenza.»). Ogni evento, anche quello che a prima vista potrebbe sembrare crudele, l’intemperie che lascia le cose vilipese, viene descritto col fare insieme impassibile ed accorato – esule da rassegnazioni – lecito solo a chi abbia una profonda conoscenza del corso della natura: così nell’immagine, che ad una superficiale lettura parrebbe asettica, è implicita invece e sottintesa una pietas: «È lunga lunga/ affonda/ la tromba dalle nubi/ nell’acqua.// E poi si sposta,/ a vortice, solleva/ le barche// dal canneto/ ricurva al seminato:// è densa l’aria/ carica di terra/ e foglie// un gelso bianco/ e un ulivo gigante/ sradicati.».
Queste descrizioni aperte, fatte di risoluta concisione hanno talvolta, secondo Armando Patti, «la sottile inquietudine delle immagini trasparse da una liquidità lontana, anche per quella “potenziale enigmaticità del linguaggio chiaro” di daumaliana memoria e, soprattutto, per una sorta di fisica metafisicità sotto cui si presenta ex abrupto la cosa stagliata nella sua azione silenziosa e immobile, nella lontananza di sé, incisa fino in fondo, fino alle radici della sua maschera. Fino all’estremo segno di metafora».
La tornitura quasi ossessiva di questo stile così prosciugato s’incentra sul tentativo di far risplendere ogni creatura vivente di luce propria, e tale che nessun orpello possa mai oscurarla («Una nuvola sola in tutto il cielo/ all’alba: i seni bianchi,/ gonfi…// La faraona/ immobile attraversa/ con l’ombra lo spiazzale/ deserto.»).
La lingua appare sempre in bilico tra il tecnicismo più spinto e il solecismo dialettale: una variegata messe di termini in questa raccolta (“ristoppie”: con forma più vicina al siciliano ‘ristucci’ che all’italiano ‘stoppie’; “coffe”: ‘ceste’, ‘panieri’, usato in lingua col significato di piattaforma sull’albero delle navi; “giummo”: quasi intraducibile, è una sorta di pendaglio decorativo; le “cianciane” sono una specie di campanelle; “graste”: orci, vasi, dal siciliano ‘rasti’) farà da nucleo di partenza verso una decisiva virata vernacolare che, a tutt’oggi, pare insostituibile nella produzione posteriore a Fosse Chiti.
Insomma il messaggio di Nino De Vita sta tutto nella sua pacata, intima, totalizzante fusione con la natura, una rigenerazione panica a cui non serve, se non rarissimamente e in accenti comunque lievissimi, aggiungere presenza umana. L’elemento vitale è sempre lì, pronto a ‘sbocciare’, a impadronirsi d’ogni anfratto che l’artificio lascia scoperto ed è metafora della resistenza della bellezza in un mondo votato a un gretto utilitarismo («Dalle pietre è spuntato/ fra le rotaie untuose/ il fiore.// Il vento forte/ del treno lo ripiega:/ spruzza gocce/ d’acqua annerita, sbuffi/ di fumo…// S’allontana/ e s’avvicina l’ape/ che vi posa/ a giri lievi// e penetra,/ lo succhia…»). Ogni verso fa di questa raccolta un inno esemplare “a proposito della vita”, in cui il poeta riesce a indagare la natura fin nei suoi segreti palpiti, scovando persino il meraviglioso ritmo dei suoi silenzi.
Adesso con Òmini, nuova raccolta di liriche, nuova solo apparentemente perché formata da decine di poemetti stampati a ciclo continuo dal Nostro, ma elargiti colla dovuta parsimonia solo pour les amis, De Vita procede ancora sull’ostico sentiero di un vernacolo – ostico forse solo in termini di visibilità e corposità di pubblico, ma viscerale nell’immaginario del poeta – che, dalle pagine fanciullesche di Cutusìu, passando per il plurilinguismo favolistico di Cùntura, approda sulla banchina del ricordo per sostarvi intriso di nostalgia e spensieratezza («Mi nn’jia, mi nn’jia, un vèspiru p’i strati/ ri Palemmu, passiannu,/ nzèmmula cu Nanà./ Avia pizziddichiatu,/ allariatu, nisciutu/ ’u suli; ora accurzava, / eramu â ntrabbuliata.»). Già è cosa alquanto singolare aver incontrato dal vivo “uomini” della levatura di Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Ignazio Buttitta, Enzo Sellerio, Angelo Fiore, ecc., ma poterli chiamare Nanà, Aiddu, Vicenzu, Gnaziu, Enzu, Angilu appartiene solo a quella diafana carezza che è il privilegio di una vera amicizia.
