Appunti desultori e interrogativi
sulla pazienza di Marco Giovenale
Come funziona un/questo testo – di prosa – di Marco Giovenale – rispetto alla (sua) extratestualità?
Se, quindi, il fatto che una comicità possa non perfezionarsi mai: che accada un ribaltamento tra paradosso e storia, tra realtà e visione: che la parola, pur indebolendosi nella sua logica, non sfoci nell’astrazione – il punto è se tutto ciò, quest’attivare il testo al suo interno stesso: questo lavorare parole e cose, linguaggio e mondo in modo così differenziale, ossia giocando di continuo da un polo all’altro senza mai sbroccare, mai bloccare la tensione: senza mai fare metafora (è, questo, il succo della scrittura giovenaliana) – non funzioni, poi però, esso stesso, come una metafora rispetto al suo fuori, alla sua extratestualità…. Perché è qui che si misura la portata politica di una scrittura: ancora… Io decido di abolire la metafora, bene; ma poi questa mia testualizzata abolizione della metafora che vuole fare – nel mondo? E in un mondo in cui, oggi, le metafore valgono nonostante, anzi, proprio in quanto sono disattivate? Funziona così, quindi, anche questo testo rispetto al suo mondo, al suo extratesto: funziona appunto lasciandola valere metaforicamente, una scrittura disattivante non altro che la metafora?
Insomma: c’è da veri-ficare (?) discutere: costruire un discorso su Giovenale chiedendosi se la sua scrittura, in cui la metafora è abolita, in cui parole e cose coincidono in un andirivieni indefesso ed elettrificato, elettrificato anche comicamente, ossia non marcandola, la frattura di linguaggio e di mondo come un che di insanabile, ma salvandola in un istantaneo accasarsi nel placato – di cosa voglia essere metafora, e se voglia o meno essere metafora… Ossia, nei termini simili a quelli da Giovenale stesso teorizzati proposti installati: se questa mancanza di metafora agisca, nel mondo, performativamente, ossia rendendo la non metaforicità della scrittura un evento: una messa della scena, o, piuttosto, come una installazione: se la non performatività, e la performazione è sempre anche pre-formazione, ossia tetica autoriale per un lettore coinvolto e commosso e, quindi, com-patito, riesca o meno a installarsi: a essere sì evento, ma non evento performatizzato: performatizzante: ossia spettacolarizzato: un evento che eccede la sua stessa grana di evento: perché questa che è/vuol essere una scrittura installativa: una scrittura cui riesca d’agire non come una metafora, ma proprio come un eccesso di testo…
La cosa della mancanza (della metaforicità): la cosa del vuoto, di quello che si chiamerebbe anche: dare spazio al lettore, sulla qual cosa, se formulata in tali termini, sì come si aprissero domande senza risposta, c’è da essere molto cauti…
L’assenza di metaforicità – apre un vuoto? Apre un vuoto, e se sì, quale? data la non frattura, comicamente suturata, tra parole e cose, tra linguaggio e mondo? Il lettore, per poter essere convocato inoperosamente: secondo una virtualità come possibile, entro il testo, ha da allocarsi in un vuoto… Ora, se tra parole e cose non c’è posto vuoto, se appunto qui non c’è metafora, dove sta il lettore, che vuole essere invitato, da Giovenale, non a uno spettacolo, a una performance, ma a una installazione che ecceda la sua stessa testualità?
Mostra fotografica di un(a specie di) sodale, Pietro D’Agostino… Se sono installazioni e non vogliono essere performazioni/performance, il lettore, il fruitore, ciò nondimeno, è coinvolto (ancora) come uno spettatore: deve (ancora) stupirsi…? Cioè: il lettore è convocato a un coinvolgimento tale che lo lasci in una passività di domanda, senza toccare mai la risposta…? Il lettore è inquietato, in questo caso di questo testo giovenaliano, gioiosamente inquietato…? Ma, allora, se le cose stanno così, se viene lasciato posto al lettore, a tale fruitore, che di fronte all’eccesso installato non può che stupirsi e inquietarsi (Heidegger, quando traduce il deinòn di Sofocle, nel per lui fondato e aprente Primo Stasimo dell’Antigone di Sofocle, traduce deinòs, ossia terribile e mirabile – Hoelderlin rende con mostruoso… -, con Unheimlich, cioè Inquietante – in Freud è il Perturbante -, e la Unheimlichkeit, la deinotes, ossia l’essere deinos, inquietante, porta con sé l’enormità, la smisuratezza, e cioè: quella eccedenza che per Giovenale è marca dell’installativo contro il performativo, che quindi sarebbe, invece, connotato da una certa urbanità: da una certa misura: da una certa compostezza e rilevabilità scenico-spettacolare…?), allora, l’enormità e l’eccesso installativi non fanno che votarsi a esigere ancora uno spettatore…?
