di Diego Conticello
<<A Milano, negli anni dell’Università, l’analogia tra mare e ispirazione si trasformò con naturalezza in analogia tra mare/notte/ispirazione>>: non vogliamo affatto credere che il passaggio dalla prima a questa seconda raccolta di Reale si possa condensare in cotanta immediatezza. Se a livello tematico questa – pur semplicistica –
definizione potrebbe reggere, essa non trova riscontro sul versante linguistico, dove la poetica realiana si pone:
il problema di superare il frammentismo della ricerca ermetica, nella compattezza delle strutture sintattiche, nella riconquista di un discorso pieno ed articolato. Ed insieme il problema di risolvere l’<<alchimie du verbe>>, al di fuori delle preziosità esoteriche, riscattando la dignità del linguaggio poetico, le espressioni del linguaggio quotidiano.
Queste parole mi paiono più opportune nell’intento di descrivere la nascita de Le quotidiane abitudini, del resto la meditazione portata avanti dal neorealismo prima e dallo sperimentalismo poi, suggerivano un definitivo distacco da ogni cifra ermetica tendente a divaricare il fossato tra realtà fattuale e verso. Fatalmente, sin dalle prime battute, il nostro poeta pare propenso a questo distacco dalle “cose”:
Non cercate nella mia demenza
un solo atto d’insania,
la mia vita trascorre
con lucida avvedutezza.
Non ho appiccato fuoco,
non ho ucciso per poco
e fermamente accetto
la vostra verità.
Esordire con diverse negazioni mi sembra una matura e meditata condanna del ‘nerume’ del mondo, accompagnata da una giusta dose di volontaria “omologazione” a strutture sociali che non appartengono all’“uomo” Reale, ma che il poeta adotta per convenienza superficiale, chiedendo di essere quasi lasciato in pace, nella propria ‘estraneità’, come presente e tuttavia assente “nel” mondo; egli sembra dire: proclamo di accettare la vostra verità purché mi lasciate spazio per riflettere sulla mia. Tant’è vero che Reale si accomuna, non ci è dato sapere se spiritualmente o materialmente, a tutta quella gente che ha rifiutato il mondo, perché il mondo stesso l’ha rifiutata: <<ladri prostitute assassini:/ l’oscura fauna che con me cercava/ nella nebbia un’apparente libertà>> e ancora: <<Uomo che m’avvicini affabile,/ sento che hai bevuto dal tuo fiato.// […] Ti ringrazio d’avermi parlato/ stasera che l’inverno/ m’aveva ricoperto di uno strato/ difficile a rompersi di gelo>>.
Per vie sottese il poeta vorrebbe tuttavia ‘elevare’ il quotidiano, per riscattarlo da putridi moralismi sociali: in tal modo la cronaca schietta assurge a poesia, anche tramite sapienti collages da occhiello giornalistico:
A CAGIONE DELLE NEBBIE
CHE AFFLIGGONO LA REGIONE LOMBARDA
LA SITUAZIONE DEI COLLEGAMENTI
RISULTA PRECARIA
Diceva il giornale di ieri
che un camion ha sfondato
una chiesa, che un uomo
è scomparso da tre settimane.
Stamani
il tram per Monza
è stato trovato
nella campagna di Rho.
oppure:
Un’ape regina ha eletto dimora
su un platano di corso Indipendenza.
Di là muove col seguito regale
impetuosi assalti ai davanzali.
Ma avverte un’ordinanza del Comune
che oggi, dieci aprile, alle diciotto,
il vigile più esperto di alveari
sfratterà la regina con lo sciame.
In Basilio Reale accade così che <<l’aspetto epigrammatico del suo animo, la zigrinata ironia, quasi l’autocaricatura che a emerge a spezzare i vincoli mnemonici del cuore e a burlare con celiato sarcasmo le molte finzioni che troppo spesso reggono il discorso degli uomini e la loro struttura sociale>>, ritornino in maniera ossessiva a limitare l’amaro delle escursioni nel sottobosco dell’abitudiarietà.
Nemmeno il sentimento amoroso si sottrae da simili vezzi ‘trafilettistici’: <<Del suo amore va fiera/ […] e minaccia di morire/ se la lascio quest’inverno.>> (gli ultimi versi hanno sapore di “previsione meteorologica”). Considerazioni antitetiche meritano invece le poesie della sezione Da una lettera, dedicate alla futura moglie Paola Grandi; qui i toni si fanno lirici, per un amore “sottratto alle abitudini” quotidiane, dove la donna diviene suadente preda di un poeta che si finge ironicamente “cacciatore maldestro”, perché irretito dalla passione:
A un tiro di fucile, nei canneti
sulle sponde del tuo fiume,
alle stagioni impassibile ti celi
e il pelo muti, chè non ti riconosca,
ch’io esiti a colpirti dritto al cuore.
L’ironia è anche la malcoprente maschera di un “cambiare discorso” per voler nascondere talune ritrosie da innamoramento:
Discutendo con te, di te con altri,
ora m’accorgo che son trascorsi anni;
e se una conclusione,
fra le varie possibili mi tenta,
non rimane probabile che questa:
i teneri tortini di carciofi
serviti al Ristorante Stazione,
a Piacenza sembravano più buoni
anche fra un treno e l’altro.
Una certa aria da memoria trasognata emerge nella sezione Varie, che tratta a più riprese di ritorni ai paesaggi siciliani, com’è nei versi: <<San Gregorio, alla tua rada,/ fra i velieri in oblio, piegate l’ali,/ s’àncora il cuore, oscilla/ all’altalena delle stagioni.>>, oppure nella lirica Collegio, dove si avverte fra l’altro una manifesta eco consoliana: <<[…] sento la ferita dell’aprile/ ritornato sui monti del Peloro.>>.
Riassumerei pertanto il timbro di questa seconda raccolta realiana nei termini, indagati da Zagarrio, di:
[…] uno stato di annoiata continuità esistenziale abbrividita a volte da improvvisi gorghi memoriali, e una scelta linguistico – stilistica di moduli discorsivi, di inserti atonali, di strutture lessicali e sintattiche parlate e antiletterarie, ricavate da un’ironia signorilmente pacata ma in definitiva rinunciataria.
E se l’ironia è rinunciataria perché vorrebbe risollevare i risvolti oscuri del vissuto giornaliero piuttosto che assumerli neutralmente, mi pare che Reale tracci una direzione esistenzialistica per i successivi sviluppi del suo verso.