(…) essi vengono
come da storia antica ad un presente
a riscuotere il senso della vita.
_________ Michele Ranchetti
L’eternità aggressiva dei morti
in cui sfolgori; la luce su di essi,
a illuminare il nulla incandescente
posantesi sulle cose – sulle case
ove tutto non è più; le figure da
sempre verso questi occhi in cui
tutto è stato; la lacerazione del
percepito – sì –: l’incompiuto.
Questa poesia appare in superficie come parola che dice il sempre indeterminato essere assente dei morti.
Ma siamo certi che sia semplicemente (ma è una semplicità che complica tanto le cose che percepiamo e pensiamo della natura non solo umana) questa la voce scritta che Gabriele Gabbia vuole indicare a sé e al lettore? Già il termine “aggressiva” riferito all’infinita successione dei tempi in cui i morti si trovano e esistere, paradossalmente come immortali, ricade e riporta il pensiero all’esistenzialità sfolgorante dei vivi. E ciò configura da subito la forte dimensione in cui la consapevolezza poetica dell’autore è immersa. Lo sguardo è quello di chi c’è verso ciò che non è più: dunque la morte come stato sempre presente, perché chi vive ne ha coscienza. E non può non averne, perché nelle case in cui si vive le figure dove “tutto è stato” ancora riverberano calore. E se si è poeti, ancora di più l’illuminazione dolente sulle cose – siano esse passate (come in questo caso), presenti o immaginativamente future – porta a comprendere che nulla è finito, e la ferita che sentiamo per ciò che era, è percepire la lacerazione che si prova per il senso di incompiutezza perenne in cui ci è dato, da vivi e da morti, essere.
Giorgio Bonacini
Gabriele Gabbia è nato il 14 luglio 1981 a Brescia, dove vive e lavora. È diplomato in discipline artistiche ed è iscritto alla facoltà di Filosofia dell’Università degli Studi di Verona. Nel 2011 ha pubblicato La terra franata dei nomi, con prefazione di Mauro Germani, nella collana «I germogli», diretta da Stelvio Di Spigno, Edizioni L’arcolaio di Gian Franco Fabbri.