Danzare fra il buio e la luce Una cura dell’anima
racconto
e
I segreti della narrativa Il romanzo e il racconto
saggio
di Cristina Pennavaja
Recensione di Ivano Mugnaini
Quest’ultimo libro di Cristina Pennavaja ci offre una narrativa atipica nel suo approccio, e preziosa nella sua specificità. Non ci troviamo di fronte a raccontini infiocchettati di nastri e faccine rassicuranti. Il racconto lungo ci presenta un ritratto di famiglia senza cornici e senza filtri, che non ci pone di fronte a tragedie estreme. E questo (paradossalmente ma neppure troppo), lungi dall’essere un sollievo, è una sfida e un ulteriore motivo di timore. La tragedia è un evento raro che noi, per una forma di difesa psicologica, tendiamo sempre ad attribuire ad altri luoghi, ad altre persone. La esorcizziamo e cerchiamo di relegarla nell’orizzonte di esistenze distanti dalla nostra. La pena in apparenza minore, in apparenza sopportabile, riservata alla stragrande maggioranza di noi, non è eludibile, invece. Perché riguarda noi, anzi è noi. La nostra pena è noi, e noi siamo la quotidiana sopportazione di dolori che non raccontiamo agli altri per evitare che ci dicano per la milionesima volta che non si tratta di nulla di grave, perché in fondo “è la vita”. Ecco, per dirla con Henry David Thoreau, “La massa degli uomini conduce una vita di quieta disperazione; quella che si chiama rassegnazione è disperazione istituzionalizzata”.
In questo testo di Pennavaja c’è la descrizione, particolareggiata, dettagliata all’estremo, chirurgica potremmo dire, di una vita di quieta disperazione. O meglio (e questa è una prima caratteristica distintiva), c’è una disperazione che non è quieta, perché non viene accettata supinamente dalla protagonista. Subentra la ribellione, condotta prima con il pensiero, poi con la ragione a cui si unisce il corpo, il desiderio, il bisogno essenziale di un piacere autentico, non esile, non anemico. Nelle pagine del racconto c’è la sintesi particolareggiata dell’aspro conflitto quotidiano che il cervello, il cuore e il corpo della protagonista (e, con lei e attraverso di lei, delle persone che le sono accanto) conducono contro la rassegnazione.
Senza infingimenti, senza vane edulcorazioni, l’autrice parla di malattia, di disamore, di depressione, di tradimento, di pentimento, di rimpianto, della caduta e dell’arte del risollevarsi. All’interno di ogni gesto, piccolo o grande, intimo o in apparenza esteriore, si cela e si svela la ricerca di un senso che si allontana di continuo e di un piacere che bisogna pagare mille volte, ogni attimo, ogni goccia.
Questo libro non è adatto a chi vuole solo allontanare da sé i pensieri e sentirsi raccontare una specie di favola per adulti che vorrebbero tanto essere ancora bambini. Qui c’è la verità, la pura e semplice verità. E visto che, come diceva Oscar Wilde, “la verità non è quasi mai pura e non è mai semplice”, il libro è impegnativo; invita anzi obbliga a fare confronti, chiama in causa, fa mettere fianco a fianco le nostre miserie e i nostri (presunti) splendori con quelli raccontati nel testo con la nitidezza serenamente spietata di ogni passo, di ogni pagina del giornale di bordo del viaggio chiamato vita.
Tuttavia, per coloro che concordano con George Henry Lewes quando afferma che “La non sincerità è sempre debolezza; la sincerità, anche in errore, è forza”, e soprattutto per coloro che si trovano d’accordo con la frase poetico-filosofica di Albert Camus “Ci sono giorni in cui il mondo mente, giorni in cui dice il vero. Stasera dice il vero – e con quale triste e insistente bellezza”, vale decisamente la pena percorrere frase dopo frase il repertorio di pensieri, sogni, riflessioni e accadimenti racchiusi nelle pagine di quest’opera. Consiglio il racconto di Pennavaja a tutti i lettori che vogliano andare oltre le minestrine insipide di parole servite come piatto unico nei menu di molti volumi, non solo culinari.
La prima frase posta ad esergo è ricavata dalle parole di Emily Dickinson, una poetessa che ben conosceva dolore e solitudine, ma anche sincerità e ricerca ininterrotta di bellezza: “Portare la nostra parte di notte – / la nostra parte di aurora – / riempire il nostro spazio di felicità / il nostro spazio di risentimento – / Qui una stella, e là una stella, / alcuni si perdono! / Qui una nebbia, e là una nebbia, / infine – il giorno!”. Tra notte e aurora, buio e luce si dipana l’ampia gamma semantica di questa dicotomia. Ogni nostro passo si muove fra tenebra e splendore. E non è un caso che la fisica, così apparentemente impersonale e astratta, in realtà rispecchi alla perfezione il dilemma chiave di ogni interiorità. La danza, autentico filo rosso di questo libro, citata direttamente o indirettamente in moltissime situazioni, resa discrimine caratteriale per manifestare ad esempio la distanza nel modo di essere e di agire tra la protagonista e il suo consorte, diventa simbolo concreto, osservabile, dotato di corpo e movimento, tra armonia e disarmonia, luce e buio.
La danza è equilibrio necessario tra due corpi e due pensieri. Si alternano e si scambiano peso, forza, umore. È sostegno e resa alla forza di gravità, con la consapevolezza che lasciarsi andare è il solo modo per volare. La danza è resistenza all’aria e atto di resa conscia, presaga della risalita condivisa e di un volo abbracciato: “Qui una nebbia, e là una nebbia, / infine – il giorno!”, per riassumere tutto con i versi della Dickinson.
