di Alfredo Nicotra
“Non ha nessun timore, completamente cieca ai loro movimenti, sorda alle loro suppliche. Come se fossero invisibili, come se fossero spiriti appena resuscitati dal bosco sacro. La prima beccata della poiana sembra addirittura una carezza, non fa alcun male”.
Ne L’età della febbre, a cura di Christian Raimo e Alessandro Gazoia (€16, pp. 329, minimum fax, 2015), un’antologia della nuova narrativa italiana, una nota introduttiva che spiega le finalità e gli scopi della raccolta accompagna i testi di undici scrittori già noti al pubblico e ai lettori. Sono undici voci nuove, eterogenee nello stile e nei temi, ma accomunate da un unico dato generazionale: essere tutti autori under 40, provenienti da un periodo storico preciso, quello che ha tagliato i ponti col Novecento, con i suoi slanci e con le sue ideologie. A condurre la totalità del lavoro è un’unica prerogativa: “cogliere il presente”. Imperativo a cui non si sottrae nessuno degli undici autori. Pur con un proprio immaginario personale, ciascuno sulla pagina riporta un frammento comune delle vite e delle esperienze condivise dai loro coetanei. Stordimenti con l’alcool e le droghe, storie di eccessi e evasioni, vite passate a sbandarsi, sensazioni di isolamento e di spaesamento, di estraneità alle cose e agli aspetti della realtà, vite precarie o in cerca di sprecarsi, che gravitano attorno a un vuoto tanto palpabile e concreto quanto insondabile, nevrosi, situazioni di sdoppiamento tra la vita pubblica e quella privata, violenza, incapacità di reazione, sensazioni di marginalità. Basta leggere la cronaca più frusta per avvertire come tutte siano “storie di questo tempo”. Ciò che risalta a una prima lettura è però la comune dis-appartenenza (quasi un accomunante isolamento) che i protagonisti di ogni racconto condividono tra di loro. Manca in essi il desiderio di prendere parte a una storia comune, a un progetto futuro. Rispetto alla generazione appena precedente, che aveva vissuto gli anni alle soglie del nuovo millennio stretta nelle stesse strade e dalla stessa parte delle barricate, a Genova quattordici anni fa, per condividere un’esperienza comune e un progetto di cambiamento, i nuovi narratori sembrano aver ripiegato verso il fondo delle loro esistenze. Strano, se si pensa che la metà di loro erano già ventenni nel 2001. Quelle raccolte ne L’età della febbre sono infatti storie intime, narrate dall’orizzonte stretto dei loro protagonisti, dentro il cerchio delle loro librerie o delle loro amicizie, senza traumi o shock generazionali che facciano da sfondo, se non quello dei loro appartamenti, delle loro abitudini, dei loro rancori, dei loro desideri e impeti irrazionali, senza nessuna fuga in cerca di un’arma, né alcuna prospettiva verso un futuro a cui opporsi. Isolati dentro un presente scollato in cui si mimano gesti minimi, dove le inquietudini hanno bisogno di una risposta veloce come i bisogni primari che devono rapidamente appagarsi. In questo presente parcellizzato spicca la scomparsa totale dei temi legati al conflitto e al lavoro, al contrario di quella letteratura del precariato che solo pochi anni fa aveva contraddistinto la narrativa recente. Adesso che l’emergenza e l’incertezza di molte vite hanno superato i livelli di guardia, sembra che la crisi si sia espansa oltre le coscienze, a un livello sottocutaneo, come un virus, e che le esistenze ripiegandosi in se stesse ne abbiano assunto interiormente il paradigma. Forse non è un dato marginale che la maggior parte delle loro vite si svolga all’interno di esistenze privilegiate, che la maggior parte dei protagonisti appartenga ad una classe sociale medio alta, con i suoi tic e le sue irrazionalità. Che l’indagine della società che li circonda, siano a Roma, a Torino, Berlino, Milano, Stoccolma o nella provincia, sia vista da occhi “educati”. E tuttavia un’“inaspettata comunione” lega sotterraneamente questi testi, sebbene dal punto di vista stilistico e linguistico gli autori non tendano alla ricerca di nuovi linguaggi o a eccessi sperimentali, ma a un’aderenza al presente, a un realismo con punte più o meno marcate di espressività. Ciò che essi raccontano è un presente fuori dalla cronaca e dal sociologismo, aggredito nelle zone periferiche della realtà, nelle sensazioni e nelle angosce intime dei loro personaggi e che nella dimensione distopica dei racconti di Emmaneula Carbé e di Paolo Sortino assume una valenza emblematica. Raccontano questo fondo comune Le cose che lui ha fato per arrivare a te di Violetta Bellocchio, in cui l’esistenza di un ragazzo è impegnata nel non lasciare tracce di sé, bruciando ogni mattina i capelli e le unghie appena tagliati; Quel sollievo di Vincenzo Latronico, il cui protagonista riprende una doppia vita di dissoluzione e di eccessi, che una moglie e una famiglia borghesi avevano temperato; Il casco verde di Paolo Sortino, il più rappresentativo di questo desiderio nascosto di distruzione, dove una comunità di adolescenti di provincia decide di sterminare quanti abbiano superato i sedici anni per dar vita a un Gioco in cui non sarà meno contemplata la loro stessa morte; o Television version di Antonella Lattanzi, dove una festa in un pub romano si conclude nella tragedia e nell’irrazionalità di un gesto omicida e distruttivo. Negli altri racconti questo fondo è meno palese ma se ne possono trovare tracce evidenti, come nella storia di Cleopatra va in prigione di Claudia Durastanti e in Alta marea di Emmanuela Carbé, il cui racconto ruota intorno alla necessità di deprivazione emotiva e sensoriale della protagonista che vive in un futuro sempre più sintetico. Quelle che ci vengono mostrate sono tutte vite in attesa di una segreta fame di sparizione e di autodistruzione. Sospinte da correnti pulsionali e da un desiderio di annichilimento. Un filo nero che lega tutti gli undici racconti e ci lascia la sensazione di vivere in un presente inquieto e inquietante. È un desiderio sottile di andare verso la propria autodistruzione per arginare il vuoto quello della protagonista di Un posto nel mondo di Rossella Milone, vittima tacitamente consapevole di un rito sacrificale che rievoca quello descritto da J. Frazer nel Ramo d’oro. Non stupisce quindi se ciò che in questi racconti è sparito sono gli altri, le relazioni e i rapporti con il mondo fisico, il lavoro, la società: il presente è quest’attesa di sparizione. Se per febbre si intendeva l’effetto di un’infezione strisciante, il segno di una malattia profonda nei tessuti della realtà, allora in questi testi cova già ciò che ci sta infettando.
L’età della febbre. Storie di questo tempo, a cura di Christian Raimo e Alessandro Gazoia, €16, pp. 329, minimum fax, 2015