di Alfredo Nicotra Il 17 agosto del 1571 Famagosta, fortezza veneziana nell’isola di Cipro, sotto assedio da quasi un anno, dovette arrendersi e cedere le mura alle milizie turche di Lala Mustafà. Contravvenendo ai patti con cui si dichiarò la resa, ai comandanti veneziani non furono risparmiate delle atrocità degne dello Splendore dei supplizi, uno dei capitoli più drammatici di Sorvegliare e punire di M. Foucault. Dei loro corpi fu fatto scempio. Chi impiccato tre volte, chi meno fortunato dopo essere stato sottoposto a umiliazioni e sevizie insopportabili fu scuoiato vivo e la sua pelle appesa su una nave, mentre della popolazione e della città in balia degli invasori si fece strage. Famagosta ha segnato una delle pagine più sanguinare e più turpi delle guerre condotte da Venezia per il controllo del Mediterraneo. Un assedio altrettanto implacabile è questo messo in scena da Guglielmo Aprile nella sua ultima raccolta poetica, L’assedio di Famagosta (Lieto Colle, 2015). Suddivisa in due parti, Il tiranno nel suo labirinto e Barbari alle frontiere, diverse per tono e per immaginario, la raccolta declina le tipologie molteplici di un assedio intimo quanto in fondo angoscioso, vissuto in prima persona dall’autore.
In una dimensione claustrofobica, dove l’io si muove all’interno di una casa tra mobili e arredi ombrosi e tenebrosi, Aprile offre senza remore né pietà le proprie ossessioni e i propri fantasmi quotidiani ammantandoli dei travestimenti più artificiosi.
Sono poesie essenzialmente narrative, simili a fiabe brevi, altre volte a istantanee malinconiche e grottesche, dove la fantasmagoria fa visita al lettore. Visioni di un espressionismo placido e allo stesso tempo inquietante.
L’assedio, la metafora centrale del libro, è l’abbrivio da cui l’autore fa discendere una pioggia splenetica di allegorie, di emblemi oscuri, di cifre e di simboli, come se tra i vetri di una finestra si disegnasse un arazzo variopinto o le ombre sul pavimento prendessero la forma di un tappeto orientale.
Una poesia selvaggia e onirica ma ipercontrollata nella forma e nella struttura compositiva.
Rigurgita lo sgabuzzino
di bambole infette, di statue
imbrattate da scritte
oscene, di farine
guaste, di orci tarlati;
nel buio in agguato, distinguere
non si può buche, né
sporgenze aguzze. Voci
strane ne escono, buffe
o fameliche: risa
sguaiate di vecchie, grotteschi
vocalizzi di guitti
che imitano animali;
ma come smorzate, sporadiche.
Non metto piede in quella
stanza chiusa: non oso, e da tanto,
sfidare i suoi recessi,
discendere la scricchiolante
scala, non ho lucerne
né scorta, se mai mi facessi
coraggio ad affrontare
faccia a faccia il bizzarro
inquilino che sento
al piano di sotto armeggiare.
Quando la folla somiglia
a una ragnatela di ghiaccio e le strade
masticano i miei passi
e il re calza al proprio anulare
l’anello nero
mi ritrovo
nel cortile dell’asilo,
con i suoi alberi di nebbia,
il suo scivolo capovolto, a zampe all’aria,
e i suoi cannibali in grembiule azzurro;
è lì che torno, dove
ebbe inizio il mio esilio: le colombe
dal palmo delle mie mani, all’unisono,
dileguarono: e fui scaraventato
per la prima volta nel mondo,
muro dentato, assassino di gigli.
Il bizzarro inquilino della prima poesia (che si dispiega in una trama di assonanze ruvide e martellanti e nell’alternarsi di senari e di novenari, e che custodisce nell’epiteto bizzarro la parola chiave e il fulcro della composizione sia a livello fonetico, per la presenza e la reiterazione delle consonanti doppie, che semantico), protagonista di questo dramma, dicevo, è un “barbarico bambino”, un “bambino buio” che fa di continuo capolino tra i versi. “Tremendo” alter ego dell’io dell’autore, a cui Aprile cede a volte la voce e il punto di focalizzazione delle sue poesie. Benché in altri testi si rivolga a un tu, come a una presenza da cui esigere l’ascolto o da mettere in allarme, o descriva le visioni e le allucinazioni del proprio io, in un moto intimo e confessionale.
“Il terremoto si nasconde subdolo / sotto la pila di magliette appena / stirate in armadio; dietro la tazza / di un’altra camomilla, la tarantola tende discreta l’arco del suo bacio. / (…) Il sadico bambino (…) ha seminato abbastanza entropia / nel salone degli antenati, tutto / addobbato di teste di animali / impagliate e stemmi araldici, egli / se la ride, compiaciuto di quanto / inutile sforzo ogni volta / ci attenda a ripulire, a cancellare / le tracce di uragano delle sue gozzoviglie.”