Altra caratteristica di rilievo del racconto è la capacità di accogliere in sé punti di vista divergenti, per giungere ad una sintesi che non è solo somma aritmetica ma coesistenza di concetti e punti di vista. Le altre due citazioni collocate dall’autrice all’inizio, subito dopo la dedica al figlio, sono esemplificative del suddetto approccio. Etty Hillesum afferma: “La nascita di un’autentica autonomia interiore è un lungo e doloroso processo: è la presa di coscienza che per te non esiste alcun aiuto o appoggio o rifugio presso altri, mai. Che gli altri sono altrettanto insicuri, deboli e indifesi”. Trovo degno di nota che, appena prima, sia citato un brano da Nati due volte di Giuseppe Pontiggia, punto di riferimento e maestro di Cristina Pennavaja: “Mi capita di vederlo a distanza, nella via lunga e stretta dove abito. Cammina lungo i muri delle case, per avere un appoggio, se incespica. (…) Una volta, mentre lo guardavo come se lui fosse un altro e io un altro, mi ha salutato. Sorrideva e si è appoggiato contro il muro. È stato come se ci fossimo incontrati per sempre, per un attimo”. (Nati due volte è l’ultimo romanzo di Pontiggia. Pennavaja lo commenta nel saggio. Ma il lettore si troverà di fronte a un’analisi critica che forse non si attendeva).
Il racconto è suddiviso in capitoli ciascuno contraddistinto da un titolo, che a volte riassume gli eventi in esso contenuti e altre volte ci offre una parola chiave, attesa o sorprendente: uno spunto di riflessione a cui possiamo tornare, confermando le nostre idee e posizioni, oppure trovarci trasformati.
“Ho dormito a occhi aperti. Nel buio guardavo la valigia marrone che ho ficcato sotto l’armadio. Dovrebbe starci il minimo per scappare ma è vuota. Cosa prende con sé uno che lascia tutto?”. Inizia con queste parole il capitolo d’apertura, denominato “Esordio”. Subito veniamo sollecitati a sintonizzarci con il passo rapido per necessità, per urgenza, non per gioco. Subito ci viene richiesto di sincronizzare i battiti del cuore con l’ansia di una fuga che non è breve vacanza, bensì bisogno assoluto di mutare i luoghi dell’esistere, e con essi i modi.
“Ho scritto anche di una cintura di cuoio per tener su i pantaloni ora che peso quarantadue chili. La cintura la ficco nell’armadio anche se è pieno zeppo. Io mi attacco, conservo. Tengo tutto insieme: indumenti vecchi, carte, centrini della bisnonna. Adesso Carlo e Nino.
Devo trovare il modo di risolvere i problemi, e salvarmi la vita”.
Quest’altro passaggio, collocato poco oltre, rende evidente la scelta narrativa fondamentale. L’autrice non racconta solo per dare vita ad una storia. L’impressione, forte, è che dia vita ad una storia che è di per sé vita, e, soprattutto, serve a dare vita a chi la scrive. Ossia è necessaria per salvare la vita, usando i termini esatti, ineludibili, che concludono la citazione riportata qui sopra.
La narrativa di Pennavaja si distingue da quella di molti altri libri che, perfino quando raccontano di morti, delitti, stragi, dolore e disastro individuale e collettivo, lasciano sempre e comunque in chi legge un sorriso pacato derivante dalla natura fittizia dell’oggetto del racconto. Danzare fra il buio e la luce, al contrario, è simile a certi film di Bergman, per certi aspetti. Ci si pone domande sui temi universali dell’esistenza umana, il conflitto generazionale, il silenzio di Dio, l’incomunicabilità, la presenza minacciosa della malattia e della morte, la crisi della famiglia e delle relazioni tra coniugi e amanti, le pulsioni nascoste dietro la maschera della persona. La solitudine, l’incomprensione, le dissociazioni di una psiche soggetta a pressioni laceranti, le ritroviamo in alcuni dei film più emblematici del regista svedese, tra cui L’ora del lupo, La vergogna, Passione, L’adultera, Scene da un matrimonio, L’immagine allo specchio.
La minuzia dei dettagli e l’insistenza sui particolari dei volti come rappresentazione visiva dei moti e dei conflitti interiori sono il cardine anche del racconto di Pennavaja. E, come accade con Bergman, il gocciolare di un rubinetto nel silenzio assoluto di una casa mentre gli abitanti non sanno cosa dirsi è più terrificante di un film sugli Zombie o di una pellicola catastrofista che mostra un immenso meteorite che spazzerà via il pianeta Terra. Sì, perché l’evento distruttivo più temibile è la “normalità” dei problemi di tutti i giorni, le malattie, la presa di coscienza del tempo che passa e del deteriorarsi dei rapporti con le persone care che vedi allontanarsi da te anche e soprattutto quando sono sedute di fronte a te o sono sdraiate nel tuo stesso letto.
Come in Bergman e in altri cineasti, scrittori e artisti che hanno scelto di rappresentare il piccolo e micidiale orrore della normalità, l’autrice ci mostra, con precisione diaristica, l’evolversi delle cose, le buone cose di pessimo gusto della gozzaniana Amica di nonna Speranza. Nella certezza che però sono anche le piccole cose su cui poggiamo, per scelta e necessità; sono le basi dell’edificio della nostra esistenza.
“Curva sopra l’acquaio, sto lavando i piatti. Dopo avermi aiutato a sparecchiare, mio marito ha aperto il giornale sopra il tavolo. Con la coda dell’occhio lo vedo: si appoggia con tutto il busto sulla pagina, il mento nelle mani”, ci rivela la voce narrante. Una scena ordinaria. Ma non tranquilla né tranquillizzante. La postura ha sempre un rilievo, una connotazione. E, soprattutto, Pennavaja fa sì che la protagonista ragioni tra sé e sé, esplorando il deserto e le foreste fitte del detto e del non detto. Tutto viene trasmesso al lettore. Ciascuno o ciascuna può (o deve) prendere nota, sentire in sé quella stessa tensione che sembra immotivata, riconoscerla così come si individua il sintomo di una malattia e fare i conti, decidere se mollare tutto e lasciarsi andare oppure restituire un minimo di senso, e di sentimento, al quadro muto dei giorni e delle sere.