Cioè: se un libro provoca solo domande, certo che sembra questo collocarlo in quella sana tradizionale formazione, formatività che ci dicevano essere, sin dalle elementari, marca di intelligenza, sintomo di curiositas… Ma, appunto. è solo: è ancora solo questo!
I buoni libri devono potersi chiudere…? Non devono lasciar essere il posto vuoto per le domande: non devono provocare senza compiere…?
Questa è una intelligenza postmoderna: derridiano-decostruzionistica: è erede di quel gesto di Heidegger che vuole Socrate come l’unico filosofo dell’Occidente perché pone domande aperte, e non scrive…? E’ il gesto di Nietzsche… Ancora un gesto tipicamente, oggi, intellettualistico…?
Perché qui, in questo Giovenale, se parole e cose coincidono e, quindi, non c’è metafora, ma c’è eccedenza eccesso installativi, allora che vuol dire che coincidono?
Cadono insieme? Cadono insieme: co-incidono, per dare adito al contatto entro un vuoto di rappresentazione: per un possibile?
Se la tragicità marca la frattura meta-fisica, lasciando aperta la ferita tra linguaggio e mondo – il comico le sutura, le parole e le cose: come? Lasciando per un attimo che ci si installi in una casa: in pace: im-mediatamente… Ma, come avviene questa sutura, questa ricomposizione comica dello iato metafisico?
Avviene attraverso una operazione parodica: nell’apertura accanto dello spazio vuoto in cui la finzione letteraria è dismessa: ci si toglie la maschera e si apostrofa immediatamente il lettore… – come chiamarlo, il lettore, oggi, non a una scena di scrittura: a una scrittura in scena?
La parodia è, quindi, l’operazione che apre la commedia, la riconquistata in istante patria… Ora, se tu hai un blocco testuale, una installazione, se lo iato metafisico è comicamente suturato… Il punto è chiedersi se appunto a Giovenale riesca o meno l’apertura del mondo intorno a questo suo eccesso testuale, a questo blocco installato…
Giovenale – riesce o no a prenderci in giro?
A prenderci nel giro?
Perché tu, intorno a un blocco, non puoi far altro che girare in tondo… La qual cosa non è però far domande senza risposta…
Perché, se non c’è metafora, allora non c’è vuoto: se non c’è vuoto, non puoi trarre (s)punti di domanda: non puoi immetterti da nessuna parte… – nella nessuna parte?
In somma: un (s)oggetto che ha pazienza, che ha la pazienza di patire ogni sua avventura nel mondo, di rotolare e andare in giro – è spettacolo: è messa in scena di domande: di inneschi della solito pathos interrogante: è performazione ancora, così non riuscendo a Giovenale la sua/una scrittura installativa?
Se c’è rimbalzo intratestuale – se questa non metaforicità appunto non dice x per significare y – se questo è un testo installativo: una specie di scrittura cubica… – se la scrittura porta qui ad altra scrittura – se c’è rimbalzo tra soggetti e oggetti – se questo rimbalzo è inesausto e inesauribile, non accadendo mai una riduzione – bene! Allora, però, c’è da chiedersi, e urgentemente, per questo libro come per le scritture tutte di ricerca che o lavorano nella parodicità prosimetra, nella indecidibilità di poesia e prosa, o si spingono fino alla prosa in prosa e/o alla non assertività e non performatività in vista della installatività, approdando anche a una verbovisualità… – chiedersi se la non metaforicità qui significhi, e possa significare, politicamente… Significare? Se non c’è io lirico, se non c’è confessionalità, se l’autore lascia un posto vuoto…, allora come può una scrittura significare, e significare politicamente? Allora, questa scrittura, piuttosto che significare, e significare per una polis, e una polis è sempre anche scena, è essa stessa un fatto politico: è un evento: un *che* il quale testimonia (testimoni?) non tramite la sua eccedenza installativa, ma questa stessa installatività in eccesso… Ora, questa eccedenza, questa enormità di scrittura – che cos’è? Non è che è forse qui, che si installa ancora un innesco di metaforicità? La scrittura vuole funzionare, appunto vuole? – e questa è marca di metaforicità…? La scrittura funziona per eccesso, per spinta, per supplemento, per resto? – e questa è marca di metaforicità…? Ora, non è che a un Giovenale non riesce di venire a capo di tutto ciò, di queste sottili e, insieme, solide contraddizioni, perché indugia a indulgere a una com-prensione solo politica – del fuori del testo, dei co-testi e dei con-testi? Riservando gli schermi a un dentro della/di una scrittura: graficità – ancora? Gli schermi, cui si richiama la scrittura installativa e ogni altra scrittura di ricerca oggi in Italia e non solo in Italia, così mirando a un pastiche, a una parodia verbovisuale e/o a isole di significanti…. – che schermi sono? Sono solo gli schermi della video art, delle installazioni appunto musealizzate, sia che si accendano in musei o in atelier di avanguardia sperimentale, dei pc e dei tablet che si incendiano di googlismi….? Sono, cioè, schermi solo di cotesto, inter-scritturali, così come uno potrebbe scrivere che questa scrittura si produca in una auto- e intra-referenzialità? L’autisticità di questa scrittura, che allora assomiglia all’autistico non immobile ma tutto a spaziare e ad andare in giro, a girare rimbalzando da soggetti a oggetti senza soluzione di continuità – desta curiosità? Desta stupore? Inquieta? Innesca domande? Fa spettacolo di sé proprio rifiutando la performance della scrittura spettacolarizzata?
