a cura di Marco Malvestio
I testi delle poesie in inglese sono tratte da Un arcobaleno perfettamente normale (Torino, Adelphi, 2004). La traduzione di Gaetano Prampolini non ha potuto non essere un punto di partenza prezioso.
The Gum Forest (1977)
After the last gapped wire on a post,
homecoming for me, to enter the gum forest.
This old slow battlefield: parings of armour,
cracked collars, elbows, scattered on the ground.
New trees step out of old: lemon and ochre
splitting out of grey everywhere, in the gum forest.
In there for miles, shade track and ironbark slope,
depth casually beginning all around, at a little distance.
Sky sifting, and always a hint of smoke in the light;
you can never reach the heart of the gum forest.
In here is like a great yacht harbour, charmed to leaves,
innumerable tackle, poles wrapped in spattered sail,
or an unknown army in reserve for centuries.
Flooded-gums on creek ground, each tall because of each.
Now a blackbutt in bloom is showering with bees
but warm blood sleeps in the middle of the day.
The witching hour is noon in the gum forest.
Foliage builds like a layering splash: ground water
drily upheld in edge-on, wax-rolled, gall-puckered
leaves upon leaves. The shoal life of parrots up there.
Stone footings, trunk-shattered. Non-human lights. Enormous
abandoned machines. The mysteries of the gum forest.
Delight to me, though, at the water-smuggling creeks,
health to me, too, under banksia candles and combs.
A wind is up, rubbing limbs above the bullock roads;
mountains are waves in the ocean of the gum forest.
I go my way, looking back sometimes, looking round me;
singed oils clear my mind, and the pouring sound high up.
Why have I denied the passions of my time? To see
lightning strike upward out of the gum forest.
La foresta di eucalipti (1977)
Dopo l’ultimo steccato fatiscente
rincasare, per me, è entrare nella foresta di eucalipti.
Un campo di battaglia antico, assorto:
brandelli di armatura, protezioni,
collari spaccati sparsi sul terreno.
Nuove piante spuntano dalle vecchie:
limone e ocra sorgono dal grigio
ovunque, nella foresta di eucalipti.
Una pista nell’ombra, per chilometri,
tra cortecce dure come acciaio:
profondità che ti comincia tutta intorno
senza ragione.
È come un ampio porto qui, con armamenti
infiniti tramutati in foglie, pali
involti in vele spruzzate,
un esercito ignoto accampato da secoli.
Eucalipti presi nella piena
del torrente, ciascuno alto grazie all’altro.
Quello, fiorito, è immerso dentro un bagno
d’api, ma il sangue caldo
s’addormenta, a mezzogiorno.
È quella l’ora delle streghe
nella foresta di eucalipti.
Il fogliame crea una pozza a strati:
foglie su foglie trattengono biliose
e raggrinzite l’acqua del suolo.
La banda dei pappagalli, più in alto.
Basi di pietra sbriciolate dai tronchi.
Luci non umane. Giganteschi
macchinari in abbandono. I misteri
della foresta di eucalipti.
Delizia per me, tuttavia, ai torrenti furtivi,
e salute per me, sotto candele e pettini di banksia(*).
Un vento
sfrega i rami alti sui sentieri;
le montagne sono onde nell’oceano
della foresta di eucalipti.
Ora guardandomi indietro, ora guardandomi attorno,
vado per la mia strada;
essenze mi sgombrano la mente,
e, là più in alto, il suono della pioggia.
Perché ho rinnegato le passioni
della mia vita? Vedere il lampo
innalzarsi dalla foresta di eucalipti.
*: “Genere di piante australiane, arboree e cespugliose, con foglie coriacee e spesse inflorescenze cilindriche” (Prampolini).
The future (1977)
There is nothing about it. Much science fiction is set there
but is not about it. Prophecy is not about it.
It sways no yarrow stalks. And crystal is a mirror.
Even the man we nailed on a tree for a lookout
said little about it; he told us evil would come.
We see, by convention, a small living distance into it
but even that’s a projection. And all our projections
fail to curve where it curves.
It is a black hole
out of which no radiation escapes to us.
