di Lucia Tosi
Scrivere poesia e scrivere “di” poesia è una delle tante condizioni schizoidi del nostro tempo che sono solita definire – etimologicamente – “infame”, ma che possiamo benignamente definire almeno “difficile”: le preferirei, in via del tutto teorica, separate per ragioni che, forse, avevano un senso anche in passato, ma che oggi mi paiono più fortemente motivate. Nella storia le funzioni di creativo e di critico – senza scomodare l’accezione barthesiana di tale duplice, ma congiunta condizione – sono state spesso associate in uno stesso soggetto: grandi poeti si sono espressi frequentemente in veste di critici, attraverso prefazioni all’opera di altri poeti loro contemporanei o del passato, o fornendo delle valutazioni più generali sull’ufficio della poesia, sulla sua natura, sullo stato che di essa erano in grado di osservare sincronicamente.
Non credo sia mai stato facile descrivere l’operato altrui in campo letterario essendo artefici nell’identico mestiere: Montale lo ha fatto con acume e al tempo stesso accessibilità, lontano dai preziosismi e dalle oscurità che, al contrario, a volte attraversano le sue poesie; ma ogni qualvolta gli fu richiesto di dare una valutazione sulla propria poesia mostrò un certo imbarazzo: istruttive sono tuttavia le osservazioni circa il suo modo di comporre (che ricorda l’ “ideare stendere verseggiare” di Vittorio Alfieri). Dice, infatti, in una nota intervista radiofonica raccolta in Sulla poesia, Mondadori, 1976, di scrivere velocemente, “con pochi ritocchi”, dopo una lunga gestazione o “incubazione”. Non sa di avere delle “intenzioni”: scopre di averne avute dopo aver letto cosa dicono della sua poesia i critici; a volte scopre di sé cose che non sapeva, sostiene, al contrario, di non essere assolutamente d’accordo, altre volte, con le interpretazioni circa le proprie intenzioni: il che potrebbe costituire un vezzo, ma preferisco crederla una vera e propria poetica. Oggi, invece, molto volentieri tanti, che godranno, nella più superba delle ipotesi, di un trafiletto collettivo nelle storie letterarie marziane, parlano diffusamente del loro fare poesia. A questo punto si rende necessaria la seguente
[parentesi quadra, come per abbassare il tono di voce e ammettere, per onestà, in apertura di questi – se funzioneranno – “colloqui” (spero lo diventino) o divergenti divertimenti (divertissement è parola già troppo impegnativa): chi scrive è abituata a definirsi con amabile ferocia, da qualche anno, una vecchia signora di troppe letture, afflitta da una drammatica deformazione professionale che so fa sorridere i più: l’uso della penna rossa; l’altro aspetto è che la vecchia signora, nonché temibile professoressa di italiano e latino, ha avuto la malaugurata idea di mettersi – per quanto tardivamente e quindi con minor danno – a scrivere poesie: mi tocca dichiararlo, mi dispiace per la brutta notizia, cari i miei venticinquemila lettori, perché non mi piacciono i segreti: e se non ve lo dico io, come fareste a sapere che scrivo poesia? Niente gabbiani e vecchie nonne, né tramonti, ma per certo so che quella roba che potete trovare a mio nome in rete e che, bontà loro, a chi l’ha letta e collocata, nemmeno dispiace, è lontanissima da ogni oscurità, e orfismo, e novecentismo, e avanguardia e avanguardismo; è zeppa di tradizione; tende al grado zero in un modo che sembra programmatico: e invece “intenzionale” non è. Se leggo roba d’altri – che a volte desidero spasmodicamente aver scritta io – sorrido di beatitudine se si tratta di cose come questa:
Come se ci fosse altro tempo, oltre a questo,
altri giorni per sentire questo freddo
salutare, imparare un’altra lingua,
bussare a una porta socchiusa, entrare –
le processioni sulle auto sul corso, l’intuizione
di un bene nascosto al di là
di tutti i muri e che solo rinunciando
a tutti i muri brillerà
(come la tavola del mare corrugata
dalla brezza scintillava
di origine ai prime raggi dell’alba).[…] Massimo Gezzi, Ultimo trasloco
mentre m’impensierisco e mi ritraggo perplessa se leggo cose così:
quale imbrunire mi offuscherà la fronte
nella schiera di nuvole nemiche
scacchiere senza angeli di fianco.
