Venticinque testi più uno, uniti in una chiara sequenza poematica scandita in due sezioni, segnano l’esordio di Stefano Modeo, dal titolo La terra del rimorso (Italic, 2018). Torno su questo libro, a distanza di qualche tempo, ormai, dalla pubblicazione, per rilevarne le tante qualità e un possibile orientamento volto al futuro.
Il titolo e l’iniziale epigrafe, nonché buona parte del poema, rimandano alla Terra del rimorso (1961) di Ernesto De Martino, figura capitale del secondo Novecento italiano che, nel libro in questione, si occupa del tarantismo e cioè, in primo luogo, di una questione culturalmente localizzata più o meno nella stessa area di provenienza dell’autore, di origini tarantine. Tuttavia, senza localismi di sorta – neppure travestiti da posticci universalismi – ma cogliendone ed elaborandone i tratti fondamentali, Modeo individua chiaramente l’orientamento teorico-politico dell’opera, che reca sì il sottotitolo Contributo ad una storia religiosa del Sud ma che, nell’esercizio dell’indagine etno-antropologica, evidenzia un preciso, per quanto a tratti idiosincratico, posizionamento marxista. Naturalmente, il punto di partenza, nell’indagine demartiniana del tarantismo, è l’esperienza del “ri-morso”, da intendersi non come semplice morso del ragno, bensì come “secondo morso” – cito direttamente dall’epigrafe – “di un episodio critico del passato, di un conflitto rimasto senza scelta”. Nel presente, il ritorno è mascherato dal sintomo nevrotico, secondo De Martino, o dalla parola poetica, per quanto concerne la scrittura di Modeo – capace di rintracciare un’altra “moltitudine / morsa dalla tarantola della vita” nella seconda epigrafe, ascrivibile al Mario Luzi di Nel magma (1963), e precisamente in Presso il Bisenzio.
La scelta di Luzi non è accidentale, poiché si colloca nella stessa temperie culturale dell’altra opera citata – pur richiamando posture autoriali e opere che tra di loro sono lontanissime – e conferisce così un doppio tono alla raccolta di Modeo: da un lato, l’analisi materialista del dato culturale, dall’altro, la fiducia nella capacità medianica della parola poetica, rappresentata in modo paradigmatico da Nel magma. Nell’introduzione, Roberto Deidier opera questa sintesi: “Modeo, con queste poesie così distanti dalla colloquialità malinconica, dalla tenerezza spossata e inquieta di tanto minimalismo fin-de-siècle, imposta un’anti-epica, dirotta i languori di una visione ancora elegiaca o lirica, come poteva essere nella sua tradizione (quella, per intenderci, di Bodini o di Carrieri), verso esiti più rigorosi e serrati” (p. 8).
Concordando sul rigore con il quale viene disciplinato l’eventuale afflato lirico o elegiaco, pare tuttavia opportuno sottolineare come non possa definirsi totalmente “anti-epica” una scrittura nella quale compare ripetutamente la ricerca di un netto posizionamento intellettuale, culturale e politico, dall’iniziale chiusa e sigillo, “…ciò che io chiamo: la terra // del rimorso” (p. 17), fino all’utilizzo, con un certo understatement, di una specifica formulaicità retorica: “Imprenditori di se stessi, investiti tutti: una tragedia autostradale” (p. 21), o ancora “tutto il mondo è virtuale, la paura sale” (p. 27), e ancora oltre. È vero, alcuni dei versi più incisivi di Modeo recitano: “Fummo generati epici in questa terra / per veleggiarcene lontano / in un orbitale atomico / d’incertezze” (p. 19), fornendo così la sensazione che la migrazione che si legge tra le righe e, più in generale, il distacco dalla terra natale – che si può realizzare, naturalmente, anche in presenza, non solo “all’altro capo del Paese” (p. 17), significhi un distanziamento dalla sua epica costitutiva.
L’esito più sicuro è il ritorno all’interno e il successivo attraversamento della nevrosi, sintomaticamente evidente nella enumerazione con la quale si apre il testo numerato III, e che non ha nulla del catalogo delle navi dell’Iliade, rivelando invece tratti che sono insieme di invettiva e di embrionale sperimentazione linguistica: “Italia pubblicità, Italia comunicazione, pomodori, monetine / il luccichio della seduzione Germanica, ruffianesimo integrato / Grandi vittorie, grandi vittorie, Etiopie spot alleanze lecchine / santi in paradiso, paradisi ai tanti dotati di silenzi e guanti” (p. 21). Se della predisposizione intellettuale all’invettiva si è già accennato, occorre rimarcare tale volontà di sperimentazione ancora non compiuta, che si manifesta ad esempio nel gioco grafico, semplice ma tutto sommato d’impatto, di questi versi: “No! / sovvertire il punto esclamativo: / noi” (p. 25).
È come se dietro a De Martino e Luzi si scorgesse un riferimento più profondo e appassionato ad un poeta che potrebbe essere, ad esempio, Pagliarani – riferimento che attende un suo compimento futuro anche oltre e al di là dell’attuale consenso letterario (giustificatissimo, per carità, ma dai tratti spesso banalizzanti) verso l’opera di quest’ultimo poeta.
Quel che rincuora, invece, e che si offre già ora al lettore come importante punto di ripartenza, non solo per la scrittura di Modeo, ma anche di altri, è la presenza di una posizionalità dialettica, che si fa carico, tra gli altri, del populismo nazionalista e xenofobo che circola nelle classi subalterne – “Cacciamo gli immigrati, cacciamo gli immigrati. / crescono i tumori e invecchiano i genitori / silenziano i saloni, le sere luccicanti, alle televisioni / scongiurano l’avvenire come grandine e sproloquiano gli umiliati. / Uccidiamo gli immigrati, uccidiamo gli immigrati” (p. 26) – per poi cercare una via d’uscita “vitale”, per quanto paradossale, e anzi proprio perché paradossale “vitale”: “A nulla valse, a tutto vale – invece – / il desiderio di rivolta” (p. 48).