Al bambino si unisce un corteo di personaggi, che sembrano usciti da un mazzo di carte o da un abbecedario di scuola. Il tiranno, il re, la torre, il castello, la collina, la grotta, il pozzo, il bosco, il solaio, lo sgabuzzino, il libro, il corvo, il ragno, la tarantola, il cervo, il tafano, e infiniti altri segni inquietanti e ambigui, come a costituire gli emblemi fantastici e orripilanti di un immaginario infantile. Che combina la visione fanciullesca e cantilenante all’orrore e allo spavento.
Si intuisce sin da subito come tutto il congegno poetico sia un gioco voluto e orchestrato di travestimenti, dove si inscena il combattimento doloroso tra l’Io e l’Es, in un tumulto di pulsioni contrastanti e antitetiche quali il desiderio ‒ il principio di piacere ‒ e la pulsione di morte. Una “guerra civile nell’io” dove “ogni sorta di esseri / sale in superficie, le creature / più deformi e grottesche, nani / e giganti monocoli, uomini / coi piedi di capro, o bicefali, / come se il divertito / Erodoto del subcosciente / li aizzasse dal fondo delle sue pagine”.
Come questi testi raccontano un assedio, il poeta si muove all’interno di spazi claustrofobici, spesso interni domestici nascosti nell’ombra in cui “covare le uova nere / delle più mostruose fantasie”. O dove “proietta ininterrottamente / scene raccapriccianti, / stragi, sevizie, abusi”.
All’insegna dello smarrimento è così il confluire in ognuna di queste istantanee di piani diversi del reale e del discorso, attraverso una molteplicità di livelli spazio temporali che disarcionano il cronòtopo, dissestano il senso, confondendo e moltiplicando le letture. Sono i segni dello spaesamento.
Può avere un effetto
comprensibilmente rassicurante
contare, uscendo di casa, i lampioni
dal portone alla fermata, per essere
certi che il loro numero
sia ogni mattino lo stesso, o verificare
che senza sforzo si sia ancora in grado
di distinguere i colori
e le principali forme geometriche,
di associare ad un volto
il suo nome proprio, ad ogni autobus
di linea il suo percorso.
Ma se, a un certo punto, iniziassi
a considerare in un’altra ottica
la sentenza scritta
sulle pareti della cabina telefonica?
Se prendessi per vero
lo scherzo leggendario che al risveglio
il mare deposita
Sull’orlo del mio cuscino?
L’insegna con i prezzi dei gelati,
tutta colorata, fuori dal bar,
appassisce alla pioggia,
cadavere d’estate.
Sarebbe più sopportabile
lo sguardo dei farmacisti
chini dietro il bancone a decifrare
con diligenza le ricette,
se il maltempo spingesse i gabbiani
a risalire il fiume, fino a
far visita almeno mezz’ora
a questo quartiere dalle labbra grigie.
Ma il cielo cianotico e gonfio
galleggia sulla corrente dei cornicioni;
le targhe delle auto in sosta
tradiscono un codice
dai date funebri.
Ma è tuttavia la valenza archetipica di questa simbologia privata e personale, che si riassume nella locuzione “ancestrale bambino” dei primi componimenti, a fare di questi testi dei discorsi ancora comunicabili al lettore. A instituire il continuo scambio tra il fantasma privato e la dimensione archetipica e profonda, capace di rendere meno personale e autistico il dettato poetico e a rivolgerlo all’esterno, all’altro, nella necessità di stabilire un dialogo con il lettore. E quindi comunicabile benché intimo. Come geroglifici che ritornano familiari. Condivisi. Ancora parlabili, benché sul punto di sottile di non essere più compresi. La loro difficile decifrazione ripete le strutture del sogno, riassunte da Freud nel doppio movimento dello spostamento e della condensazione tipica delle immagini oniriche. I simboli si stagliano nella chiarezza del discorso lineare. Risiede in tale meccanismo il carattere poetico di questi testi, dove la confessione privata lascia il posto a un discorso più universale.
È tuttavia un’altra la struttura che si nasconde e informa i testi e che più che ripetere la struttura del sogno inscena il sintomo dell’attacco di panico. Cioè di quello sconfinamento in pieno giorno, durante la veglia, dell’io nell’oggettività incommensurabile e smisurata della realtà. L’attacco di panico (“i cavalli / furiosi del panico”) che viene più volte tematizzato nei testi e quasi mimetizzato nella struttura dei componimenti.
“Cani neri del panico, / mi incalzano mi assalgono / da ogni lato, non posso / vederli ma so che nel buio / fogliame mi spiano pazienti, / in attesa che io / (guai se cedessi) esausto / prenda sonno, per farmi / a mia saputa a pezzi.”
Sul piano stilistico infatti i testi vivono di un doppio movimento. In essi prevale sempre il dettato ampio e ipotattico. Una scrittura chiara e lineare, piana, logica e raziocinante nella sintassi, con contorcenti volute sintattiche, un uso di subordinate che da un ampio corso al discorso. A volte con testi di un solo lungo periodo, una lingua colloquiale e una costruzione del periodo secondo il susseguirsi del pensiero. Una scrittura prossima alla prosa, dove solo lievi accorgimenti ne corrompono la struttura. Come l’eccessivo uso di inarcature, che rende il discorso incespicante. O le poche rime, in maggioranza interne, e le quasi rime (esilio /asilo), e l’andamento allitterativo.
