di Diego Conticello
Se chi legge non è appassionato di modelli d’auto americane, le cosiddette “fifties”, fabbricate negli anni cinquanta del secolo scorso, la sua fantasia vacilla, scrìcchiola; si potrebbe dire, col Montale, che «un anello non tiene»: nel nostro caso trattasi dell’anello scenografico di un midwest agricolo statunitense di metà Novecento. E di spazio all’immaginazione Capote ne lascia poco, eccettuate le brevi, ma intense, descrizioni della vita rurale, semipionieristica di questo cuore dell’America (se di cuore si può parlare…), sconvolto da un tetraomicidio, che scarnifica una rispettabile famiglia del Kansas.
L’intreccio di questo romanzo-reportage, genere che mescida elementi d’invenzione innestati sulla trattazione di fatti realmente accaduti, dipana parallelamente le esistenze da un lato abituali di una famiglia alto-borghese (future vittime), dall’altro scapestrate di due apparenti furfantelli provincialotti (futuri assassini), che si dibattono fra gli stenti autodistruttivi di un vivere tanto precario quanto pseudopoetico.
Le pagine scorrono – quasi discrete – su ambienti e avvenimenti accostabili al bildungsroman kerouachiano, sino all’efferato turbillòn delittuale, che spezzerà l’andamento successivo, come pure la sintassi, di tutto il romanzo: alla descrizione aperta, icastica eppure disincantata, si sostituisce lo spazio chiuso (che ricorda quello delle carceri), nonché sentenzioso di un fluire scrittorio adesso fermo ed incisivo. Tuttavia il periodare narrativo accoglie inserzioni puntigliose e cronachistiche, per così dire “da giornalismo puro”, saggiamente racchiuse nelle numerose parentetiche, dando in tal modo alternanza alle variazioni stilemiche del discorso.
Ma indugiamo per un istante sulle figure degli assassini. Due soggetti agli antipodi: uno insignificante e apatico nell’esteriore scorza silìcea (si rivelerà il più fragile e vigliacco); l’altro deforme ma poetico, tra il bohemièn e il maledetto: un caso umano dalle ambigue fascinazioni.
Il problema morale che sta a fondamento dell’‘incipriata’ cronaca dell’autore è comunque un altro: sensibilizzare le coscienze nei confronti della pena di morte, vista come assurda e allucinata perpetrazione di crimine su crimine (vale altresì per chi scrive). Dalle scabrose scene di scontate esecuzioni, ancor oggi vigenti nei pomposamente modernissimi USA!, si evince un’ignominia mai così atrocemente narrata in altri orpelli nero su bianco esistenti (la memoria sdegnata risale alle leggi di Nabucodonosor!).
L’epigrafe iniziale «Frères humains qui après nous vivez», tratta dalla Ballata degli impiccati di François Villon si accosta, per me intimamente, alla “Ballata del Miché”, in cui l’indimenticato Faber canta il suicidio eroico del carcerato omonimo. Medesima sorte accade agli assassini nel reportage del nostro, con la variante – non trascurabile – che ad uccidere è lo stato e che la loro fine non risulta né eroica né tantomeno impregnata di quella presunta giustizia molte fiate imbellemente ostentata!
A sangue freddo: romanzo In Cold Blood (1965), trad. Mariapaola Ricci Dettore, Garzanti, Milano, 1ª edizione aprile 1966; Collana Garzanti per tutti: Romanzi e realtà n. 185, Garzanti 1969; Collana i Garzanti, 1975; con Introduzione di Vincenzo Mantovani, Oscar Mondadori 1891, Milano 1981-1986; 1990 («Oscar narrativa» 812).