Pertanto non assistiamo più, com’era sovente nelle prime prove, a reiterati sproloqui oggettuali, né ad epigrammatici iconismi verbali, bensì a modulate narrazioni affioranti dalla reminiscenza, estremo frutto di un’epica del “favoloso quotidiano” vissuta per “fatticeddi” giornalieri, raccontati ritornando, talvolta con salace ironia, ad una stagione esperita fianco a fianco coi grandi intellettuali del passato storico siciliano: «[…] Nanà e Gucciuni, Aitanu,/ parlanu picca, ’i cosi/ ’i rìcinu mussiànnu./ Bufalinu è ciumara chi nn’acchiappa,/ si fa sèntiri, piaci./ Ma cu è chi futti a tutti/ è Pippinu Liuni./ Cc’è r’arristari nnàbbili,/ allallati, mmiriusi,/ pi ll’avvinturi, a gghèttitu/ – amurusi, si sapi -/ ch’avutu…». Ma, si badi bene, non siamo di fronte alla solita operazione di ripescaggio della memoria tramite lo strumento della lingua (con tutti i languidi annessi e connessi), al contrario si tratta del tentativo di recuperare una particolare variante dialettale – quella “cutusiara” – che si sta inesorabilmente sfaldando, appoggiandosi all’espediente del ricordo.
Insomma è il fuoco del vernacolo a fungere da effettivo protagonista e De Vita è uno degli ultimi guardiani posti a proteggerlo dal vento del progresso, il quale sferza, oramai da decenni, un patrimonio troppe volte erroneamente classificato come sub-cultura di matrice popolare. E il poeta lo rintuzza servendosi non più di una sintassi nominale, a cui sostituisce piuttosto una proliferazione verbale composita ma asciutta e fluida nel medesimo tempo: «Pigghiai ri Birgi annunca l’apparecchiu/ e mi nn’jivi a Palemmu./ Nna valiggia me’ matri/ cci avia nzipatu rrobbi,/ strùcchiuli, liccumì.»; o ancora: «Un vèspiru mi nn’jivi a Bbaddarò./ L’ariu si rrinfriscava/ e accuminciava ’a ggenti/ a gghìnchiri ’u mircatu.».
Ora ad un lessico di estrazione tecnico-scientifica e ad audaci distorsioni pseudo-dialettali, si sostituiscono termini disusati come zicchiniusi (stridenti), s’ammurra (si cammina a stento), tunneddu (ripiano, mensola), mparparati (smarriti), stufficusu (antipatico), zzammatiamu (sguazziamo), sichirénzia (marciume), sciammarroccu (tela di lino), ncufata (golfo), quasatu (agiato, accasato?), mpagghia (possidente), sulità (deserto), azzuni (bambino, bamboccione?), ncuttumi (pene, dolori), mmuccatuti (fazzoletto, dall’arabo al mucar, cioè asciugare il muco), bbusillisi (latinismo sicilianizzato da busillis), mannara (ovile, stalla), bbuffetta (panca, tavolinetto), cattùppulu (calabrone), rriccabbuluna (ingordo), pinnulara (ciglia), ncuraddata (arrossata), e potrei citarne ancora a dozzine. Essi paiono appartenere ad una genealogia ancestrale, quasi primitiva, fatta di commistioni greco-arabo-ispaniche, e chissà cos’altro, che avremmo già irrimediabilmente perduto – e lo abbiamo fatto, purtroppo, nell’uso quotidiano – se non fosse che armigeri indefessi come Nino De Vita riescono a fermarli non nei cataloghi sterili dei linguisti, ma ‘ricucendone’ il fragile fascino nella bellezza vertiginosa della poesia.
Ritornare allo splendore del dialetto, alla lingua natìa rifulgente nel marasma frenetico che ci circonda, sembra davvero l’unico “autodafé” possibile per stanare le proprie radici più interne, per giungere al nucleo più recondito della propria esistenza, al cuore più autentico dell’essere “òmini”.
Notizie biografiche
Nino De Vita nasce a Marsala (Trapani) l’8 giugno del 1950 e vive tuttora nella stessa casa in cui è nato, nella campagna assolata di contrada Cutusìo, a pochi passi dalle note saline, proprio di fronte alla fenicia isola di Mozia.
Nell’autunno del 1969 entra in relazione col fotografo Enzo Sellerio, il quale gli fa conoscere Leonardo Sciascia, con cui in seguito si svilupperà una profonda amicizia. De Vita in quegli anni studiava nell’ateneo palermitano, così le frequentazioni con l’autore agrigentino divennero quasi quotidiane. Conoscerà, nello stesso periodo, Vincenzo Consolo, Ferdinando Scianna, Gesualdo Bufalino, Ignazio Buttitta, Stefano Vilardo, Roberto Andò e molti altri.
Nel settembre del 1989 Sciascia, poco prima di morire, in una lettera indirizzata agli amministratori comunali di Racalmuto, affiderà a De Vita (assieme ad altri cinque studiosi) la direzione della Fondazione che gli sarebbe stata intitolata. Ha intrattenuto frequenti relazioni epistolari con numerosi scrittori e critici letterari italiani, in particolare con Carlo Betocchi. Ha ricevuto numerosi premi nazionali, tra cui il “Moravia” (1996), il “Pierro” (1997), il “Betocchi” (1997), il “Mondello” (2003), il “Napoli” (2004), il “Salvo Basso” (2006), il “Cattafi” (2006), nella cinquina finale del Viareggio (2006), il “Liber” (2007) ed, infine, il Tarquinia-Cardarelli (2009). Quest’anno ha vinto il premio Viareggio-Répaci per la poesia con il suo nuovo volume Òmini oltre che il premio “Ignazio Buttitta”.
