di Diego Conticello
Per una poesia ‘protesica’: I ricambi
Le dodici ‘sequenze’ de I ricambi prendono forma nel biennio 1965-1967; alcune di esse verranno pubblicate già nel 1966 su <<Paragone>>, la rivista di Roberto Longhi e Anna Banti, mentre l’intera raccolta vedrà la luce solo nel 1968, presso l’innovativa collana mondadoriana “Il Tornasole”, che si affiancava alla prestigiosa “Lo Specchio”, coll’intento di rendere noti certi poeti d’imprinting sperimentale.
Basilio Reale, in questo suo quarto lavoro, ripubblica anche gran parte delle cose precedenti, incluse ne Le quotidiane abitudini e ne La vita attiva, apportando solo lievi modifiche, soprattutto nel titolo di qualche composizione; in queste due ultime raccolte inserisce alcune liriche inedite.
<<Una serie di composizioni tutte giocate su quelle verità decimali dell’uomo che neppure il Grande Calcolatore della Vita Contemporanea Integrata riesce ad azzerare>>, scriveva a ragione il Crovi, ma queste verità decimali non possono che provenire da attività altrettanto decimali:
In teoria tutto dovrebbe
andare benissimo.
[…] Egli è seduto al tavolo,
sta facendo parole incrociate.
Una parola due parole
molte parole dificili.
Così la vita è indagata nei suoi aspetti ‘attimali’, momentanei, nei patemi d’animo istantanei dell’uomo ormai “continentale”, che ha trovato un minimo di “adattamento” ai ritmi frenetici della grande metropoli industriale, originario com’era di un meridione incline all’impigrimento:
[…] perché non è bene, forse
è anche riprovevole
far sempre finta di niente
o dare la colpa agli ingorghi,
e starsene lì
con la testa fra le mani.
In tal modo, con ironico distacco verso le aberrazioni dell’era post-moderna, Reale <<disegna sul fondo opacizzato della civiltà industriale inquieti stenogrammi della mitologia meccanica (la mitologia attuale) e vi sovrappone o vi accompagna, per ironizzare e per bisogno di opposizioni, l’antica mitologia dell’amicizia, della libertà, dell’arte>>:
[…] L’aria libera fa sani
il moto allontana i pensieri:
dopotutto può essere che vada
per il meglio
Il nostro poeta cerca di tradurre col suo linguaggio la realtà asfittica, alienante, soggiogante che lo circonda: la poesia allora non può più essere canto arcadico, idillico; le parole non possono formare un verso pieno e indipendente nella sua costruzione formale, restano soltanto
[…] linee di parole, spezzate secondo criteri puramente grafici. Nessun accento, nessun pedale sonoro. Qualcosa di simile a ciò che accade nei testi pubblicitari: dove, come si sa, gli <<accapo>> sono un valore soltanto visivo, non musicale. […] E forse, con maggiore approssimazione, si potrebbe parlare anche di <<didascalie>>.
Ne esce una “conversazione interrotta”, fatta di espliciti ammiccamenti al lettore, che tuttavia ne resta spaesato:
A questo punto
la conversazione fu interrotta.
Tentammo in seguito
delle spiegazioni
ma può accadere ancora.
E anche a voi.
L’equivoco corre inoltre in due spezzoni tratti da poesie diverse, che sembrano tuttavia una la continuazione dell’altra; la prima è datata 1962:
I giorni si allungano.
Il resto è ambiguo come questo
caso che si presenta a voi
di un uomo tagliato a metà.
[…] Ma l’una e l’altra parte
in cui era diviso il corpo
così tagliato, avviene
che si saldi lentamente.
e la seconda, scritta quasi un lustro dopo:
Il suo nome è italiano?
No, mi chiamo Medoro.
E’ lei il signor Collins?
No, il mio nome è spagnolo.
Lui parla, io sto parlando,
voi potete ascoltare
quello che ci diciamo.
Al lettore è sicuramente data facoltà d’ascolto, ma senza il beneficio della comprensione se non tramite la giustapposizione dei due membri: adesso, ad un occhio attento, si palesa senza riserve un celato calco calviniano.