È opportuno ribadirlo: questa narrazione non ci mostra città in fiamme e corpi dilaniati. Fa di più: ci mette di fronte agli occhi e al cuore l’infelicità dell’infanzia, gli inganni dell’amore, la precarietà dei rapporti umani. Lo fa senza pontificare, senza imporre prediche o tirate moralistiche. Al massimo, l’autrice insinua qualche commento, spesso volutamente di tono e natura opposti alle attese.
Nei momenti di massima tensione, non di rado giunge a chiudere il discorso (lasciandolo più che mai aperto) un’ironia sapida, dolce oppure tagliente. La sua funzione è in ogni caso salvifica: evita che la piccola ma costante pressione della goccia bergmaniana conduca del tutto alla pazzia, e, anche e forse soprattutto, conferma a sé stessa e ai destinatari ideali e reali del racconto che – pure nell’acme di un dolore che sembra piccolo ma ti squarta un po’ alla volta – rimane e resiste la vita, come potenzialità e come realtà effettiva.
“Papà mi ferì, però mi faceva sentire che c’era per me. E non ebbi sentimenti d’odio. Con il passare degli anni era diventato meno critico e accigliato. Il suo andarsene mi procurò tanto dolore; ma tiepido, benigno” annota Marina, protagonista e voce narrante. Ed è uno dei numerosissimi casi in cui i ricordi ci vengono rivelati in modo schietto, spesso in ordine cronologico, in altri casi a salti, per associazioni. La narrativa di Pennavaja ha origine nell’urgenza del pensiero e trae nutrimento dall’esondazione del sentire e del rivivere, ossia dal vivere di nuovo – nella scrittura e tramite la scrittura – quello stesso affastellarsi di sguardi, pensieri, parole, stati della mente e del corpo che si alternano e si mordono a vicenda nell’atto di rincorrerci per sbranarci, per salvarci o per farci de-siderare: catapultandoci in quella “condizione in cui sono assenti le stelle”, nell’istante esatto in cui ci accorgiamo che di quelle stelle non possiamo fare a meno, non per un fanciullesco capriccio ma perché senza quelle luci non siamo vivi, tout court.
La sincerità, a tutti i livelli, con i lettori, con la propria scrittura e in primis con sé stessa, è, come detto, la caratteristica di maggiore spicco di Pennavaja, sia di questo suo specifico libro che della sua attività letteraria a livello più ampio.
Non fa sconti, sia nella descrizione della pena della non-vita sia sul versante opposto nella trascrizione dei segnali possenti della sensualità. Il tutto è espresso con un linguaggio curatissimo, pulito, mai volgare; ma nonostante questo, o meglio in virtù di questo, assolutamente coinvolgente. Si soffre e si condivide un senso profondo di ennui, lo sgomento di fronte alle rocce sisifiane di un male subdolo, ma altrettanto nitidamente si percepisce la forza centripeta dell’attrazione fisica che coinvolge anche la mente e muta le scelte conducendo a decisioni che in altri tempi sarebbero state impensabili.
Il tutto è sancito da una lievità che rafforza la connotazione simbolica, non solo per la trama del romanzo, della scena descritta: “La sera, a letto, mi viene in mente che alle nostre nozze Carlo si è rifiutato di ballare. ‘Dài, una piccola danza! Non sei contento che ci sposiamo?’.
Alto e magro nel suo completo scuro tra le coppie variopinte e festanti, ha fatto una smorfia. Per un attimo mi è sembrato un bambino spaurito.
‘Meglio di no, Marina. Non vorrei pestare i piedi agli altri’.
Ci sono rimasta male, ma non ho protestato.
Noi femmine abbiamo spesso l’intuizione di qualcosa che non va nel maschio che ci piace.
Però lo sposiamo lo stesso”.
Facendo ricorso ancora ad un potenziale parallelismo cinematografico, potremmo dire che l’ultima frase di questo brano la protagonista la pronunci infrangendo per una frazione di secondo una regola non scritta ma quasi universale. In poche parole dirige le pupille verso il centro esatto della cinepresa e cerca idealmente gli occhi delle “femmine” e anche dei maschi, quasi ad invitare tutti ad una riflessione non fine a sé stessa ma con la funzione, non soltanto utopica, di cercare un rimedio, una cura, una tregua disarmata, liberatoria, liberamente danzante.
Il conflitto di genere è presente nel libro. Tuttavia l’autrice, tramite la protagonista, non lo alimenta e non lo fomenta, non assume posizioni radicali e ancora una volta non tiene comizi di qualsivoglia colore. Semmai indica, tramite innumerevoli esempi, quanto male può fare non comunicare, erigere mura di silenzi e scavare trincee a difesa dei nostri reciproci egoismi. Uno dei molti possibili esempi lo riporto qui di seguito, anche per ribadire la capacità di fare emergere il senso profondo del dolore e dell’incomprensione, gli egoismi e le “assenze”, da situazioni che sembrano ordinarie.
“Ogni maschio adolescente, per risolvere bene il complesso edipico, ha bisogno di complicità col padre. Perciò con un’attività sportiva regolare e generosamente sfrenata. Lei, signor Avella, è disposto ad aiutarlo? / Carlo mormora: ‘Non so’.
‘Ne va di mezzo l’equilibrio emotivo di suo figlio! Basta qualche calcio al pallone, la domenica al giardino’, incalza gagliardo.
Mi sollevo. ‘Dottore, ci vado io al giardino con lui. Non ho mai giocato a pallone, ma imparerò’.
Scuote il capo. ‘È il padre, il maschio, che deve corrispondere e, se è il caso, incitare col suo esempio. Si tratta del senso di sé, dell’identità di vostro figlio!”.