Poesie
Cade violenta, batte sulle foglie
ampie delle zucchine
la grandine
e sul sedano,
sui fusticini eretti
del peperone…
Il sole,
spuntato dalle nubi,
negli angoli la trova
dell’orto, dei canali,
nel fosso del concime, immiserita…
***
Lisciato legno
un nodo
anelli tondeggianti,
striature…
È la vita
dell’albero
la morte…
***
La lucertola al laccio
sospesa
e poi tuffata
nell’acqua della vasca
il ventre liscio
gonfio
la bocca spalancata…
La foglia viva ha succo verde dentro,
nervi,
cellule rigonfie d’umore.
***
Respira dagli stomi
si difende
coi peli dalla polvere che il vento
solleva da terra.
Sono i cerchi, sui fianchi della botte,
arrugginiti.
Dalle doghe
il vino
trapassa in righe oscure
di muffa fino al bordo
sul fondo…
Ha moscerini
che ronzano e nel foro
s’infilano
la spina.
Divorano le foglie
di gelso
ai lembi
i bachi
da seta
tre larvette
che si muovono
lente
muoiono dentro i bozzoli
agli angoli
e rispuntano
farfalle
nella piccola
scatola per le scarpe
di cartone.
S’infila dalla porta
del casolare
l’alba:
impolverate
vibrano ragnatele
agli angoli del tetto
ancora bui…
***
Melagrana spaccata
contro il sole
piccoli cuori rossi
le formiche
che salgono
dal tronco […]
[…] in una nube
d’insetti
l’odore acre
della
marcescenza.
***
Ha piovuto.
Sui vetri
è caduta, battendo,
l’acqua che in schizzi e onde
in fiumi gonfi
esili
è discesa
nel mare della soglia
di marmo…
Un sole caldo
spezza e assottiglia
isole
disperde…
È nella goccia
il cielo
un albero
curvato…
È lunga lunga
affonda
la tromba dalle nubi
nell’acqua.
E poi si sposta,
a vortice, solleva
le barche
dal canneto
ricurva al seminato:
è densa l’aria
carica di terra
e foglie
un gelso bianco
e un ulivo gigante
sradicati.
Da un buco nella rete s’è infilata
la volpe: ha ucciso il gallo,
azzannato una coscia
del coniglio più piccolo.
Le piume
ha disperso e le penne
nel chiuso del pollaio.
Una gallina
è riversa nel fango
senza testa.
L’anguilla dentro il pozzo
con le acque
di marzo si solleva
penetra nei meati
dai canali
intorbiditi striscia fino al mare.
***
Una nuvola sola in tutto il cielo
all’alba: i seni bianchi,
gonfi…
La faraona
immobile attraversa
con l’ombra lo spiazzale
deserto.
Ha una croce la casa,
in alto, sopra il pizzo,
di tufo vecchio:
l’edera dal muro,
s’arrampica e l’avvolge
nel cielo l’attraversano
nubi
gli uccelli in fila
a frotte
un sole lento
che scende verso il mare
il cerchio della luna
nella notte
scura…
***
Dalle pietre è spuntato
fra le rotaie untuose
il fiore.
Il vento forte
del treno lo ripiega:
spruzza gocce
d’acqua annerita, sbuffi
di fumo…
S’allontana
e s’avvicina l’ape
che vi posa
a giri lievi
e penetra,
lo succhia…
***
Opere di Nino De Vita
Poesia
Fosse Chiti (presentazione di Stefano Jacomuzzi). Catania-Milano, Lunarionuovo-Società di Poesia 1984.
Fosse Chiti (2° ed. ampliata, con nota di Giuseppe Conte). Montebelluna-Treviso, Amadeus 1989.
Nnòmura. Trapani, Arti Grafiche Corrao f.c. 1993.
Cutusìu (prefazione di Pietro Gibellini). Trapani, Arti Grafiche Corrao f.c. 1994.
Cutusìu (prefazione di Vincenzo Consolo). Messina, Mesogea 2001.
Nnòmura. Messina, Mesogea 2005.
Fosse Chiti. Messina, Mesogea 2007.
Òmini. Messina, Mesogea 2011.
Narrativa
Cùntura. Messina, Mesogea 2003.
Il cacciatore (illustrazioni di Michele Ferri). Roma, Orecchio Acerbo 2006.
Il racconto del lombrico (illustrazioni di Francesca Ghermandi). Roma, Orecchio Acerbo 2008.
La casa sull’altura (illustrazioni di Simone Massi e una postfazione di Goffredo Fofi). Roma, Orecchio Acerbo 2011.