oggi il diverbio è pastore di se stesso
quasi un convulso esodo di stasi
verso l’ombra che per tutti c’è.
in un buio di casale voglio l’occaso
della pace. in primavera si addice
la mia voglia di avverare aiuto
almeno alle fontane senza acqua
battesimali di cenere per sempre.
la croce sulla fronte non basta
il salario di essere felici, anzi
la casta delle ronde tonifica il demonio.[…] Marina Pizzi, da “Cantico di stasi”
con il che non si danno – per lo meno qui e per il momento – giudizi di valore, ma vengono fissati, intuitivamente, i due poli “antagonisti” della poesia che chiamo, per comodità, contemporanea-contemporanea, essendo poeta contemporaneo, secondo la tradizionale scansione degli studi letterari, anche Carducci. Questa è poesia di oggi: tra i due poli c’è molto, e anche di tutto. Chiudo la parentesi quadra istituita a mo’ di un famoacapisse].
Parlare di poesia, dunque: che attualmente significa soprattutto recensire, prefazionare, postfazionare. Non vedo libri di poesia contemporanea-contemporanea accompagnati da commento in calce al singolo testo (e solo Dio sa quanti ne avrebbero bisogno: poi, dice, la poesia non la legge nessuno: ma per forza!), cosicché i testi circolano muti e solinghi, perpetuando la cattiva fama della poesia di essere prodotto di nicchia, come certi preziosi tartufi odorosi, costosi e rinunciabilissimi o come certe belle donne corteggiatissime, ma rimaste al palo. Svincolando i singoli componimenti dal bisogno di note-guida, che pretenderebbero l’esercizio di una puntualità d’altri tempi, nelle pre e nelle postfazioni, così come nelle recensioni di lancio o nelle articolesse soporifere tipiche di certi blog dedicati, la tendenza che si osserva è quella di un ritorno (ma forse taluni non se n’erano nemmeno mai allontanati) a modalità di critica stilistica di impianto idealista (leggi: viscerale). Il critico – spesso poeta egli stesso – svolazza in tutta libertà dall’impasto linguistico alla semantica con osservazioni per le quali il lettore non specialista, ancorché non ingenuo, ringrazia sentitamente quanto un esquimese cui fosse regalato un frigorifero. Dopo di che costui smette di leggere, si fa l’idea che la poesia sia troppo scontata o troppo difficile: se è troppo alla mano, se permetti mi leggo un romanzo che almeno mi raccontano una storia (e questo è quanto di più irriducibile esista in ambito letterario: la curiosità, che vuole essere soddisfatta), se è troppo difficile, lo sforzo sovrumano di capire non stuzzica, bensì genera perplessità e noia.
Usciti dalla scuola, i più, male educati alla poesia già nel corso di studi (e la distanza rimane anche in chi si dedica a studi letterari: quanti, tra questi, si scusano di non leggere poesia, di non sentire per essa nessuna inclinazione, di non sapere da che parte prenderla e di preferirle di gran lunga il romanzo?), letti poco e male i classici, dedicati un paio di mesi di tutta una vita al Novecento (cioè la triade Ungaretti-Montale-Quasimodo), la grande massa – che legge di norma quasi nulla, nonostante sia, in percentuale, ben più scolarizzata di tre decenni fa – non si accosterà più alla poesia. O meglio: vi si accosteranno in molti, ma paradossalmente da “autori”! Il problema è dunque nell’educazione al consumo costante e corretto di poesia da un lato, fin dalla più giovane età, dall’altro nel continuare a rendere interessante, con strumenti certi, riconoscibili, paradigmatici (ed è interessante ciò che è complesso, ma comprensibile), la lettura di poeti – che non siano i soliti vincitori del premio Città di ****, o i menzionati al festival della provola o dell’asparago, cioè i domenicali “estremi”.