The commonplace and magnificent roads of our lives
go on some way through cityscape and landscape
or steeply sloping, or scree, into that sheer fall
where everything will be that we have ever sent there,
compacted, spinning – except perhaps us, to see it.
It is said we see the start.
But, from here, there’s a blindness.
The side-headed chasm that will swallow all our present
blinds us to the normal sun that may be imagined
shining calmly away on the far side of it, for others
in their ordinary day. A day to which all our portraits,
ideals, revolutions, denim and deshabille
are quaintly heartrending. To see those people is impossible,
to greet them, mawkish. Nonetheless, I begin:
“When I was alive–”
and I am turned around
to find myself looking at a cheerful picnic party,
the women decently legless, in muslin and gloves,
the men in beards and weskits, with the long
cheroots and duck trousers of the better sort,
relaxing on a stone veranda. Ceylon, or Sydney.
And as I look, I know they are utterly gone,
each one on his day, with pillow, small bottles, mist,
with all the futures they dreamed or dealt in, going
down to that engulfment everything approaches;
with the man on the tree, they have vanished into the Future.
Il futuro (1977)
Niente, in fondo. Molta fantascienza
ci è ambientata, ma non ne tratta. Così le profezie.
Non piega gli steli al millefoglio. Il cristallo è uno specchio.
Anche l’uomo che abbiamo inchiodato
di vedetta a un albero ha saputo dirne poco;
giusto che sarebbe venuto il male.
Ne vediamo, per convenzione, un pezzo piuttosto breve,
ma anche quella è una congettura. E ogni congettura
non sa seguire il suo snodarsi.
È un buco nero
da cui non arriva alcuna radiazione.
Le ordinarie e magnifiche strade delle nostre vite
si portano per paesaggi urbani e selvaggi,
o per pendii franosi, improvvisi, fino a un baratro
dove non ci sarà che quello che ci abbiamo
spedito, compattato, orbitante – eccetto forse noi, per poterlo vedere.
Si dice che ne vediamo l’inizio. Ma da qui non c’è che cecità.
La fossa scavata che inghiottirà il nostro presente
ci rende ciechi per quel sole che si può immaginare
ordinario, mentre splende calmo
dal punto più lontano, per altre persone
nella loro giornata tipo. Un giorno in cui
ogni nostro ritratto, ideale, rivoluzione,
paio di jeans, deshabillé
si farà stranamente malinconico. Impossibile
vedere quella gente, salutarla patetico.
Comincio, tuttavia: “Quand’ero vivo” – e già mi sono girato
ritrovandomi a guardare un allegro picnic,
le donne in mussola e guanti
a gambe coperte, secondo decenza,
gli uomini con barba e gilè,
lunghi sigari, bei pantaloni,
a rilassarsi sotto una veranda
in pietra. A Ceylon o a Sydney.
E mentre guardo, so che sono tutti
svaniti, ciascuno nel suo giorno,
con cuscino, bottiglie, nebbia,
con tutti i futuri sognati progettati,
scendendo in quell’abisso cui tutto si avvicina;
come l’uomo sull’albero, sono svaniti nel futuro.
The Hypogeum (1983)
Below the moveable gardens of this shopping centre
down concrete ways
to a level of rainwater.
A black lake glimmering among piers, electric lighted,
windless, of no the depth.
Rare shafts of daylight
waver at their base. As the water is shaken, the few
cars parked down here seem to rock. In everything
there strains that silent crash, that reverberation
which persists in concrete.
The cardboard carton
Lorenzo’s Natural Flavour Italian Meat Balls has foundered
into a wet ruin. Dutch Cleanser is propped at a high
featureless wall. Self-Raising Flour is still floating
and supermarket trolleys hang their inverse harps,
silver leaking from them.
What will help the informally religious
to endure peace? Surface water dipping into
this underworld makes now a musical blip,
now rings from nowhere.
Young people descending the ramp
pause at the water’s brink, banging their voices.
L’ipogeo (1983)
Sotto i giardini mobili di questo centro commerciale
giù per corridoi in cemento
fino a un piano di acqua piovana,
un lago nero che balugina tra moli,
illuminato artificialmente, senza vento né profondità.
