Ad aprile per Interlinea uscirà un libro scritto da Giovanna Vivinetto : “Dolore minimo”. Ho avuto la fortuna di leggerlo. Senza molti preamboli, attesa la brevità della mia rubrica, si tratta di un lavoro splendido come pochi tra quelli letti negli ultimi mesi. La Vivinetto regala una prova di grande scrittura (asteniamoci come ho già detto per altri autori da considerare l’età anagrafica), strutturando una “storia”, forte e viscerale. Non si tratta di poesia diaristica, tutt’altro. Il distacco dell’Io è preponderante, la totale mancanza di autoreferenzialità e di sminuente (auto)pietismo è totale. I versi graffiano, corrodono e scorrono fluidamente, mai zoppi, senza alcuna caduta di tono. A differenza di Alessandro Fo che firma una pagina introduttiva, non parlerei di poesia ovidianamente di metamorfosi (richiamo calzante ma incompleto) ma di una poesia di ritrovamento,(ri) conoscenza, resurrezione, nell’esplosione delfica di un vero γνῶθι σαυτόν . Dolore minimo è un libro che sicuramente farà parlare, non soltanto per l’argomento scomodo e realmente doloroso (non faccio troppi spoiler) ma soprattutto per la sua bellezza, potenza del dettato e il coraggio di aver scelto di nascere.
Non ho figli da dare – non potrò.
Non ho tube che si gonfiano
né ovuli da spargere per il mondo.
Non ho vulve da tenere fra due
dita – da schiudere tra le valve
delle gambe non ho niente.
Ma lui mi sfiora, continua a toccarmi,
a perlustrare con le dita questo
corpo imploso, risucchiato tutto
all’interno. Fuggito senza lasciare
tracce. E lui persiste a sfiorarmi
per trovare il punto che possa
dargli piacere. Che possa
consolarlo, farlo sentire uomo.
Non glielo dico, ma non c’è.
Eppure tutta questa sua goffa
illusione, quest’avventatezza
nel proiettarsi verso il dato certo
per un attimo mi restituisce
tutto ciò che mi manca – e al suo miracolo
questa sera mi faccio donna.
Completamente
La terza perdita fu il perdono.
Avrei voluto scusarmi per i toni
accesi verso il tuo non comprendere,
la rara gentilezza dei miei
quattordici anni quando parlavi
senza premesse. Ma la colpa
non era di nessuno: non era tua
che mi indicavi il corpo e mi dicevi
di stare attenta, che non sarebbe stato
facile – non era mia che non riuscivo
a perdonare il tuo insinuarti
maternamente tra pelle e nervi
a scovare tutte le incertezze, gli stalli
che a quel tempo non avevo.
La terza scoperta fu il perdono.
Quando fui grande abbastanza
per capire cosa volesse dire
essere madre, un perdono tondo
e commosso provai per te, e provai
per le altre donne-bambine come me
e lo provai per me, che tenevo
fino a quel punto il filo rosso dell’infanzia
e da un giorno all’altro, adultamente,
non tenevo più.
Una volta l’anno discendevo
a te, madre, d’autunno.
Tu mi accoglievi con foglie
tra le mani che disperdevi
al vento ad ogni mio arrivo.
Capivi, madre, l’ordine nascosto
delle cose – così quando ai miei otto
anni sussurravi “figlia mia”,
io ti rinnegavo tante volte
quante erano le foglie che svolavi.
“Siamo foglie d’autunno, figlia mia”
era il tuo unico, dolce monito.
Per i successivi dieci anni
discesi a te ogni autunno, madre
e ti vedevo, com’eri solita fare,
disperdere foglie e sibilare
tra le labbra nomi di donna
– nomi di figlia a me ignoti.
L’autunno dell’undicesimo anno
scesi a te, madre, ma non ti trovai più:
le foglie restavano ammucchiate
– non c’erano mani a liberarle nel vento.
Ti chiamai, sussurrai il tuo nome,
sciogliendo la verità in esso nascosta.
Quell’autunno al posto tuo,
in vece delle tue mani dispersi
le foglie, mi nominai al vento,
riemersi dall’inferno che mi moriva
in petto: fu così che mi arresi
al dolore dei nomi quando capii
che quel nome che andavi chiamando
era il mio, madre
Il corpo non dimentica la traccia
del ferro – è una via da aprirsi per fare
luce, per tornare alla terra,
al tronco materno, al fiume.
Si è lavato il corpo col pianto.
I nodi di pelle sono stati sciolti
da mani di feltro – preparate
le ultime cose.
Si è rinunciato per amore
al nome dei padri. Alla retta
che genera si è preferita
la conca di legno, che accoglie.
Si è atteso il ferro, e l’ago
e il sonno che viene
come una cura. Per rinascere
si è atteso una vita intera.
La natura si è nascosta
dove poteva essere trovata
ma nessuno confidava
nei suoi buoni propositi.
Il ferro ha inciso profondo,
ha frugato tra i rami, nel sangue,
l’ha portata fuori. Alla viva luce
si è compiuta la nascita.
Il corpo non dimentica la traccia
del ferro che taglia per liberare:
è un gesto atavico, primordiale.
La via si è aperta, la luce
torna alla madre, all’albero,
e la terra si congiunge alla terra.
Ma le cicatrici restano e neppure
quelle il corpo dimentica.
È come se la natura, liberata,
vi ballasse ora adagio sopra
a ricordarci che mai a niente
si rinuncia per sempre.
ci sono le premesse per diventare una grande voce.
…a me sembra già una gran voce. E’ cosa davvero rara affrontare determinati argomenti con tanto coraggio e verità e delicatezza; e, soprattutto, esprimerli in versi in cui il dolore, emotivamente dominato, venga risolto esteticamente in modo così terso ed elegante.
Non si tratta di poesia diaristica, tutt’altro. Il distacco dell’Io è preponderante, la totale mancanza di autoreferenzialità e di sminuente (auto)pietismo è totale.
Ah sì? Pensavo il contrario.
Caro Flavio scusa ma non capisco se il tuo è un attacco ad personam o al libro…immagino che tu l’abbia letto per fare ironia…e mi sembra che questa ironia non sia supportata da una critica al testo….
non è un attacco, ma semplice esercizio di critica, oltre all’odiosità di un sistema che cerca di montare attorno all’autore sensazionalismo a tutti i costi pur di vendere due copie di un libro, ma veniamo al sodo. Le poesie si trovano in rete come la rucola dal verduraio, quindi non c’è bisogno di gettare soldi nel libro, francamente non mi piacciono: le migliori sono risciacquature della Plath, altre anche un po’ volgarotte: se esprimere il proprio parere è attaccare, allora non ci siete proprio, e se esprimi un tuo parere diventi automaticamente un transfobico