Ciò è possibile se, sul fronte critico o paracritico, si smette di “narrare” funambolicamente, con quell’assurdo e dannoso linguaggio che lamentavo nella puntata precedente, i contenuti, le “intenzioni” dell’ultima plaquette dell’amico, quando non il proprio lavoro addirittura, ma si affronta, con chiarezza e precisione di analisi a più livelli, un lavoro di scandaglio che colga i valori connotativi di un testo, che ne illustri le scelte lessicali, i temi, che lo metta in relazione ad altri testi dello stesso autore e di altri autori; che parli del ritmo, della musicalità o dell’antimusicalità; che rapporti il testo alle valenze socioculturali di un’epoca, ricostruendo la personale simbologia di un autore ecc. ecc.
Ma per poter fare ciò il testo e l’autore devono permettere l’approccio, che chiamerei jakobsoniano, intendendo con questo un metodo rigoroso di segmentazione del testo: le rime, il metro, la struttura sintattica in rapporto al metro, la struttura fonica, le scelte lessicali, le figure retoriche, per poi passare a evidenziare il testo come sistema che si apre ad altre relazioni, vale a dire cercare altri testi di cui è/può essere tributario, e le questioni storiche e ideologiche a cui rimanda ecc. Senza questo – che può apparire un’operazione scolastica – i testi contemporanei-contemporanei dei grandi e dei meno grandi rischiano la solitudine iperinterpretativa, l’attribuzione di quell’intenzionalità, di cui diceva Montale, talora del tutto im-pertinente e sterile.
Il testo da scoprire, però, deve essere già un testo “scoperto” o aperto. La cri(p)ticità testuale (il secondo polo esemplificato in apertura) non consente indagini, semmai elucubrazioni del tutto opinabili; quanto più il testo è oscuro, tanto meno permette – sembra una cosa ovvia, ma nella pratica le cose paiono simmetriche – una penetrazione di indagine che lo disveli e lo renda fruibile, amico, interessante. Il testo oscuro – orfico, ermetico, tardoermetico – diventa perciò scarsamente po(i)etico: non consente un discorso “su”, né “con”; si avvoltola su se stesso, non si relaziona; è un sistema chiuso; genera il sospetto che, non potendone dire, non ci sia niente da dire; che, presentando un eccesso di rotture con il linguaggio comune (che non è, in poesia, mai e poi mai veramente comune: se non nei domenicali estremi: e tuttavia havvi dei domenicali estremi alquanto criptici, per non dir sconclusionati), pullulando di troppi scarti, si tratti di poesia di scarto, o, in alternativa, di una gran “rottura“.
L’ha ribloggato su maurizioalbertomolinarie ha commentato:
Davvero un testo interessante, davvero una poeta interessante… 🙂
Nel panorama scopro d’essere forse l’eccezione. Scrivo in poesia (o, almeno, lo presumo), ma non sono un critico. Sicché, cara vecchia signora, nonché temibile professoressa di italiano e latino, è in tale qualità che commento.
Condivido “le rime, il metro, la struttura sintattica in rapporto al metro, la struttura fonica, le scelte lessicali, le figure retoriche, …”. Anzi, credo che il confronto, la sfida – oserei dire – con gli schemi e i contenuti “classici” debba essere accettata, più che evitata. Ma mi soffermo su un altro punto, in particolare.
“Il testo da scoprire, però, deve essere già un testo “scoperto” o aperto. La cri(p)ticità testuale (il secondo polo esemplificato in apertura) non consente indagini, …”
Non sono certo di avere ben capito. Ritengo che il valore polisemico di un testo poetico non possa in sé, e spesso non per scelta deliberata, essere scevro da una certa “cri(p)ticità”. Per “scoprire” Montale non bastano cento letture. La poesia è un linguaggio, tanto più articolato e complesso, quanto più articolato e complesso è il background di chi scrive. Non penserei mai di poter capire una lingua straniera, se non la conoscessi almeno nei suoi rudimenti. Credo, ma forse dico una cosa scontata, che talora solo una metodica rilettura, magari diluita in tempi lunghi, possa essere d’aiuto nello “scoprire” un testo.