Fasci rari di luce diurna
tremolano alla propria base. Come l’acqua si muove, le poche
macchine parcheggiate quaggiù
paiono beccheggiare. In ogni cosa
si tende quello schianto silenzioso,
quell’onda che persiste nel cemento.
La scatola di cartone
Da Lorenzo polpette al naturale
è naufragata in un fradicio scempio.
Detersivo Olandese appoggia sull’alto
identico muro. Ancora galleggia
Farina Autolievitante, ed i carrelli
pendono come arpe rovesciate
da cui cola argento.
Cosa aiuterà i credenti ma non praticanti
a sopportare la pace? L’acqua di superfice che stilla
in questo oltretomba tintinna melodiosa, ora,
ora fa cerchi nel nulla.
I giovani che scendono la rampa
si fermano, rumorosi, al margine dell’acqua.
The Dark (1983)
The last interior is darkness. Befuddled past-midnight
fear, testing each step like deep water, that when you open
the refrigerator, cold but no light will envelop you.
Bony hurts that persuade you the names of your guides now
are balance, and gravity. You can fall up things, but not far.
A stopping, teeming caution. As of prey. The dark is arbitrary
delivering wheeled smashes, murmurings, something that scuttled,
doorjambs without switch. The dark has no subject matter
but is alive with theory. Its best respites are: no surprises.
Nothing touching you. Or panic-stilling chance embraces.
Darkness is the cloth for pained eyes, and lovely in colour,
splendid in the lungs of great singers. Also the needed matrix
of constellations, flaring Ginzas, desert moon, apparent snow,
verandah-edge sight rain. Dark is like that: all productions.
Almost nothing there is caused, or has results. Dark is all one interior
permitting only inner life. Concealing what will seize it.
Il buio (1983)
L’ultimo interno (*) è il buio. Insonnolita paura della notte inoltrata,
che prova ogni passo come in acqua fonda, e se alla fine
arrivi ad aprire il frigorifero, non la luce ti avvolge, ma il freddo.
Ossa ammaccate ti persuadono che le tue guide, ora,
sono equilibrio e gravità – puoi inciampare, ma non cadrai lontano.
Densa cautela circospetta, come di preda. Il buio elargisce
a sua discrezione urti improvvisi. Il buio non ha argomento
ma è pieno di teoria. Le sue tregue: l’assenza di sorprese.
Niente che ti tocca. O abbracci fortuiti che sedano il panico.
Il buio è una benda per occhi sofferenti, gradevole al colore,
splendido nei polmoni dei tenori. È anche ciò che solo genera
le costellazioni, ginza (**) sfavillanti, lune deserte, neve brillante,
pioggia notturna che batte sulle tegole. È questo il buio: tutta messa in scena.
Niente che abbia cause o risultati. Il buio è un unico interno
che permette solo vita interiore. E nasconde ciò che la cattura.
*: Ultima parte di un trittico intitolato Tre interno.
**: Quartiere di Tokio.
Ariel (1990)
Upward, cheeping, on huddling wings,
these small brown mynas have gained
a keener height than their kind ever sustained
but whichever of them fails first
falls to the hawk circling under
who drove them up.
Nothing’s free when it is explained.
Ariel (1990)
Cinguettando all’insù, su ali raccolte,
queste piccole giacule brune
hanno conquistato altezze superiori
a quelle mai raggiunte
dalla loro specie,
ma la prima tra loro che cadrà
finirà preda del falco che volteggia
più in basso, e che le ha spinte fin lassù.
Niente è libero se è stato spiegato.
The Meaning of Existence (2002)
Everything except language
knows the meaning of existence.
Trees, planets, rivers, time
know nothing else. They express it
moment by moment as the universe.
Even this fool of a body
lives it in part, and would
have full dignity within it
but for the ignorant freedom
of my talking mind.
Il significato dell’esistere (2002)
Eccetto il linguaggio, ogni cosa
conosce il significato dell’esistere.
Gli alberi, i pianeti, i fiumi, il tempo
non conoscono altro. Lo esprimono
in ogni istante come universo.
Persino questo corpo
idiota lo vive in parte
e avrebbe in esso piena dignità,
non fosse che per la libertà ignorante
della mia mente, che parla.
Marco Malvestio