Alla Sala Laudamo, ieri, sabato 13 giugno è andato in scena “Adolphe. The importance of being”, spettacolo eccellente per la regia e l’adattamento drammaturgico di Auretta Sterrantino, assistente alla regia Martina Morabito. Il titolo riporta alla commedia in tre atti “The Importance of Being Earnest” di Oscar Wilde e la validissima rielaborazione della regista Sterrantino – “costretta” a misurarsi per la prima volta con una vis comica e spietatamente realistica, riuscendoci brillantemente – si ispira liberamente a “Le Prénom” di Delaporte e De La Patellière, pièce teatrale divenuta poi pellicola cinematografica nel 2012, distribuita in Italia con il titolo “Cena tra amici”.
“Adolphe” aveva già registrato meritato successo nel debutto del 22 marzo scorso al Teatro “Annibale Maria di Francia” – come ultima fatica di “Atto unico. Scene di vita, vite di scena”, la rassegna 2015 indetta dalla QuasiAnonimaProduzioni – e nella replica del 22 maggio presso il Teatro del Mela. Altro non è che il ritratto delle frequenti e velate ipocrisie alla base dei rapporti tra amici e parenti: la linea sottile che, tra ghigni e finti convenevoli, esiste tra il detto e il non detto. Quattro amici e una cena come tante che però sfocerà nell’animato confronto e farà emergere pensieri, opinioni e verità ben nascoste. Tutto inizia e si conclude con i versi shakespeariani dal “Romeo e Giulietta”: “Che cosa c’è in un nome? Quella che chiamiamo rosa, anche con altro nome manterrebbe il suo profumo…”. Da un lato il nome e i significati che attribuiamo; dall’altro, l’importanza del solo essere, spoglio di ogni superficialità, essenza di ciò che siamo: “Tu sei tu”.
Nell’oscurità si fanno avanti i quattro personaggi: Elisabeth detta “Babou”, Claude, Vincent ed Anna. La scenografia, curata magistralmente da Valeria Mendolia, trascina in un salotto della Parigi borghese. Sullo sfondo, prorompente vi è l’immagine di uno schermo televisivo in modalità “programma momentaneamente sospeso”: sospeso come il gioco di stasi e moto, come il tempo di riflessione ed il tempo d’azione, avviati e disattivati questi, da telecomandi in mano ai protagonisti. Babou – Loredana Bruno – è moglie di Pierre – docente universitario sempre impegnato e poco presente: vive alla sua ombra, schiacciata dalla personalità del coniuge e si dedica solo alla famiglia e ai suoi due figli, Apollin e Myrtille; Claude – Livio Bisignano – è amico d’infanzia di Babou e Vincent, uomo dal carattere mite, trombonista in un’orchestra sinfonica; Vincent – Oreste De Pasquale – è fratello di Babou, agente immobiliare e marito di Anna – Giada Vadalà – donna in carriera, sempre al telefono. Padroni di casa sono Elisabeth/Babou e Pierre ma quest’ultimo, sebbene continuamente menzionato, non giungerà mai fisicamente sulla scena; ciò costituirà uno dei punti di distacco rispetto all’opera d’ ispirazione. Gli interpreti abiteranno, in prima istanza, una dimensione narrativa, entrando – gradualmente, simbolicamente ed uno alla volta – nello spazio scenico e vestendo, in senso letterale, i panni del proprio personaggio. Tutto è pronto e nella calma apparente può avere inizio la cena. Una cena con gli amici di sempre, le persone che meglio si conoscono. Oppure no?
Anna da la bella notizia: presto arriverà un bambino. Gioia e stupore colgono tutti, anche l’ignaro marito Vincent (altro punto innovativo nell’adattamento di Auretta Sterrantino, in quanto ne “Le Prénom” erano entrambi i futuri genitori ad annunciare il lieto evento). Vincent afferma di voler chiamare il bambino – che a suo dire sarà ovviamente maschio – come l’eroe del romanzo del 1816 di Benjamin Constant: Adolphe. Questo nome insolito e storicamente spigoloso farà scatenare una querelle infinita riportando inevitabilmente alla memoria il Führer e il nazismo. Procede inesorabile la controversia dal sapore comico ed aspro e verranno a galla rancori covati da tempo ed intimi e celati segreti, come la relazione tra Claude e la madre di Vincent e Babou. Più che palese, la profonda instabilità del rapporto che lega i quattro. Poi il cambio di registro: Vincent rivelerà di aver ingenuamente scherzato sul nome del nascituro ed Anna, a sorpresa, metterà sul piatto l’ultima delle molte verità: nessun figlio in arrivo (nell’opera di Delaporte e De La Patellière, invece, l’epilogo prevede la nascita di una bambina).
Il dibattimento su un nome, su un nome soltanto, ha scandito, in “Adolphe“, il tempo della “confessione” illuminata e senza filtri mentre il culto del lento gesto – scelta registica d’effetto – ha stemperato abilmente ogni aggressività. Il “ghigno“, sempre presente quale espressione di sprezzo, sguardo dall’alto verso il basso, ha escluso ogni piano di scambio tra gli individui. Un’analisi che non risparmia risate e che allo stesso tempo fa a fette la classe borghese “intellettuale”, tra colte ostensioni e mascherate derisioni. Ottima la prova del cast tutto: indiscusse le qualità interpretative degli attori coinvolti in un perfetto cerchio drammaturgico, sapientemente organizzato. Senza distinzioni, i quattro protagonisti hanno generato, dal primo all’ultimo istante dello spettacolo, il sistema fluido e dinamico della trama in oggetto. Le musiche di Filippo La Marca, hanno sottolineato quelle tensioni “elettriche” interne e, spesso, hanno accompagnato silenziosi movimenti scenici amplificandone i reconditi significati.
Stasera alle ore 21:00 si replica: sempre “Adolphe”, sempre alla Laudamo.
Marta Cutugno
Domenick Giliberto Fotografo