La poesia è presente nel romanzo. Ma, giustamente, si lascia vedere e percepire con il pudore di una fanciulla che sa bene di essere il premio assoluto, l’alloro che è verde e fulgido solo nell’istante in cui la metamorfosi è stata compiuta e la vita torna ad essere armonica. Per il resto la poesia si lascia intravedere in rari luoghi e circostanze, a sottolineare il peso emotivo, l’affetto, la coesione di un momento: “Torniamo a casa. Io sostengo Carlo; non mi è mai pesato tanto come adesso. Andrea tiene il bastone. Di malavoglia lo trascina a terra: un aquilone spezzato”.
È presente nel racconto anche una poesia che si fa vedere e guardare con tutta calma. Ma si tratta di una poesia che serve quasi come “coro”, illustra punti di snodo della trama e ci fornisce spunti di riflessione. È quasi un messaggio cifrato: “All’apice della sua vita, zia Clara aveva capito l’importanza della rima nel testo. ‘La rima non serve a far ricordare una poesia: è il segno di una vitale energia espressiva!’”.
Le ultime tre parole, “vitale energia espressiva”, sono anche, prese singolarmente e nel loro insieme, un ritratto di Marina, la protagonista del libro, e anche il sunto del percorso che la porta, e ci porta, a vedere le cose da un’angolazione diversa.
La poesia è anche un messaggio diretto che ha in sé la verità di una mano tremante e di un foglio sgualcito. “Vorrei che tu leggessi dei versi che ho iniziato ieri per l’infermiera più buona che c’è qui. Se ti piacciono glieli darai direttamente: conosce la mia calligrafia”. Mi porge un foglio sgualcito, su cui la sua mano ha scritto quasi senza lasciare margini. / “Leggo ad alta voce?”.
“Sì, ti prego”.
Agli albori e nel mezzo della vita
tutto è gioia ed un palpito d’amore
amor sognato amor amato
di bellezza s’illumina il creato.
Ma la vita ha un difetto, come un fiore
fiorisce appassisce e presto muore.
E se non muore è peggio, interverrà
un triste evento: la longevità.
Spesso il vecchio resta solo al mondo
disturbi e mali gli fan da contorno
e pensa il disgraziato
perché son tanto triste e malandato?
perché i cari parenti mi han lasciato?
Meglio sarebbe riposar con loro
ché la vita non è un gran tesoro.
Non vedo proprio l’ora di scoprire
il mistero del nostro divenire.
‘Non è perfetta, ma forse può andar bene’ sussurra. ‘Che ne pensi?’.
Mi sento commossa. Ci sono tante cose che vorrei chiederle. Ma dico solo: ‘Mi piace’. Le parole mi escono a fatica”.
Significativamente, la risposta di Marina alla poesia di zia Clara è un silenzio. Ma non è un silenzio vuoto. È denso e insinuante, entra dentro, scava e fa fluire pensieri e sensazioni.
Il racconto di Cristina è anche una riflessione sul senso dello scrivere, affidando galassie di sensi e di emozioni alle parole.
Di diversa natura, ma sempre poetica nel senso di generatrice, di costruttrice di cose e di mondi, è la poesia del coraggio delle considerazioni scomode, a volte dal suono aspro ma vere, di cui è intessuta la narrazione.
“Ti prego! Facciamo solo i balli più semplici, e quando la schiena ti fa male ti fermi. Ora sei al riparo dai guai. L’hai detto tu”. Ero stufa di soffrire, desideravo un po’ di allegria. Pestando i piedi come un ragazzaccio, il mio spirito reclamava il ballo.
“Non capisco. Forse l’operazione mi ha rimbambito. Se proprio vuoi, vacci da sola”. Il suo permesso suonava cupo, grave nella generosità.
Lo guardai. Nel mio tono forzatamente sicuro, respiravo con affanno. ‘C’è un piccolo dettaglio fondamentale, Carlo: mi ci vuole un compagno’.
Decenni di femminismo occidentale nulla possono contro questa realtà: nella sala da ballo il maschio è re. Pur insulso, goffo o brutto, qualsiasi uomo si troverà davanti almeno tre donne, per la legge dell’esuberanza femminile. E in coppia una femmina non può fare la parte del maschio. Il gioco dura poco, e si conclude con l’affannosa ricerca dell’uomo: ancor più raro, quindi ringalluzzito. Durante la prima lezione ballai da sola. Dopo aver storto la bocca, quattro femmine si erano adattate a formare due coppie. Le vedevo festosamente rivali, bassotte, incipriate fino alla fronte”.
La sessualità, il ruolo del padre e della madre, tutto qui scorre in modo atroce e delicato tra le frasi e resta.
La forza del vero spaventa più di una solennità sterile.
Lo sguardo della realtà – in cui ognuno di noi si riconosce – ci scruta, ironizza, ma pretende da noi un consuntivo.
Per questo, lo ripeto, siamo di fronte ad una narrativa insolita nel suo approccio, preziosa nella sua specificità. Può spaventare – è giusto ribadirlo – anche e forse soprattutto quando presenta come normali i temi fondamentali, le grandi tragedie della vita.
“Avevo il terrore che la mia ira, uscita fuori dagli argini, avrebbe ucciso mamma e papà. Erano fatti di uno speciale cristallo, prezioso come il fine languore di un’alba; spettava a me, bambina, aver cura della loro fragilità”.
Rincorrendosi o intersecandosi, si alternano descrizioni scabre e frasi esteticamente elaborate e ricercate. Non per mero abbellimento. Per rispecchiare la complessità del sentire: “La spada più minacciosa pendeva sulla mia testa: mi lasciava libera solo di studiare e, vedendo in ogni giovane l’attentatore della mia castità, non mi permetteva di andare a feste tra amici. Guai se mi truccavo anche solo un poco. ‘Si tinge la donna di strada!’ era il suo ritornello”.
Il rapporto coniugale e l’incontro con una passione proibita vengono messi a confronto senza sconti: “Io, che avevo sete di autorestituzione. Ma ero una donna passionale, mentre Carlo era parco di baci e carezze. Un giorno mi raccontò che quando, da piccolo, si toccava il pene, sua madre lo colpiva selvaggiamente gridandogli: ‘Cieco, diventerai!’. Quando facevamo l’amore, di rado, avevo la sensazione che tenesse nascosta da qualche parte una sveglia”.
