Daniela Pericone, “L’inciampo” (L’arcolaio, Forlì, 2015) – di Alessandro Quattrone

Daniela Pericone, L’inciampo (L’arcolaio, Forlì, 2015)

COPERTINA L'INCIAMPO

La poesia di Daniela Pericone, in questo come nei libri precedenti, nasce da una necessità incontenibile – oltre che da una potente volontà – di tradurre in parola vigorosa e combattiva il disagio generato da una realtà infida. “Scrivo per colmo d’errore”: perché non si può davvero vivere in questo mondo incongruo, ostile all’autenticità, un mondo tanto sfuggente, tanto refrattario all’essere da far credere di trovarsi per errore ad abitarlo. E allora? Non rimane che rassegnarsi a soccombere? No, tutt’altro: ci si può adoperare per rendere perfetto l’imperfetto. Ma operazioni di questo genere le può compiere solo la parola poetica, prodigioso strumento di compensazione e di difesa, sì, ma anche di attacco, di esplosione del compresso, di dispiegamento di una forza che pareva incenerita, e invece era un fuoco segreto.
“L’inciampo” è infatti – dall’inizio alla fine – la denuncia di una mancanza, ma allo stesso tempo l’affermazione di un’energia. Perché il mondo è attraente, certo, ma la sua bellezza è nascosta, prigioniera nella cella sotterranea di un castello che occorre espugnare per poterla riconoscere e liberare. La strada per arrivarci è disseminata di trappole (tagliole) invisibili e di ostacoli naturali che rendono il percorso già di per sé insidioso. La corsa, per quanto determinata, è a rischio continuo di caduta, di inciampo, perciò conviene usare prudenza e stratagemmi, distribuire bene le forze, evitare lo spreco e la resa per sfinimento. La bellezza è lì che aspetta, ma non bisogna sbagliare tattica per eccesso di desiderio.
Troviamo nel libro parole appuntite e taglienti come coltelli, come spade, ma chi le usa è un cavaliere che combatte per amore. Per amore di una realtà sottratta al desiderio da un nemico metafisico, un invisibile principe malvagio che impedisce il contatto. Morii per la bellezza, scriveva Emily Dickinson. La Pericone per la bellezza intende combattere eroicamente. Non ingannino perciò le parole sferzanti e a volte brutali dei testi. Non sono le armi di un personaggio cinico: dietro di esse c’è un’anima piena di tenerezza, ma frenata nell’espressione e nello slancio. Il libro è cosparso di un tale struggimento per la bellezza sottratta allo sguardo e all’abbraccio, che l’autrice – come tutti gli innamorati davanti alle difficoltà – si appassiona fino all’ostinazione. Se inciampa, si rialza. Se sanguina per lo “scatto muto della tagliola”, riesce a liberarsi e a proseguire il suo cammino; stringe i denti e si fa forza anche quando riconosce la propria debolezza, anche mentre continua a perdere sangue.

“Inutilmente la vita mi rincorre
la gara è breve ma la fatica è doppia
a ogni tappa è mia la vittoria
il passo sempre di uno sbaglio avanti”.

L’io è inseguito dalla vita. Vive nell’errore, o meglio nell’errare. Anche questa è una forma di esistenza: avvertimento della vita incalzante ma non incombente, della vita desiderosa di invadere l’io, che forse la teme perché troppo la ama, e orgogliosamente fugge in avanti, negandosi al contatto per timore di non farcela.
Ma il timore viene sempre superato. Lo dichiara l’incipit del libro, che comincia con una parola secca, isolata, sotto il segno della resistenza agonistica: “Tuttavia / rimango qui, qui (…)”. Il “tuttavia” iniziale dà la chiave di lettura di tutta l’opera. L’autrice più volte segnalerà un disagio, un’insoddisfazione, un senso di incompiutezza (“ho disegnato cerchi / senza chiuderli mai”), ma sempre per ricominciare, inarresa, il suo personale assedio alla vita che, anche se il momento è rimandato per provvisoria debolezza, prima o poi dovrà essere conquistata.

“Oggi mi manco
mi sveglio in cammino
in un giorno qualunque (…)
oggi rimando
non sferro l’attacco
col braccio sospeso in un’aria
di gesso mi manco
tra il colpo e l’abbaglio.”