A questa struttura si sovrappone però la ricerca insistente e compulsiva di una gabbia metrica, in prevalenza endecasillabi, senari e novenari. Che tende a inibire proprio il discorso lineare.
E che esprime rispetto al fluire (inconscio) della parola una volontà di forma, classicheggiante, tradizionale, che svela la volontà di controllo della rappresentazione. Tuttavia, il discorso non si infrange, l’onda dei versi non ritorna, ma procede fino a precipitare nel gorgo delle metafore, a sfondare.
Al movimento in parte semplice e chiaro al livello del significante viene infatti opposto un discorso altro, intensamente metaforico, densamente simbolico, che ne fa il linguaggio cifrato di simboli a cui abbiamo accennato e che il poeta più volte definisce uno “sproloquio”.
Un discorso trasfigurato, travestito di emblemi neri e inquietanti come il “suono non umano dei suoi atroci gargarismi”. Una parola “aperta alle più varie e libere / esegesi”. Dove una voce “farnetica in un proprio / gergo cifrato, in cupe / astruse sontuose metafore”, “farnetica / oracoli”, “sproloquia in una lingua strana, non riconducibile al più antico ceppo indoeuropeo”, con “aneddoti crudeli, barzellette raccapriccianti / e demenziali giochi di parole”.
E che nei contraddittori “versi sordi” trova paradossalmente la sua completa manifestazione.
La stessa struttura del panico si ripete nella rappresentazione del tempo. C’è un tempo mitico che converge nel testo, in cui luoghi separati della realtà, passato e presente, anche geograficamente, convergono.
Mi fa paura la notte,
con le sue orde scarlatte;
il buio scava la stanza
con unghia tenace,
i lividi del cuscino
portano il riflesso di un cielo infetto,
la vecchia dalla fronte di ragno
mi fissa dagli angoli,
dalle serrande abbassate affacciano
palpebre affilate come lame.
Il cedro, fuori dai vetri, scuote
iroso i rami enormi,
allargati in un abbraccio
grottesco, tesi verso l’alto
in uno spasmo minaccioso.
Ed è appunto in questa temeraria costruzione poetica che risiede l’interesse e la stravaganza di questa raccolta.
Non lo puoi mettere a tacere,
lo strepito degli schiavi
ammassati giù nelle stive;
puoi solo confonderlo
con il rumore più ampio
che culla le onde al largo:
è bello ma è anche pauroso,
è la carezza dell’oceano
sulla carena della grandi navi.
Guglielmo Aprile, L’assedio di Famagosta, pp. 112, € 13, LietoColle, Falloppio(Co) 2015
Non ho le competenze per giudicare se il libro sia riuscito o meno, ma mi pare che esso i sintomi di un disturbo ossessivo li denunci tutti, ovviamente in forma cifrata, camuffati dietro una sorta di gergo personale e simbolico: le scene orrende proiettate dallo schermo in una cella sono un rimando al meccanismo dei pensieri ossessivi, che la mente tenta invano di neutralizzare, come un giardiniere sprovveduto che, si legge nel libro, più vuole combattere le erbacce e più favorisce il loro proliferare. In qualche testo si notano tracce di dinamiche edipiche, come riferimenti al complesso di castrazione, che allungano le loro ombre sui disagi adulti; ma è il perturbante che in tutta la raccolta spadroneggia, assumendo le sembianze di in gigante dal volto di pietra, di una testa mozza di cavallo chiusa nella valigia, della neve nera sulle sopracciglia di un viaggiatore che si è spinto troppo lontano, della gente affacciata ai balconi ad assistere a una disgrazia, di una fortezza turrita che il vagabondo si vede comparire addosso in ogni strada, degli alberi dalle braccia protese, della luce gialla che inspiegabilmente si accende in strada, della macchia rossa sul vestito della ballerina, della crepa nel muro, della lettera ‘h’ che il soggetto vede affacciarsi ovunque e braccarlo come a ricordargli un disastro incombente…: il senso potrà essere oscuro ma la sensazione di allarme le immagini la trasmettono con evidenza, il senso di un assalto di forze demoniache che l’Io percepisce a contatto col substrato arcaico Dell Es, sempre presente sotto le parvenze della risacca di tamburi, del cavallo finito in un pozzo la cui voce non è più recuperabile, della grotta in cui non si può entrare, del gas pronto a esplodere dalle tubature di un impianto dismesso, della nave in avaria di cui non si riesce a trovare il guasto e uscita dal campo di ogni stazione radio, del latitante che si nasconde tra i sobborghi, chiamato anche Sabotatore mimetizzato tra la folla, sornione Attila delle giungle, o ancora Ammit, omaggio a una delle più oscure figure dellescatologia egizia… Dott.giuseppe frontella
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