di quale “apertura” del testo intendessi, mi pareva abbastanza chiaro: ma forse non mi sono spiegata bene. intendo dire che vada per associazioni anche lontanissime (la metafora non sarebbe, altrimenti, la “regina” della poesia), vada per una “grammatica” interrupta, con qualche sconnessione (anfibologie sintattiche, per esempio): ma quando incontriamo gerundi assoluti, verbi che reggono ciò che non possono reggere e il tessuto fonico non produce legami alternativi ai normali legami sintattici, ho qualche dubbio sulla “tenuta” di un testo. non sono la paladina del testo scritto unicamente per il lettore: questo nemmeno in prosa (mentre molto romanzo e racconto si capisce benissimo che sono scritti tenendo d’occhio il destinatario potenziale): credo sia giusto scrivere “per sé”. ma poi non si scrive mai unicamente “per sé”: come si decide di scrivere, la cosa scritta è destinata ad essere letta, anche se confinata in un secretaire. se si sceglie l’italiano, che italiano sia! è una lingua così ricca che non è necessario accrescerne il potenziale espressivo con tripli salti mortali carpiati. è una lingua che ha endecasillabi e settenari nascosti in ogni nostra più semplice frase che pronunciamo. è una lingua che canta anche quando la vogliamo far stonare artificialmente. i testi che si “ribellano” a questo dato di natura hanno avuto un senso e una funzione storica secondo me ormai esaurita (avanguardia e neoavanguardia).
ora nessuno più chiede che il metro sia regolare (personalmente cerco di scrivere apposta secondo rime e ritmi tradizionali per poi sfrangiarli in altro), abbiamo abbattuto definitivamente generi (lirico, epico, civile, elegiaco, d’occasione, erotico) in una bellissima commistione: come dico sempre, avanti, avanti, c’è posto per (quasi) tutti. però però però… nessuno è riuscito in quarant’anni di studio “specialistico” a convincermi della bontà di testi “inspiegabili”. la ricchezza polisemica di un testo è altra cosa dalla sua impenetrabilità. può essere pure che sia dura di orecchio e di comprendonio: ma una cosa è penetrare “Gli orecchini” di Montale, un’altra certi testi di oggi che insistono in una autoreferenzialità in cui tutto, a quel punto, poiché opaco, va accettato per statuto. certa poesia, all’aperto o introvabile nel cassetto dimenticato, incide tanto uguale. suppongo si tratti anche di gusto: ma per il gusto avremo vari appuntamenti. grazie, raffrag, per aver commentato!
D’accordo con la sostanza dell’articolo, ma visto che hai citato due esempi di poesia completamente opposti, perché non andare oltre e usare gli strumenti che tu stessa citi per mettere in evidenza, in una sorta di analisi comparativa, gli elementi testuali e extratestuali che fanno del primo frammento un esempio di chiara espressione poetica e del secondo una crptica elencazione di sintagmi? Dico per dire…in ogni caso bella riflessione.
perché queste sono le puntate introduttive. sul terreno più proprio dell’analisi di singoli testi e/o di riflessione su un autore avrò da fare più avanti: se non mi cacciano prima! ho cercato di spiegare i meccanismi di qualcosa di più lontano, che precede la comprensione vera e propria di un testo: l’impressione; e, allo stesso tempo, ho dichiarato, il più leggermente possibile, dove sto io, per quella complicazione di cui parlo in apertura: scrivere/scrivere di poesia. un’analisi esemplificativa dei due testi richiedeva inoltre altre cinquemila battute. grazie per l’ottima osservazione, Anna Maria!
Se non l’hai intuito(e ne dubito)sto anch’io dalla tua parte. Occhio!!!
Ok, pienamente d’accordo sulla sintassi. Personalmente, resto sospeso sui gerundi sospesi e gradisco lo schema soggetto verbo complemento. Grazie a te.