a cura di Diego Conticello
Oggi postiamo alcune poesie di Stefano Visigalli, giovanissimo poeta formatosi tra studi pedagogici e scienze psicanalitiche. I suoi versi sono intrisi della tradizione novecentesca, talvolta fino allo spinto mimetismo di autori quali Sereni, Luzi e, soprattutto, De Angelis, le cui ambientazioni quotidiane e il linguaggio a tratti dimesso, riecheggiano palesemente. Talvolta riscontriamo ancora dei passaggi a vuoto, dovuti in pirmis all’uso di terminologie o sintagmi di vezzo vetero-tradizionalista che richiamano ancora certo frusto romanticismo minore o la più sommessa produzione pascoliana (…innumerevoli, mai morti,/ mi chiamarono/ dalla periferia delle loro tombe…), o intrisi di certo dannunzianesimo epigonale (Tra i cespi e i rampicanti/ ed i ginepri all’alba/ rugiadosi e scuri come le pelli/ di una ragazza innamorata). Tuttavia qualche “accensione” emerge senza dubbio: “Conservati,/ conserva l’onda del respiro fino all’accensione folle/ dello sguardo, fino ai minuti che ti compiranno/ esatta creatura di te stessa, alla terra nata per ardere/ nel furore del tuo bene”; oppure: “a quei rari richiami che s’alzano dal mare”, con notevole intarsio di allitterazioni, iterazioni e assonanze.
In conclusione riscontro, ma forse solo per deformazione “geografica”, evidenti consonanze con un altro poeta e psicanalista, certamente non fra le letture del nostro giovanissimo, ma egualmente consimile: il Basilio Reale de L’esistenza amorosa.
I miei Padri
Ci fu un tempo
in cui scesi a patti
coi miei Padri.
Innumerevoli, mai morti,
mi chiamarono
dalla periferia delle loro tombe,
mi chiesero di innalzargli fuochi
alle passate glorie, e di tacere
per una volta una soltanto,
in tutta la mia vita.
Tra i cespi e i rampicanti
ed i ginepri all’alba
rugiadosi e scuri come le pelli
di una ragazza innamorata,
come tanti Giobbe,
mi lanciarono addosso
le loro subite angosce.
Come fossi Dio,
mi domandarono il perdono:
non che non volessi,
ma proprio non potevo. Ecco tutto
non potevo darglielo
seppure numerose fossero le loro colpe.
Il Padre dei poeti mi imputò
di aver disonorato la mia lingua:
gli dissi che mai fu mia, che la lingua appartiene
alle valli, ai pesci dorati agli alberi ed in fine
a Dio.
Il Padre della medicina
mi accusò di avere fatto
della sua scienza
una filosofia.
Mi consigliò di dar fuoco alle mie idee,
ed io lo feci,
ed ora ardono maggiormente,
pena il suo scontento.
Il Padre della psicoanalisi mi rinfacciò
di non esser stato un buon servitore.
Mio padre mi disse,
appena qualche giorno addietro,
che sono troppo, davvero troppo
disordinato per avere quasi trentanni.
E così mi feci uomo.
Lascito
Col suo bastimento il tempo mi divora.
Ah quanto l’ho implorato
per un po’ di solitudine
per un faccia a faccia sereno con la morte…
Vorrei dirti che sono abbastanza
questi anni, che quelli che verranno
sono solo schiuma gialla debordante ma
è troppo nudo il mio cuore per incontrarti.
E così nemmeno ti ha infatuata
lo scatto d’orologio esattamente ci compenetra
quando l’anima mia dal corpo tuo immaginata
si mostrava nella sua spirituale nudità.
“Faremo della pedagogia
con questa manciata di giorni
e una buona poesia perché ritorni
quel sereno sconsolarmi come una puttana”
Ma lo so, lo so
l’hai detto sempre:
il mio linguaggio incide
il segreto dei tuoi giorni fino al salto:
E la corsa che ti salva
è quella che ti uccide.
Nell’attesa
X FDB
I
Ai piedi del monte che il gallo spiumi io aspetto
e la luna col suo rauco canto di selvaggia
a te apparento l’intimo furore dell’anima:
non gravare di te stessa una te stessa altra
che questo nostro atroce tempo chiede:
non lasciare che lo scorrere
delle voci ti levighi secondo
il suo assurdo comandamento. Conservati,
conserva l’onda del respiro fino all’accensione folle
dello sguardo, fino ai minuti che ti compiranno
esatta creatura di te stessa, alla terra nata per ardere
nel furore del tuo bene.
II
Lontane si fanno nella sera le voci al tuo ricordo
mentre il morso della distanza morde silenzioso
ed io in quest’ombra ti vedo assomigliare
a quei rari richiami che s’alzano dal mare
come maschere che un dio abbia riposto
rosse nel mistero.
III
Poi tu lo vedessi il muro grigio dietro alla piazza
e noi e loro disuniti, dove il lago tace e nel suo occhio
gorgheggia l’anatra selvaggia, il lupo.