Come se narrasse a sé stessa, o a qualunque lettrice o lettore realmente affine, racconta la scintilla che genera la fuga della mente: “Quando Nino tentò di darmi un bacio, fui io a baciarlo. Il mio organismo, che credevo fatto per eseguire compiti, reagiva in modo inatteso. Le mie braccia avevano bisogno di abbracciarsi a quelle trepidanti, gentili di un uomo innamorato. La mia bocca era una larga corolla che si apriva a succhiare una materia morbida, calda, misteriosamente succosa. Il mio seno si protendeva a dare e a prendere, con quel piacere che avevo sentito quando allattavo mio figlio. Ma adesso il desiderio era molto più forte”.
Al lettore poco attento o inesperto questa narrazione potrebbe sembrare frutto di un lavoro veloce, spontaneo. La vita della pagina potrebbe apparire vita realmente vissuta. Ma non è così. La costruzione narrativa di Pennavaja è attenta, selettiva, accurata. Non si può narrare bene tutto quello che succede nella nostra vita; è necessario tagliare, aggiungere, trasformare, reinterpretare, inventare tramite uno stile adatto. Nella struttura vengono disseminati, senza che diventino troppo vistosi ed evidenti, segnali, annunci, indizi:
“Quella sera Andrea comprò una torta di fragole e panna, di cui Carlo è ghiotto.
‘Festeggiamo, papà!’.
‘Non parlare a voce alta, figlio mio. Qualche divinità mi è avversa, e l’Olimpo non è così lontano’”.
Poco più avanti, altre ineludibili tracce:
“‘Nella preghiera del Salve Regina si parla di una valle di lacrime. Io non credo nell’Inferno anche perché ne abbiamo abbastanza nella vita. Purtroppo tutti soffrono. Bisogna resistere, o meglio: accettare’.
Pensavo al mio amore per Nino. Il mio tradimento era un modo per resistere, concedendomi il piacere e la dolcezza che Carlo non poteva darmi?
Prima o poi, lo sentivo, mi sarei confessata con lei”.
L’analisi è intima, autentica. Niente è nascosto, se non il senso. La vera nudità che fa paura guardare è quella delle membra ossute e sghembe del destino.
La confessione di un’esistenza individuale è così personale che dovrebbe in teoria non intimorire le altri e gli altri. In realtà ognuno sa, percepisce dentro di sé, che pur nella diversità degli accadimenti il filo che avvolge e serra è lo stesso per tutti. Quindi non si osserva sereni e sicuri le scene della vita altrui descritte nei dettagli. Ognuno sente il suo stesso collo, i polsi, le braccia, le gambe strette nei nodi dello stesso filo e bloccate nel nodo che unisce e separa l’accettazione delle cose e la necessità del volo. Il bacio di quel tradimento (per quanto sbagliato, forse) è anche l’unico modo per resistere. Quindi è assolutamente salvifico. La via per l’Eden a portata degli esseri umani attraversa il fango e le rocce arroventate dell’Inferno.
Ed è solo così che può esistere, tornando di nuovo sulla scena, la poesia, non a caso legata, qui, al filo rosso del libro: la danza: “Le lucciole! – dissi con voce soffocata, per non disturbare quella improvvisa rivelazione. Sì, erano le lucciole ormai quasi scomparse dai luoghi degli umani. Con rapimento le guardammo accendersi e spegnersi. ‘Mai le avevo viste’ sussurrò. Io le avevo ammirate nella foresta di Camaldoli molti anni prima. Rimanemmo abbracciati a guardarle danzare ondeggiando nell’aria mossa da un vento leggero. Col fiato sospeso, le vedemmo andare e venire, sparire. Ci sciogliemmo dall’abbraccio senza parlare”.
Le recriminazioni di ciascuno, di ogni componente in ogni relazione umana, vengono riportate con puntualità oggettiva. Come se la voce narrante non si schierasse con nessuno, neppure con sé stessa, sottolineando in tal modo le fragilità e le colpe di ognuno e l’insidia sfaccettata delle presunte verità:
“Non mi hai mai amato davvero. E forse neppure io ti ho amato con quella generosità che fa accettare le rinunce, le sconfitte. Adesso sono un’infermiera, una cuoca, una cameriera: queste sono le mie mansioni”. No, non potevo dirglielo. Mormorai: “Non hai mai voluto cantare una sola canzone insieme a me. ‘Maremma’ a due voci, ricordi? Neppure quando suonavo la chitarra, ed eravamo appena innamorati”.
“E io, cosa dovrei dire di te? – è la replica. “Mi hai dato quello di cui avevo bisogno? Non ti sei mai interessata al mio lavoro. Un giorno, quando un tuo amico ti ha chiesto che cosa faccio, gli hai detto che maneggio il computer. Una risposta esauriente!”.
L’accettazione delle reciproche fragilità è la sola strada che conduce ad un potenziale riavvicinamento:
“Quando ci coricammo pensai di chiedergli qualcosa in più sulla sua infanzia. Ne uscì il ritratto di un bimbo angariato dal destino, in perenne lotta contro gli istinti della fame e della sete. Turbata, sentivo le sue emozioni, il suo potente appetito di cibo e di bevande. Lo baciai, lo pregai di scusarmi. Lo amai con un abbandono estatico. Rimasi sveglia tutta la notte. Per la prima volta avevo capito mio marito!”. Questo passo prelude a un deciso cambio di atteggiamento nella protagonista; come spesso avviene nell’intreccio, in cui non mancano scene e dialoghi arguti, imprevisti, spiazzanti, che inducono il lettore al sorriso o al riso.
