di Diego Conticello
Pubblicato per la prima volta su «Nuovi Argomenti» nel 1967, poi riproposto assieme ad altre prose liriche nel 1996, L’esequie della Luna è un racconto barocco-favolistico su un antico reame siciliano che descrive anche una Palermo borbonica “sulla soglia della definitiva scomparsa”.
Lo stesso Piccolo la descrive come «una specie di narrazione fantastica, volutamente barocca e ingenuamente romantica», in una lettera a Corrado Stajano datata 2 Settembre 1967.
L’operetta parla dell’immaginata caduta della Luna e della pesca miracolosa della stessa, un mito che primariamente era stato narrato nella Grecia antica, con gli Idilli di Teocrito e ripreso, diversi secoli dopo, dall’acuto Leopardi, in un Frammento dei Canti, precisamente il XXXVII (Odi Melisso, io vo’ contarti un sogno), che racconta la caduta del satellite di Diana, unica e terribile perché ‘solitario’ è l’astro staccatosi dal firmamento di contro a miriadi di stelle in tempo d’estate.
Piccolo riprende queste tematiche e le fa proprie in un racconto fra il sognato e la reminiscenza di luoghi e cose trascorse (in specie della propria fanciullezza palermitana).
Il gentiluomo cosmopolita e contadino (come lo definiva Montale) rivisita proprio questo ambiente dimesso e lussureggiante insieme, come scenografia adatta allo svolgersi di una narrazione mitica, dove ninfe minori, Silvie e Norine, si riuniscono presso la Fontana per dei «balletti agresti» che sanno di magico e superstizioso. Dei contadini del luogo, avvedendosi della caduta della Luna, mandano un messaggero ad avvertire un Vicerè (la fabula è ambientata nel ‘700) lontano e quasi disinteressato, che a sua volta si rivolge a inetti e ‘scartoffiari’ intellettuali, per spiegare lo strano fenomeno. Chi agisce senza indugiare sono quindi sempre le “figure” semplici, i contadini, che raccolgono i “cocci” dell’astro e ne danno le dovute esequie, seppellendo i resti lunari nel terreno vicino alla fontana.
La narrazione così si snoda senza un’apparente entrelacement, come era nel romanzo d’impostazione pre-novecentesca, eppure è pervasa dal sottile filo conduttore della ‘rimembranza’ che sfora poi nel pessimismo storico e scrittorio della caduta e seppellitura della Luna che avviene, come ho detto, nei terreni circostanti un’antica fontana (detta “della Nocera”).
L’estinguersi dell’astro dei poeti assurge a metafora della fine delle certezze storiche per la classe nobiliare (e di ogni residua illusione romantica), di cui Piccolo faceva parte seppur odiandone i vezzi, ed è dunque allegoria del disincanto estremo che può turbare l’intimo di un narratore sentimentale, ovvero l’arrestarsi subitaneo e irrecuperabile di ogni futura credenza nella forza della scrittura; questa fontana diviene in tal modo contenitore di raccolta simbolico di tutte le illusioni del gentile cavaliere, che qui condensa e scarica tutto un mondo d’Arcadia ormai inesorabilmente perduto.
Tuttavia permane, geniale e pregnante di ruralità, come di fantastica immaginativa, questa prosa piccoliana che ha il potere di risvegliare memorie ancestrali e cocci d’inconscio a noi più prossimi di quanto possiamo realmente pensare.
Nel Consolo di Lunaria l’antica gebbia viene a trasporsi come “Fontana della Quercia”, assumendo le medesime prerogative e adempienze di quella piccoliana, ma con la sola differenza che la luna del narratore santagatese risorge dall’oblio, a paradigma di una fede cieca nella scrittura come nella storia, nonostante “troppe fiate” esse abbiano compiuto involuzioni divergenti dal vero.
Da “L’esequie della Luna”:
“I Pastori e le Ninfe – fra le quali noteremo
di sfuggita – si trovavano parecchie Silvie
e Norine fuggite, e non si sa perché, dai borghi
selvaggi si riuniscono la sera in intrattenimenti
campestri presso la Fontana della Nocera dove
l’inafferrabile modulatrice ha canto ora grave
ora acuto al contatto con le vegetazioni, hanno
osservato come sui contorni in dolci curve, in
morbidi avvallamenti delle colline, la luna nella
sua quinta decima, abbia colorazioni insolite,
come fosse indizio di perturbamenti mai riscontrati
dacché luna è luna.”.
“La fontana della Nocera è in centro,
ma la visione o scenario si è molto ampliata,
si scorgono aie, casali, vallette, ecc.”.
“… scarse di numero ma colorite comunità locali…
decisero che i frammenti lunari in quel recipiente
di cui si è già detto e che questa volta chiameremo
Urna, trovassero sepoltura vicino a quella Fontana
della Nocera di cui parlammo, ai margini quasi di
essa. Questa fontana era di forma rettangolare,
ai piedi d’un declivio decorato d’ulivi dai fusti e dai
tronchi antichissimi, tutti incavi ovali fitti di rughe.
E qualche pioppo. Le acque così custodirono i resti
lunari.”.
Il racconto ha poi un sottile ma marcato intento: nelle intenzioni del poeta avrebbe dovuto rappresentare la risposta (anche sul versante della poetica) al successo che ebbe in quegli anni il Gattopardo del cugino Tomasi di Lampedusa, simboleggiandone anche il contraltare stilistico: l’ultima grande architettura barocca prima del definitivo dissolvimento sia di “attenzione” critica che della vita stessa (Lucio Piccolo morirà emblematicamente qualche tempo dopo non potendo – in questo caso fortunatamente! – assistere alla definitiva conquista del satellite che gli americani compirono pochi mesi dopo).
Diego Conticello