A me stesso: Non seguire Barilli recensore…
Qui Giovenale non mostra, ma dimostra? Cioè: di-mostra: demonstra: de-monstra: parla scrive relaziona argomenta espone: a partire da: sulla base di un presupposto? Quindi, la sua visione delle cose e del mondo e della vita: delle forme e delle parole e dei linguaggi: del reale e della realtà – è gerarchica: c’è un primum, un prius, un fondamento, su cui il resto si sviluppa: su cui il resto, residualmente, cresce? E, quindi, c’è ipotassi, subordinazioni, a svantaggio delle coordinazioni, della paratassi?
No!
Che vuol dire che la non metaforicità può agire come atto performativo e che poi (pur/ proprio) installandosi quest’atto – e qui ci sarebbe una specie di elusione, di deviazione rispetto alla idea di Giovenale stesso per cui performatività VS installazione…? – ecco che insorge un evento che non si performa…?
Perché la perfomatività certo che alla constatività si oppone: se prego (atto performativo), faccio essere io dio, ossia l’oggetto, che non preesiste al mio performare, mentre se constato, l’oggetto della constatazione le preesiste… Ma, in realtà, per avere performatività, devo sospendere, e non contraddire negare escludere, il constativo, la constatazione: devo, cioè, solo farla girare a vuoto: mettendo tra parentesi la sua attualità e scoprendone la potenza, la possibilità: come se pregare e ordinare: dire sì a un matrimonio, fossero modi in e per cui ogni oggettività: ogni realismo riescono a non risolversi meramente in un riferimento: in un significato: in un aggancio a un presupposto, ma sanno finalmente aprirsi: non esaurendosi nella mera registrazione dell’esistente, del già dato: ma collaborando a che insorga: accada…
Quindi, ecco che l’installativo certo che si oppone, Giovenale ipse dicit et, anzi, atque scribit, al performativo, ma non dicotomicamente, sì che si escludano a vicenda, ma polarmente: vettorialmente: non estensivamente ma intensivamente: una scrittura, come la prosa giovenaliana, che in quanto prosa è appunto proversa, cioè gettata-avanti: volta non poeticamente alla sua origine, ma sempre proiettandosi a una ulteriorità apertura: ecco che può questa scrittura, in quanto prosa, essere il campo di tensione, elettrificazione, paradossalità, entro cui: per cui: in cui accade che io installando ed eccedendo, appunto proversamente sfondando la lingua e la scrittura verso: a: oltre – oltre la mera corrispondenza di segno e di significato: di senso e di suono: di lessico e sintassi, ecc. -, comunque non tocchi una bellezza, non dischiuda una ulteriorità sempre aperta e incompiuta: non giochi al mero esercizio nella e dalla lingua, ma piuttosto faccia evento: faccia la scrittura come l’accadere stesso dell’eccesso: del proiettarsi: del darsi della proversione appunto della prosa – la pagina giovenaliana non contenendolo, allora, l’eccesso installativo, l’eccedenza installata, ma essendo questa enormità, questa insorgenza stessa dell’eccedenza: l’aver luogo stesso di una non performatività: di uno spettacolo, di una messa in opera e in scena sempre incompiuta ma non per questo non finita: non destinata a essere l’avvento di una ulteriore interpretazione, ma evento di una chiusura: di una quadratura: di una cubatura: di una quartodimensionalità e spaziale e temporale – non un segreto di scrittura, ma una via di uscita – dalla scrittura? Nel mondo?
No!
(Marco Giovenale, Il paziente crede di essere, Gorilla Sapiens, 2016)
Un pensiero su “Su “Il paziente crede di essere” di Marco Giovenale – Vladimir D’Amora”