Il libro – necessita sottolinearlo – è anche una riflessione sulla scrittura, sull’atto dello scrivere, su forza e limiti, implicazioni e rilevanze, anche a livello profondo, psicologico:
“Strano che non abbia scritto poesie per Andrea. Sul bambino mai nato scriverei parole che è bene restino nell’ombra. Non farò leggere quei versi a mio marito né ad Andrea. Meglio sarà che non li legga neppure io. Spero di ritrovarli nel sogno, i miei gemellini”.
La vita, come il pensare, come l’affidare pensieri e moti interiori alle parole, è fatta di aria e sassi.
Il concreto si affianca al sogno, lo compenetra e ne viene pervaso. Questa consapevolezza, vivissima nell’autrice, determina e origina l’approccio veramente particolare di cui si è detto: leggendo questo libro si ha l’impressione di avere accesso diretto ai pensieri, ai dolori, alle speranze.
Affinché possiamo cogliere la varietà sconfinata di stimoli propria della vita, veniamo accompagnati capitolo dopo capitolo da un flusso copioso di citazioni, arte, musica, letteratura; abbiamo di fronte un caleidoscopio multimediale e multisensoriale in cui siamo invitati a mettere occhio, orecchio e cuore.
Tutto ciò ci prepara in qualche modo alla parte saggistica del volume. Che ha una funzione a sé stante ma è anche bene integrata con il racconto che la precede.
“Un concerto che inizia con musiche giocose: ‘Scozzese’ di Hummel, allegretti di Diabelli. C’è emozione e passione, l’aria è facilmente cantabile e molti sono i trilli e le acciaccature. Il secondo tempo, con pezzi di Stockhausen, dà i brividi. L’ultimo brano, non previsto dal programma, ci trova stremati: il pianista suona ‘Mormorio di primavera’ di Christian Sinding, e noi lo prendiamo per lo Scherzo in Mi maggiore di Chopin. / Il futuro esiste nella mente che attende e si dipinge un esito che sarà diverso dal previsto. / Cominciai a vivere nell’oggi”.
Il flusso di coscienza alimenta la narrazione. Pennavaja ha dato vita ad una variante individuale di tale flusso. Tutti gli orpelli vengono tolti, ad hoc.
Resta la verità del sentire e dell’essere dentro la vita, con il bene, il male, il tempo, i sogni, e l’immagine nello specchio (ultimo capitolo, del ritrovamento) che forse è più vera di noi. Il finale della vicenda conferma il coraggio che ha fatto da tessuto connettivo alla narrazione di una vita, a tutta una vita.
Anzi il coraggio è rafforzato dall’atto estremo, splendidamente eversivo, di un sorriso semplice, che in verità è frutto di mille pianti e cadute e di mille inattesi passi compiuti ancora, a dispetto di tutto.
L’eroismo è nella normalità di chi vive, sapendo il dolore, sapendo il contrario del dolore, così come la luce è il contrario del buio.
“Ho desiderato tanto quell’immagine del mio uomo bambino. Ritrovarla dopo un’attesa così lunga, con tutto ciò che è avvenuto, mi dà sollievo, e dolore. / Appoggio la foto al vetro. / Premo i miei occhi su quello sguardo cercando di entrare nel suo fuoco d’ombra, oscuro, tenace, impenetrabile.
Il caso forse è la misteriosa coreografia di una rivelazione. E il buio si accompagna con la luce. / Nell’universo danzano insieme.
Scacciando le lacrime sorrido”.
Alors on danse, alors on danse, alors on danse.
Forse può interessare che Cristina Pennavaja qui ha scritto un racconto fortemente autobiografico. Ma in esso non rivela la storia della sua vera vita; questo non sarebbe neppure possibile. Ha lavorato all’opera per oltre vent’anni. Fra il 2022 e il 2024 ne ha fatto tre versioni diverse. Nel saggio svela parecchio del suo laboratorio creativo (come ha cambiato un esordio con un altro, tenendoli infine entrambi). E cita gli esordi di due suoi racconti del 2000 – La stiratrice, Verso l’inverno – che per un verso hanno stile molto differente, per altro verso mostrano come sia possibile contemperare i motivi autobiografici con le esigenze di uno stile artistico. Questa capacità di rivelare lo sforzo, i dubbi, le ansie, gli espedienti verbali, l’andirivieni dei pensieri circa lo stile, la trama e i personaggi del racconto (tre fattori che per Pennavaja sono distinguibili ma non separabili) è tipica dell’autrice, e degna di grande attenzione. E’ un atteggiamento di base, non appreso bensì istintivo e affettivo: la vita vera è la scrittura, dunque è necessario mettersi a nudo davanti al lettore, porgergli i propri attrezzi, invitarlo a seguire, a condividere, a godere della bellezza. Inoltre la buona scrittura è musica; Pennavaja non smette di ripetercelo. E rivela che tutti i suoi pezzi lei li legge ad alta voce. Se qualcosa non la persuade, riscrive, cambia, legge di nuovo. In questo modo il tempo passa. Non è il caso di leggere un libro per ammazzare il tempo. Vale più viverlo bene il tempo, che è prezioso e passa senza alcun bisogno che gli diamo un colpetto perché si sbrighi.
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Al racconto fa seguito il saggio dal titolo I segreti della narrativa. Il romanzo e il racconto. Trae origine dai lunghi anni di insegnamento dell’autrice nella “Casa della scrittura” da lei fondata, dai suoi incontri e dalle frequentazioni con autori e critici di rilievo e, non ultimo, dalla scrittura fatta in prima persona, dalle esplorazioni e sperimentazioni sia in narrativa che in poesia. “In questo saggio espongo quelli che ritengo i criteri fondamentali per una buona narrativa – anche non specificamente autobiografica – sulla base delle mie esperienze di narratrice, traduttrice, saggista, autrice di poesie, docente di retorica e stile, pianista per diletto, corista e appassionata di musica” dichiara.