Come non pensare infatti al Visconte dimezzato (1952), primo romanzo della celebre trilogia ‘fantastica’ I nostri antenati (1960), del poliedrico scrittore cosmopolita. Il protagonista della novella si chiama – guardacaso – “Medoro” e la vicenda lo vede favolescamente “tagliato a metà” da una palla di cannone, le cui due metà sopravvivono autonomamente, finché vengono riunite grazie all’amore della pastorella Pamela. Così nel nostro poeta sono sprazzi di sentimento a risollevarlo dai rischi della massificazione industriale:
Non ho che te (amor mio).
Prendo un caffé,
e poi otto ore d’ufficio.
Calvino d’altronde viene riconosciuto dalla critica come il più profondo riformatore linguistico del romanzo novecentesco e l’attingere all’autore de Le città invisibili, da parte del Reale, mi sembra un procedere realizzato per similarità di poetica. La lingua di Basilio Reale, come quella del Calvino, è una lingua contaminata, mescidata, frastagliata e multi-prospettica. Si pensi anche al Montale di Satura, dove il poeta ligure si reinventa trattando gli effetti stranianti conseguenti alla depressione del post-boom economico.
Come ha magistralmente esplicato Alberto Panaro (in un suo studio mai edito), <<la lingua dei Ricambi proviene dalla comunicazione quotidiana contemporanea. Non è poesia che nasca dalla (sulla, per la) poesia>>; essa piuttosto, come dicevamo in precedenza, <<mima gli effetti ipnotici della pubblicità>>:
Chiudi gli occhi.
Apri gli occhi.
Posso fare di voi una mente
in una sola sera,
darvi – eccovi! – un
cervello-macchina-da-pensare.
altrimenti <<allude al distratto ascolto di un giornale radio mattutino>>:
Dopo una meravigliosa
notte insonne, notizie
vaghe di qualcosa
accaduta da qualche parte.
ma soprattutto <<si contamina con il cinema; l’esperienza della vita si confonde con quella dello schermo>>:
Qualcosa deve essere accaduto,
nel frattempo, quando
si avvia e entra nella sala.
Un uomo e una donna
si tengono per mano nel primo
fotogramma, nel secondo
ancora per mano in una stanza.
e questa contaminazione quasi vorrebbe surrogare la realtà:
Dal Duomo a Monforte
camminando all’ombra dei portici.
Lento zoom sul volto
di lei, stacco sulla sua nuca.
Panaro, con un azzeccato paragone, ci porta dritti al cinema di Jean-Luc Godard, l’eclettico regista transalpino di À bout de souffle (1959), Une femme marine (1964) e Vivre sa vie (1962), che Reale doveva senz’altro apprezzare. Le sequenze piane dei montaggi godardiani evidenziavano i momenti clou con stacchi estemporanei, magari su nuche di attrici dai capelli cortissimi, come la Jean Seberg de À bout de souffle.
Il verso realiano si sviluppa in tal modo <<attraverso la riduzione semantica delle unità oggettive alla brevità fotogrammatica dei films o dei fumetti>>. Del resto anche Giovanni Raboni, paradossalmente non pensando al cinema, opinava che la poesia di Reale si formasse da <<una scrittura di tipo prevalentemente segnico, in cui cioè le parole tendono a privarsi della propria storia oggettiva e persino delle proprie valenze sonore per fungere solo come segmenti di un’ipotesi figurativa>>.
La poesia di Basilio Reale con questi Ricambi compie – se possibile – un ulteriore salto in avanti nel proprio cursus sperimentativo: diventa una “semiotica protesica”, ovvero un’arte che, come il cinema o la pittura utilizza, anche se solo nel linguaggio, alcune ‘protesi’ del corpo umano quali telecamere, zoom ottici o pennelli, per dipingere una nuova realtà dagli effetti sempre più stranianti e meccanizzati. Di tutto questo ci parla profeticamente il poeta quando scrive con amara ironia:
Ci sono già i ricambi, come
mani gambe
cuori di plastica arterie di nailon,
minuscole telecamere
capaci di rendere la vista,
batterie collocate nello stomaco.
E se “ricambi” vale “protesi” (surrogati), è chiaro che l’intento di Basilio Reale è quello di mostrare anche i possibili effetti depressivi del boom, ormai palesi alle soglie degli anni settanta.