di Antonio Lanza
«IL BISOGNO DELL’ASSOLUTO E DI CINQUANTA LIRE».
I QUADERNI DI ANTONIO BRUNO
VI parte
Antonio Rapisarda, detto Rapisardino o Hanyante Surhumainyantz o Hanyante da-Sindonae o, ancora più semplicemente e melodiosamente, Antonio Aniante
Lo chiamavo, per sfotterlo, Rapisardino, dice Bruno girandosi nuovamente verso di noi. La cameriera, impegnata a prendere l’ordinazione da un ragazzo chiacchierone e chiassoso sui vent’anni, solo a un tavolo in fondo, non gli ha dato retta, presa com’è da accessi di risate. Ma non ce n’era poi bisogno, continua Bruno, perché si sfotteva bene e meglio già da solo. Aniante, sapete, è il suo pseudonimo. Lo usava almeno dal ’17, da quando a Catania aveva fondato una di quelle rivistine astruse che nascevano ogni giorno come i funghi. E questa era astrusa già nel nome, l’aveva battezzata «Zothalpis»». Vi si firmava Hanyante Surhumainyantz o Hanyante da-Sindonae. Ne avrà vendute cinque, sei copie per numero, il resto le avrà regalate a destra e a manca, il tempo di farsi notare in città, da ragazzino che era, e poi l’ha chiusa. Nel 1923 è arrivato non so come a Parigi, senza un soldo e con degli stracci addosso. È venuto a cercarmi in albergo, il mio indirizzo l’aveva avuto dal professore Guglielmino, che mi aveva raccomandato di dargli una mano, come mi era possibile. E ci vedevamo spesso, specie in camera mia, dal momento che non potevo farmi vedere in giro con uno poveraccio italiano di quella specie senza perdere la faccia. E un aiuto gliel’ho anche dato, poi: gli ho presentato gente che poteva offrirgli un lavoro, e il vitto e l’alloggio. Lo consideravo un mio protetto e a volte lui mi lasciava credere che ammirasse la mia opera. Veniva spesso, come ho detto, in camera mia, dove parlavamo di letteratura o di donne mie spasimanti e vituperavamo Catania e i catanesi; e, negli ultimi tempi, si discorreva anche di Cristo. Mi guardava con tanto d’occhi se gli leggevo alcune mie cosette inedite. E una volta, una mattina, è corso da me per raccontarmi di un sogno che aveva fatto, eccezionale. Ed eccezionale un po’ lo era, in effetti. Era il periodo del mio ritorno alla fede, avevo preso ad andare a messa regolarmente, avevo intrapreso certe letture e appeso infine il crocifisso al mio capezzale, provando a cambiare vita, a uccidere l’uomo che ero stato fino a lì. E lui a un tratto irrompe in camera mia e «Ti devo raccontare un sogno, ho fatto un sogno stanotte! Ascolta! Siediti!», e me lo racconta che ero ancora in pigiama, prima della tolette mattutina. Mi dice che il sogno era proprio ambientato in quella stanza, che io e lui stavamo conversando al nostro solito, ed eravamo in piedi vicino al letto, e a un certo punto ci rendevamo conto entrambi che un altro me, un secondo Antonio Bruno, giaceva disteso su quel letto, mezzo addormentato e a pancia in giù e con i vestiti addosso, con i piedi che sporgevano dal materasso. Allora nel sogno Rapisardino si allarmava, mi chiedeva come diavolo facessi a conciliare quei due me, e voleva sapere se in quel momento io realmente fossi quello sveglio con cui lui stava parlando o quello addormentato che entrambi, io e Rapisardino, guardavamo sconcertati. Chi dei due ero io? Io non gli davo risposte sensate, o almeno non ricordava bene che cosa provassi a replicare, e alla fine succedeva una cosa. Che io, cioè l’Antonio Bruno disteso, mi svegliavo e ancora rintontito dal sonno passavo tra me e lui, toccandomi la fronte come se stessi male, e andavo in bagno. Il sogno di Rapisardino continuava poi in un turbine di altri eventi, come spesso capita nei sogni: si complicavano le situazioni, le persone si sovrapponevano, i luoghi dove tutto accadeva costantemente variavano. Di tutto ciò Rapisardino ricordava bene solo l’episodio dei due me, che lo aveva impressionato, segnandogli la giornata. E la sera ne parlava ancora, ricordo, in presenza di una sua