Le premesse trovano puntuale riscontro. Il saggio ha molte caratteristiche in comune con il racconto che lo precede e con cui, in una certa misura, discorre. Come il racconto, anche il saggio è ricco, variopinto, vivace, ricco di spunti e rimandi, in costante dialogo con sé stesso, con il lettore e con mille presenze ulteriori, volti conosciuti di persona oppure tramite le loro opere, i loro scritti, le loro note, i loro pensieri. Non è ovunque agevole il saggio, ma non esclude nessuno. Anzi, direi che è utile sia per gli aspiranti scrittori, sia per gli scrittori, sia per chi non ha ambizioni di scrittura. Pennavaja è così convinta dell’abisso che separa il testo “semplice” dal testo “facile” ovvero “semplicistico”, che fornisce una messe di esempi, comparazioni, analisi testuali encomiabile quanto preziosa. Ossia, chi ha già ben noti gli autori di cui lei parla godrà della loro presenza ritrovata e del taglio nuovo della luce che li avvolge. I “neofiti” invece saranno chiamati a importanti scoperte e approfondimenti. Chi compra libri per leggerli potrà evitare di sorbirsi testi brutti, poiché ha appreso a distinguere la vera letteratura da quella falsa.
L’autrice spiega la differenza fra racconto e romanzo. Dice che il racconto è olistico, quindi più difficile a scriversi con esiti d’arte rispetto al romanzo. Paragona un racconto di qualità a un corpo vivo, in cui tutte le parti devono corrispondersi. Nega fermamente che un testo “di evasione”, o “sorprendente” per gli elementi di suspence sia di per sé un testo artistico. Pur accettando l’abilità narratologica di molti romanzi gialli, fa notare che non sempre un buon romanzo giallo è un testo davvero buono.
Di grande valore didattico sono le analisi dei testi mediocri, che Pennavaja tratta come meritano. (Per solito tutti i saggi critici analizzano soltanto i testi buoni. Ciò avviene sempre nella scuola, che ci mostra il grande artista già maturo, “scrittore nato”. Da madre, scrittrice e insegnante qual è, lei annota che il pargolo non viene al mondo con la penna in mano: il talento non basta, bisogna imparare, faticare, scrivere, correggere, riscrivere).
Stesso discorso vale per i consigli di scrittura e le figure retoriche. I meccanismi narrativi e poetici vengono mostrati in modo appassionato e appassionante, da “dietro le quinte”, nel retrobottega dell’officina della creazione, nella fucina dove tutto nasce, con tecniche antiche e consolidate, ma sempre nuovamente sperimentate, sempre coinvolgenti.
Va ripetuto anche questo concetto, o meglio questa caratteristica: alcune fondamentali annotazioni presenti nel saggio sono adatte anche al racconto e al romanzo, trovano nella narrazione un riscontro fattivo. “Cercherò di spiegare per passi successivi. Il primo passo sta nell’accorgersi che, quando pensiamo di registrare un evento reale, lo cambiamo. La stessa scrittura diaristica ci presenta un’elaborazione che muta i fatti”.
Come riporta la stessa autrice: “Qualche allievo della mia ‘Casa della scrittura’ mi chiede di accompagnare il racconto Danzare fra il buio e la luce. Una cura dell’anima con un discorso sulle maniere in cui si può immettere elementi autobiografici in un testo d’invenzione o si può fare di una biografia o di una autobiografia un testo letterario. Ne parlo qui con esempi di vari scritti che analizzo e commento. In questo saggio espongo quelli che ritengo i criteri fondamentali per una buona narrativa – anche non specificamente autobiografica – sulla base delle mie esperienze (…)”.
La sincerità, di cui ho più volte parlato in relazione al racconto, trova espressione e rilevanza anche qui. Pennavaja esprime le proprie idee e i propri gusti in fatto di scrittura senza secondi fini, senza sudditanze, infischiandosene di canoni presunti o effettivi e di giochi di potere clientelari.
Si toglie lo sfizio e dona a sé stessa e ai lettori il lusso di dire ciò che ha nella mente e nella testa. Perfino parlando del suo caro maestro, Giuseppe Pontiggia, cita pareri di vario tono:
“Pietro Citati, scrive: ‘Il cuore dei suoi libri resta vuoto’. E Marco Forti: ‘Dietro all’apparenza e alla sostanza dell’inappuntabilità formale, al dialogato magistrale, alla lucidissima costruzione delle trame e al loro svolgimento ‘fugato’, non è infine alla realtà che Pontiggia mira per trovare le sue risposte; ma semmai a ciò che di più arduo e sfuggente le sta dietro e attorno’. Concordo: Pontiggia avrebbe forse potuto scrivere testi di psicologia, filosofia, scienze del comportamento, anche teologia. O un manuale sul gioco degli scacchi. Però con il senso del limite”.
Poi approfondisce le sue considerazioni: “Fra i numerosi testi di narrativa di Giuseppe Pontiggia, il migliore è La morte in banca, definito per ragioni editoriali breve romanzo (è un racconto lungo), pubblicato nel 1959 ma scritto in prima stesura nel ‘52-53, quando l’autore aveva diciannove anni. In una semplicità complessa però mai complicata scriveva – in terza persona, e in un’autobiografia ‘filtrata’ – della noia e dell’umiliazione di dover lavorare in una banca come impiegato di basso livello alle prese con numeri da registrare senza sosta, per lui che voleva proseguire gli studi. Nel giovane Carabba, ora speranzoso ora ripiegato su di sé, sono presenti idee ed esperienze dell’autore, che invece fu tutt’altro che un mediocre e un vinto. La morte in banca è il racconto di Pontiggia più equilibrato, il più coinvolgente”. Queste riflessioni su un autore che è stato celebrato come uno dei nostri migliori romanzieri provocheranno forse qualche onda di dubbio. Infatti Pennavaja rilegge, a distanza di molti anni, pressoché tutte le opere di Pontiggia.
Il saggio I segreti della narrativa. Il romanzo e il racconto andrebbe letto nella sua totalità. È impossibile riassumere l’immensa rete di citazioni e richiami e la fitta “trama” di spunti che offre, prendendo in considerazione sempre tutte le sfaccettature, i due lati della luna.