Di qui la via sale della mia memoria ad un’altura
che improvvisa mette nelle case di rifugio del ’45, e ne sentirai
l’odoro di legno e resina e il sangue col coltello ben piantato
nel Golgota.
La chiesa di paese ha
un rosone bucato, dove si annidano i colombi e sotto
le vecchie che li nutrono a primavera.
Nelle sere io ti porto alle tue labbra, a queste pelli e al dottore, bianco
che ripete
si fermi adesso, la prego se ne deve andare
perché l’abbiamo toccato. E non c’è più niente da fare.
IV
Scendevo un giorno per i parchi e ti trovavo
mischiata alla terra e nel tuo ventre come un fiore
sorgevano le genesi e cantori si arricchivano
delle nostre braccia all’orizzonte.
Adesso guardami.
La montagna crepa il suo destino
qui dove si lasciò morire il fiume e non ottunderlo tu
se a metà del corpo senti che la fitta sale: è il mio male,
il mio bene che da sempre mi perseguita
a volerti così tanto bruna, così felicemente
addolorata.
Non
Non abbiamo avuto tempo, e non ne avremo, insieme
per sfogliare cataloghi con bei panorami
e decidere se è meglio là o altrove
di vivere il nostro posto di vacanza;
nemmeno c’è stata una volta o ci sarà
in cui abbiamo scelto o sceglieremo
il colore del tavolo per la cucina
le piastrelle canarino o mattone del terrazzo;
l’erba da far crescere sui davanzali
è appannaggio dei nostri sogni alternati:
nessuna occasione per tradirti, per tradirmi
ma soltanto un lungo tempo, una perentoria accusa.
Quell’unica volta in cui fummo uno davanti all’altra
per decidere nient’altro che di noi, non decidemmo;
perché non abbiamo avuto padri, o forse perché di loro
non siamo veramente mai stati figli.
Passaggio notturno
Jakin è qui che canta ogni notte nella mia stanza
mi instilla nel sangue i suoi incubi
vuole portarmi nel suo tormento, nelle sue tante donne
appena toccate, appena godute.
Vuole sapermi santo, vuole sapermi peccatore,
mi dice conosco il tuo amore segreto
ma se non apri bocca
allora hai perduto.
Io lo invito ad ascoltare il suono che fanno
i miei respiri contro la strada;
lui dice che il Silenzio è la maggiore preghiera.
Ma io che ascolto il fragore del suo mutismo
lo imploro acché mi faccia Isacco.
Gli imploro un sacrificio
ma lui risponde che
i miei amori gemelli non sono fuggiti:
stanno nel cerchio della mia vita
in un punto che è dovunque.
Scende dal soffitto con la sua ombra
e mi confessa
con le dita ossute della sua mano bianca e avvizzita
le piaghe di Cristo suppurate e lerce.
Allora mi dice:
tu guarda,
da esse nasceranno gigli e il suo sangue debordante vestirà di velluto la tua sposa
Io lo guardo senza capire. Mi chiedo da dove venga,
da quale martirio sia venuto.
Come un cartomante mi dice
io vengo dalle tue palme
io vengo dalla tua colpa.
Come un cartomante sussurra
loro sono la tua colpa
la tua salvazione.
Un giorno
Un giorno mio padre venne a dirmi, mi disse
Dio quanto sei complicato.
Aprì la porta del bagno e lo disse
quasi come una domanda
a cui io dovetti rispondere nell’avvenire degli anni,
poiché non esistono gli anni a venire
ma solo un farsi spirale delle cose.
Quando mi partorì mia madre
avevo il collo attorto nel rampicante
della sua carne: ho sempre ricercato quella stretta
che un po’ uccide ed un po’ salva.
Una ragazza venne a dirmi: tu non conosci
il giappone?
Ora la vedo che si toglie le ciabatte per venire a letto
o mi ritrovo il suo volto smascherato contro la mia smascherata maschera
sempre più esile.
Io a chi ho incontrato non ho chiesto di restare:
ho voluto restargli,
fosse anche nella colpa, fosse anche nel dolore.
***
Nota bio-bibliografica
Stefano Visigalli nasce nel 1992 a Milano. Studia Scienze dell’Educazione all’Università Bicocca. Sue poesie sono uscite sui blog Atelier e Parco Poesia, e per quest’ultimo ha scritto e curato alcune puntate della rubrica “Tra maestri”, dove ha messo in dialogo poeti contemporanei con alcuni grandi del passato (Milo De Angelis/Pavese e Stefano dal Bianco/ Zanzotto). Nel numero di marzo 2014 della rivista “Poesia” di Crocetti Editore è uscita una sua breve silloge, intitolata “Interni”, con una introduzione di Maria Grazia Calandrone. E’ stato presentato, all’interno della decima edizione di Parco Poesia, da Milo De Angelis. Due suoi racconti sono usciti sul blog letterario “Emergenza Scrittura”.
Tra i suoi interessi di studio vi sono la psicoanalisi, la psicologia analitica, l’antropologia e la pedagogia (e, più in generale, le scienze umane).