Versi che fanno pensare a Pessoa o ancora alla Dickinson. C’è la sensazione che qualcosa sfugga, e quel qualcosa è il proprio io. “Mi manco” ha più di un significato: cerco di colpirmi, ma la mira è sbagliata; avverto la mia assenza; sento nostalgia di me stessa. Comunque domina un senso di estraneità. La vita per ora è inespugnabile. Troppo ermeticamente chiusa. Perfettamente chiusa nella sua oggettività fatta di cose qualsiasi. E certo non a disposizione di chi non abbia un’attitudine agonistica: “E io mi chiedo che ci faccio su questa sedia / mentre la perfezione delle cose congiura contro di me.” Non si può sempre combattere. Bisogna pur riposare, in attesa di trovare quei varchi che, alla maniera di Montale, permettano di entrare in uno spazio di libertà e di senso: la bellezza della vita, appunto. Che però spesso mostra il suo aspetto insidioso, le sue acque piene di “filamenti letali di medusa”. La tentazione di abbandonare la lotta, quando tutto crolla, è forte, ma lo sguardo si rivolge in interiore homine per trovare nuova energia, oltre che veritas. Fuori c’è stolidità, insania, distruzione, e allora meglio rientrare in se stessi – inabissamento più che introspezione – per trovare, se non una via di salvezza, almeno un luogo in cui scomparire per qualche tempo, fino alla ripresa.

“Lo sguardo volge tenace all’interno
seppure fuori franate le torri
i muri squarciati non ceda l’inferno
se i volti fremono in abbandoni
gli uni sugli altri premono i cuori
tu confondi il tuo corpo d’aria
a passi invisibili tra la calca”
(…)

La necessità di “assaggiare l’abisso” è convinzione profonda e ribadita. Abbandonare la superficie e la superficialità è l’unica via, perché sprofondare è risalire: il cielo non è in alto, è in fondo.

“Dentro
bisogna entrare dentro (…)
sentire che si muore d’inedia
in superficie che andare verso il fondo
è risalire.”

Il tema è trattato insistentemente. Troviamo ancora:

“Tutto quello che vale
resta dentro e ha mutato
fiumi interni e vie
dell’essere e ricordi.”
(…)

Riprese le energie nel fondo di sé stessi, bisogna riemergere, bisogna attaccare il mondo che insidia l’essere. È il mondo – non la vita – la minaccia. Ne è una prova tangibile una poesia che si avvale di sonorità aspre sapientemente accostate per renderne la brutalità.

“Lo scirocco è una guerra
d’aria che mastica sabbia in rivolta
si oppone alla fretta al moto apparente
della calca a quel correre sopra sotto
o solo in tondo senza arrivare mai a niente
casomai finendo in un tonfo
ma non al fondo soltanto intorno
in un giro inconcludente.”
(…)

La calca, l’affanno, la vanità dei movimenti: tutto sa di impedimento, di impossibilità.
E poi bisogna guardarsi dai contrattacchi, dalle “intrusioni” malevole nella propria intimità, nella parte più pura di sé. Sembra proprio che, con un impressionante correlativo oggettivo, l’autrice voglia rappresentare il terrore dell’anima violata sotto le sembianze della casa in rovina:

“Ancora intrusioni di malessenza
in queste case colate di negrezza
risvegli diroccati scalinate senza più appigli
balaustre divelte ballatoi su precipizi
ramaglie invelenite occhieggiano dalle rovine
sole insegne in rigoglio pentacoli maligni.”

La musicalità dura, stridente, dei versi fa pensare all’inferno dantesco, come pure la presenza di vocaboli graffianti, uncinati. Ma l’anima, in questo paesaggio desolato e pericoloso, sa che non deve fuggire, che deve trovare il “cunicolo” da attraversare per non rimanere aggrovigliata nelle “ramaglie”. Così parla a se stessa, incoraggiandosi:

“Con il lavorio della talpa scavare cunicoli
entrare a muso basso nei nevai non sentire il gelo
degli insulti dei volti deformati alle menzogne irrigiditi”
(…)

Ma torniamo all’incipit del libro, a quel “tuttavia” capace in tutto questo di resistere, di sopravvivere trovando i “varchi” per sfuggire alle “bufere” (“Di varchi e di bufere” si intitola l’ultima sezione, forse la più scoperta, la più inerme del libro, ma anche la più stoicamente coraggiosa. Non a caso i due termini utilizzati nel titolo sono di reminiscenza montaliana). Quel “tuttavia” che denuncia una mancanza, un rimpianto, uno scontro, insieme a una accesa veglia dei sensi e della ragione e a una ferma volontà di trovare (se non nel mondo almeno nel suo nobile sostituto, la parola) quella bellezza che al termine del percorso di lettura forse sarebbe più opportuno chiamare, con un termine meno consunto e meno equivoco, intensità.
Leggere “L’inciampo” significa dunque fare esperienza dell’intensità, anche linguistica. L’opera si avvale – come scrive Gianluca D’Andrea nella prefazione – di un linguaggio “sempre generosamente propenso allo scavo, alle soluzioni verbali e ritmiche che si nutrono di una plasticità terrea”. Un linguaggio non comune, capace di creare armonia o disarmonia a seconda delle necessità, un linguaggio che l’autrice padroneggia con sapienza o al quale si abbandona a volte con una sorta di inerzia liberatoria, dipingendo – come il Caravaggio ispiratore di alcuni suoi versi – una “guerra di lume e ombra” che si riflette sul volto del lettore.

Alessandro Quattrone


In copertina: Abraham Bloemaert, Casa di campagna, 1629 (particolare).

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