Qui si può segnalare alcuni principi generali che emergono. Tra di essi la conferma che il testo buono che sembra molto semplice è fatto di una semplicità complessa. In buona compagnia con grandi scrittori che puntualmente porta a braccetto con sé, Pennavaja ci dice che scrivere bene richiede talento unito a sforzo, costanza, fatica, fiducia, uniti a molta umiltà.
Altro valore aggiunto, come detto, sono i numerosissimi esempi concreti. E le citazioni illuminanti di classici e contemporanei, questi ultimi spesso conosciuti di persona e frequentati.
Cito qui un paio di riferimenti, perché ancora una volta ritengo che interagiscano, per analogia e contrasto, nelle vie complesse che uniscono testi anche di natura diversa.
“William Faulkner ha scritto: ‘La natura umana è l’unico tema che non passa mai di moda’. Chi scrive bene, scrive di una mosca (è stato fatto). Un giorno nella mia serra vidi un ragno. Mio padre mi ha insegnato ad amare questo insetto amico che mostra ai medici come si possono creare tessuti più resistenti. Ne uscì un racconto breve.
Tommaso Landolfi ci ha lasciato Il ladro, un bel racconto in cui non avviene alcun furto. I miei allievi ne erano affascinati. Anch’io ho composto un racconto su un ladro. Ne ho fatto almeno sei stesure. Le mostravo man mano a Giampiero Neri, che lasciava i suoi commenti a margine”.
Allo stesso modo del racconto Danzare fra il buio e la luce, il saggio è un fluire di pensieri e di fatti, di precisione tecnica e di emozione; e sempre di onestà, nel senso di schiettezza e autenticità che mettono da parte le convenienze personali e le convenzioni sociali.
“Nella scrittura artistica si dice la vita ‘autentica’, che invece nella vita reale non può essere detta. Le voci della nostra vita di umani cambiano; le voci delle nostre finzioni poetiche restano. Restano scolpite – direi quasi eterne – nella vita della grande letteratura: con Omero, con Saffo, con Dante, con Virginia Woolf, con Silvio D’Arzo, con Carlo Coccioli, con Giovanni Mariotti e moltissimi altri”.
Ci interessa, ed ha rilevanza la distinzione che fa Vittorini tra due categorie di scrittori: “Quelli che, leggendoli, mi fanno pensare ‘ecco, è proprio vero’, e che cioè mi danno la conferma di ‘come’ so in genere che sia la vita. / E quelli che mi fanno pensare ‘perdio, non avevo mai supposto che potesse essere così’, e che cioè mi rivelano un nuovo, particolare ‘come’ sia nella vita”.
Mi sembra giusto concludere queste mie annotazioni sul racconto e sul saggio di Pennavaja invitando alla lettura di entrambi. Sapendo, lo confermo, che talora sarà un po’ faticosa. Sarà riconcorrere il pensiero e le emozioni lungo tornanti di montagna a passo sostenuto, osservando al contempo quello che avviene su entrambi i versanti della vallata, il sole e la nebbia, la luce e l’oscurità.
Per alcuni sarà impegnativo: bisognerà camminare, con occhi, gambe e cuore bene attenti e accesi. Varrà la pena: per la schiettezza dei panorami che scopriremo, per i punti di vista mai scontati. Varrà la pena perché tenendo quel ritmo, assimilandolo in noi, il passo diverrà in modo naturale danza. E la danza, si sa, aiuta a sintonizzarsi con i codici arcani scritti nello spartito della vita.
“Per dirla con Pascal: ‘Quando un discorso descrive in modo naturale una passione o un suo effetto, troviamo in noi stessi la verità di quello che ascoltiamo, anche se non credevamo di possederla; tanto che siamo spinti ad amare chi ce la fa sentire, perché non ha fatto mostra del suo bene, ma del nostro, e questo dono ce lo fa amare. Inoltre, quella comunanza intellettuale che abbiamo con lui inclina necessariamente il nostro cuore ad amarlo’.
Pascal scrive ‘ascoltiamo’ e ‘sentire’: lo scrittore è una persona che parla con una voce che smuove la mente e muta il cuore!”.
E ora possiamo vederla davanti ai nostri occhi, la Pennavaja appassionata nelle sue lezioni, dritta in piedi, ardente e generosa di consigli, correzioni, varianti proprie che portava per spronare i suoi allievi. Quegli anni sono passati, purtroppo; ma le resta il grande dono di poter ancora leggere e scrivere. Anche di notte; col rischio che il back up del computer le cancelli una pagina intera: ore di intenso lavoro. Ci coinvolge la confessione finale di una vita in solitudine, ma nella compagnia di amicizie che la salvano: una prova del fatto che Cristina Pennavaja vive per la letteratura, non vive della letteratura.
Per ultimo, è bene dire che l’autrice – esperta della lingua tedesca e traduttrice di vari testi di Karl Marx e del grande mitteleuropeo Alfred Polgar – nel saggio dedica oltre venti pagine a ritradurre l’incipit del capolavoro di Franz Kafka Die Verwandlung (La metamorfosi). E ci spiega bene, con dovizia di annotazioni semantiche, che Gregor Samsa non si trovò “trasformato nel suo letto in un immenso insetto”, tantomeno “in un insetto immondo”, men che meno in uno scarafaggio. La parola “insetto” non si trova nel testo tedesco. Il disgusto e l’orrore non sono elementi voluti, creati da Kafka. La questione è decisiva: coinvolge l’interpretazione di tutta l’opera kafkiana.
Si legga questo libro ricco e profondo, per molti aspetti audace, unico nel suo genere: anche per liberarsi da “kafkismi” imperanti in questa epoca di mercificazione in cui un libro “importante” pare debba essere il testo che piace a tutti, che ognuno può divorare in sonnolenta letizia: l’osannato bestseller.