CONSONANZE E DISSONANZE / Senza prescrizione: “Calende” (Manni, 2018) di Elia Malagò

Quella che segue è una nota di lettura che, prendendo scherzosamente a pretesto il titolo del libro, avrei voluto rimandare alle calende greche. Se i motivi legati alla conoscenza personale dell’autrice sono puramente aneddotici e con ogni probabilità non meritano menzione in questo contesto, è d’altra parte con una certa prudenza che cerco di avvicinarmi alle Calende di Elia Malagò, pubblicate alla fine del 2018 da Manni. Prima di tutto, perché quel calendario che è parimenti evocato dal titolo non abbia troppa fretta: non vuol essere una semplice lamentazione a proposito del tempo che passa, anzi!, ma l’espressione del timore che l’introduzione di un piano temporale ben preciso – una storicizzazione troppo appiattita sulla dimensione politica, ad esempio, o per altri versi troppo affine alla contemporaneità e alla sua frammentazione di significanti e significati – entri in conflitto con una lingua che non si vuole mai lasciare ingabbiare in una o più categorie ben definita, a costo di perdere molto della vitalità che esprime.

Ne è sintomo il titolo di una sezione del libro, già pubblicata come plaquette per le edizioni artigianali di Fuocofochino nel 2017: Lalange. Che si tratti della langue saussureana – alla base, insieme alla più concreta e specifica parole, di una distinzione fondante per la linguistica moderna – o, com’è forse più adeguato, della lalangue lacaniana – lingua preverbale che abita il corpo e lo parla – questa importa meno del ricordare come entrambi i concetti, a seguito del discorso lacaniano, si discostino dal linguaggio in quanto elucubrazione di sapere e, al tempo stesso, forma di potere, costruite appunto sulla langue o lalangue. A questo si deve però aggiungere, come aveva già notato Giacomo Cerrai a proposito della plaquette, che “il refuso/lapsus in questo contesto prende la sua rivincita, guarda caso freudianamente verrebbe da dire, sulla “tecnica” lacaniana (cioè qualcosa che è interno alla disciplina), perché viene da qualcosa di più profondo e personale che nemmeno avrebbe bisogno di definizioni, dalla memoria”.

Sarebbe forse opportuno aprire una riflessione su queste ultime parole, perché, se da un lato pare legittimo affermare che il refuso può aprire uno squarcio verso un’altra dimensione – che può essere definita più ‘profonda’, se si vuole – non è detto che quest’ultima sia necessariamente più personale, o individuale, né più vicina a una qualche costruzione e conquista – o decostruzione, e sconfitta – della memoria. Lalange è piuttosto materialità di un corpo abitato da elementi ancestrali, ma che non significano, per questo, una riduzione all’autobiografia, alla magia, alla natura: soltanto una volta che si è prodotta e riprodotta, lalangue può incontrare il proprio refuso e gettare uno sguardo all’indietro, a causa dell’inciampo, alla scoperta di un retroterra che è al tempo stesso prelinguistico e linguistico.

L’ingenuità, dunque, è perennemente bandita, in questo che è un processo di continua generazione di un certo paesaggio, nonché, richiamando Zanzotto, delle inquietudini che si muovono dietro la sua costruzione. Di conseguenza, non è tanto e solo il paesaggio padano di campagna, e di golena, a riemergere dalla vicenda biografica dell’autrice, nata a Felonica, lembo della provincia mantovana che si protende, o forse è già ferrarese (per quanto queste distinzioni poco contino): una rappresentazione che è anche, fuor di dubbio, rappresentazione di quel paesaggio si arricchisce, nei vari libri di Elia Malagò, di nomi, dettagli e precisazioni, moltiplicandosi, frammentandosi e variamente ricomponendosi, anziché procedere in un modo falsamente compatto verso una rievocazione che sia puramente nostalgica. È la sorte di “nebbi – enne” (p. 101), per dirne una: moltiplicazione all’ennesima potenza di un elemento fondante dell’esperienza quotidiana della bassa padana, sempre uguale a sé stessa, ma nuova a ogni sua apparizione (che è anche, al tempo stesso, sparizione di quel che la nebbia nasconde).

Questo non vale soltanto per il teatro naturale, ma anche per quello famigliare, con memama (“mia mamma”) e meopà (“mio papà”), presenti sin dalla dedica iniziale per poi ritornare varie volte nel libro. Neanche in questo caso si tratta di un ritorno perfettamente compiuto, a indicare la ferita rilkiana di questa poesia che resta abbarbicata, come conchiglia, all’origine della lirica, senza fare di questo motivo un’istanza aprioristicamente autolegittimante, bensì cercandovi, insieme all’origine, ma anche l’ethos del fare poesia, da scoprire in quello che è a mio parere uno dei vertici della raccolta, ossicine: “il neuma scandito nel silenzio / della decenza” (p. 48).

In fondo, come scriveva Zena Roncada in occasione della ripubblicazione online (Feaci edizioni, 2008) di Pita pitela (Forum/Quinta generazione, 1982), nella poesia di Elia Malagò “non si torna alla poesia, quasi fosse un grumo immobile, inchiodato. È la poesia a raggiungerci e a toccarci nel suo percorso circolare lungo i tempi e i luoghi, con il valore aggiunto di tutte le sue traversate, di tutti i suoi viaggi”.

Come lo stesso titolo di Pita pitela, anche memama e meopà e tutte le altre emersioni del dialetto come presenza viva all’interno della lingua di Elia Malagò rendono la lingua stratificata e al tempo stesso agile e dinamica, ricordando, a tratti, quella di Pierluigi Cappello, al quale sono peraltro dedicate Le parole non dette: parole che, peraltro, “non cadono mai in prescrizione” (p. 31). Come si legge più avanti, in fondo, “il giro delle parole è un suono antico come la pelle del coniglio”, da usare sempre, “a difesa dall’inverno” (p. 66).

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