amica, Renée, un’operaia parigina ancora più povera e scalcagnata di lui, che aveva portato da me per farmela conoscere e per raccontare anche a lei del sogno che aveva fatto. Quella sera si è discusso a lungo insieme del significato da attribuirgli; e più che discutere per la verità era lui che pontificava, scolandosi bicchieri e bicchieri del mio vino. Insomma, a fine serata, Rapisardino aveva stabilito che l’Antonio Bruno dormiente e forse – adesso che ci pensava meglio – moribondo rappresentava il vecchio Bruno, l’esteta baudelairiano, il poeta col monocolo, il dandy futurista e leopardiano, mentre l’altro Bruno era l’uomo nuovo, tutto lacrime e Vangelo che, dato l’ego smisurato difficile da sopprimere, avrebbe abbandonato la poesia e finito addirittura per fondare una nuova religione, il Brunesimo. Ma non era tutto lì, ormai Rapisardino delirava. Prima che tutto questo accadesse, continuava, avrei sedotto Renée e ne avrei avuto una figlia che avremmo poi deciso di chiamare Maria; a lui invece, sbarazzatosi dell’unico suo possibile rivale che scorgeva all’orizzonte, cioè io, avrebbe cominciato ad arridergli una fortuna teatrale e letteraria senza pari, tale che Pirandello sarebbe passato per un dilettante. E altre cose aggiungeva: che aveva già pronta una raccolta di novelle spassosissima, per esempio, che avrebbe pubblicato entro l’anno, e che gli mancava solo un racconto per ritenerla completa, un racconto che aveva già in testa, dall’inizio alla fine, e che avrebbe scritto quella stessa notte, perché non gliene sfuggissero le suggestioni, tutta la notte e, se occorreva, anche il mattino seguente.
Lo avrete intuito, ormai: questo Aniante è un teatrante, un buffone che non piglia nulla sul serio, neanche se stesso, un impostore mostruoso, un mattoide neroniano: Catania e la sua eterna farsa gli scorrono nelle vene come a me e a voi il sangue. Mi ha preso in giro tutta la sera con i suoi discorsi sconnessi, e credo addirittura che la storia del sogno se la sia inventata di sana pianta, per canzonarmi meglio, e che sia poi andato a casa a scrivere quel racconto – fatemela passare – orrendo, disonesto, diffamante e ingiurioso, su me e Renée, che ha pubblicato come novella di esordio di quel libro insignificante, stampato infatti su carta da pesce, che è «Segreti di Cagliostro». Di Cagliostro, capite? Del più grande farsaiolo che la Sicilia abbia potuto partorire. E qui, vede, come sempre esagera, amico mio; e mi perdonino i suoi ascoltatori se la interrompo mentre li sta ammaliando con il suo proverbiale eloquio e l’altrettanto nota esondazione di bile che ogni tanto la coglie, ma di quanto ha detto devo rettificare un paio di cose, e forse anche più di un paio, per la verità.
La voce, stentorea, arriva dal fondo, e precisamente dal tavolo del ragazzo ventenne, che infatti sta guardando verso di noi torcendo il collo e puntellandosi col braccio destro sullo schienale della sedia per mantenere meglio la posizione.
In piedi accanto al ragazzo, la cameriera è intenta a trattenere uno scoppio di risa. Dice di chiamarsi Antonio Aniante, fa lei dopo un po’ tornando seria, e che è nato a Viagrande in provincia di Catania il secondo giorno dell’anno 1900.
Antonio Bruno nacque a Biancavilla (CT) il 20 novembre del 1891 e morì suicida in una camera dell’albergo Italia, a Catania, all’età di 41 anni. È autore di due libri di poesie, More di macchia (1913) e Fuochi di bengala (1917), di due saggi Come amò e non fu riamato Giacomo Leopardi (1913) e Un poeta di provincia (1920) e un romanzo epistolare 50 lettere d’amore alla signorina Dolly Ferretti (1928). Nel 1915 fondò e diresse a Catania il quindicinale Pickwick, uno dei migliori esempi di rivista di avanguardia, ben recensita da Lacerba e La Voce. Suoi scritti comparvero su Lacerba, La Diana, l’Italia futurista e Il Tevere. Tradusse Baudelaire. Postuma uscì la sua traduzione de Il Corvo di Poe.