Sebastiano Addamo, secondo di cinque figli, nasce a Catania il 18 febbraio del 1925 ma vive e svolge i suoi studi a Carlentini, comune del Siracusano in cui risiede la sua famiglia. Nel ’48 si laurea in Giurisprudenza e per un breve periodo presta servizio come assistente universitario del prof. Condorelli presso il dipartimento di filosofia del diritto. Tuttavia, la condizione economica della famiglia lo costringe a non rincorrere la difficile e lunga carriera universitaria, per concretizzare la sua condizione lavorativa ottenendo la stabilità economica che la cattedra in Storia e Filosofia presso il liceo classico di Augusta, altrimenti gli garantisce. Sin da giovane partecipa attivamente alla vita politica e culturale del suo paese, di cui è stato anche Consigliere Comunale. Nel ’54 inizia a pubblicare alcuni interventi sul quotidiano La Sicilia, stabilendo un rapporto di continuità collaborativa col giornale, che durerà pressoché tutta la vita. Dal ’59 inizia una serie di collaborazioni come redattore di varie riviste letterarie: “Incidenza”, di cui era co-fondatore, ma che durò solo due anni; “Galleria” di Caltannissetta, “Pedagogia” di Catania, “L’approdo letterario” di Torino, “Il Ponte” di Firenze, “Nuovi Argomenti” di Roma, e infine “Quartiere“, sempre di Firenze.
Nel 1962 pubblica con Sciascia editore, il saggio “Vittorini e la narrativa siciliana contemporanea”.
[N.d.R.: Sempre di Addamo su Vittorini, dal 1° ottobre potrete leggere su questo stesso blog, il saggio dal titolo “il Garofano Rosso di Vittorini“, cliccando sul titolo qui evidenziato].
Dopo una vita di spostamenti per via dei diversi assegnamenti di cattedra in giro per la Sicilia, nel ’71 Addamo riesce a far rientro a Lentini, dapprima come professore e successivamente come Preside presso il liceo scientifico che egli stesso, una volta a capo dell’Istituto, intitolerà a Elio Vittorini.
Dal ’70 intensifica la sua attività politica, presentandosi sia alle elezioni amministrative comunali di Lentini che alle elezioni provinciali di Siracusa con il P.C.I., per poi venire nominato, il 28 luglio dello stesso anno, Assessore alle Finanze e al Bilancio del Comune di Lentini.
Nel 1974 pubblica con Garzanti il suo primo romanzo, Il giudizio della sera, e di lì a poco lo stesso Livio Garzanti lo invita a firmare un contratto di collaborazione con la sua casa editrice; offerta però questa che Addamo rifiuta, probabilmente non sentendosi mai pronto ad abbandonare le sue attività culturali e politiche sull’Isola e nella sua Lentini.
Nel ’75 riceve il premio Brancati-Zafferana per il romanzo Il giudizio della sera, mentre nel ’78 pubblica altri due romanzi: Un uomo fidato, con Garzanti, I mandarini calvi con Scheiwiller, e una raccolta di saggi “I chierici traditi”, con le edizioni Pellicano libri.
Del ’79 è la raccolta di poesie Significati e parabole, per i tipi di Guanda; mentre nell’80 pubblica La metafora dietro a noi, per le edizioni Spirali.
Nell’82 pubblica con Sellerio il romanzo Le abitudini e l’assenza, mentre dell’83 è la raccolta di poesie Il giro della vite, nuovamente con le edizioni Garzanti.
Nel 1986 pubblica con Scheiwiller la raccolta di racconti Palinsesti borghesi, mentre nel 1988 dirige una collana di narrativa, “Quaderni di letteratura” per la casa editrice Tringale di Catania, e contemporaneamente inizia la sua collaborazione con la rivista Poesia di Milano.
Nel ’90 pubblica con Garzanti la raccolta di poesia, Le linee della mano. Nel ’91 pubblica con Scheiwiller Racconti di editori, mentre grandi riconoscimenti gli vengono per la raccolta poetica Le linee della mano.
Nel ’95 pubblica con Sellerio i racconti Non si fa mai giorno, e con Garzanti la sua ultima raccolta di poesie, Alternative di Memoria.
Dopo una vita di studi e attività politica e letteraria, Addamo si spegne a Lentini il 9 luglio del 2000.
Ricordare Sebastiano Addamo non significa solo ricordare un uomo di lettere, ma soprattutto ricordare un uomo che viveva le lettere, il pensiero e la storia del suo tempo dalle barricate della sua amata Isola, partecipando attivamente e mettendosi generosamente in gioco in un ambiente culturale e politico, come quello italiano, che forse troppo presto dimentica i suoi uomini migliori. Scrive Enzo Iachello nel saggio “Fiutare la città: la Catania di Sebastiano Addamo” a proposito del suo primo romanzo Il giudizio della sera (1974, ed. Garzanti) che si tratta di
“uno sfortunato ma bellissimo romanzo-saggio” in cui Addamo “fa i conti con il parricidio, e sarebbe meglio dire il suicidio dei padri, protagonisti di un mondo, il fascismo, che nella tragedia bellica trova la sua tragica fine.” un romanzo in cui, Addamo, “[…] esplicitamente prendendo le distanze dal “ricordare” proustiano, […] percorre le vie della complessa ricostruzione di una storia in cui luoghi e persone sono colti nel profondo legame che ogni società stabilisce tra spazio e società”. (Enzo Iachello, dalla raccolta di saggi “la parola e il luogo“, edizioni Kalòs).
In sostanza Addamo costruisce una nuova visione urbanistica, in rottura con le teorie urbanistiche portate avanti ancora per buona parte degli anni ’70 da parte di storici e sociologi, che operavano una netta contrapposizione con la visione dello spazio voluta da architetti e ingegneri, da cui risultava una dicotomia netta tra “uomini e storia”, studiati dai primi, e “case e cose” realizzate dai secondi, dimentica della necessaria “interazione” degli uni con gli altri, al fine di definire e indirizzare le azioni comuni per la più pratica e agevole gestione di un sistema di cittadini consapevoli e integrati nei propri spazi urbani. La realtà descritta da Addamo tende a scarnificare la riluttante interazione tra i suoi personaggi e gli spazi urbani in cui si muovono in maniera distaccata, indifferente. Viene così a delinearsi una realtà urbana fatta di umori, colori, odori, che nel marasma cittadino tramutano in puzzo, disordine, invivibilità.
“[…] Il senso della città non è solamente quello proustiano dell’immaginazione: esse hanno architetture, colori umori, hanno suoni ed echi, un disordine che però tale può apparire al visitatore frettoloso, perché poi l’arbitrarietà delle conformazioni e delle localizzazioni si ritrova logica e necessaria, un “sistema globale”, dove, come esattamente a Catania, si inserisce l’indaffarata estrosità dei suoi abitanti […]” (S. Addamo, Il giudizio della sera, pag. 11, ed. Garzanti)
La visione dell’ambiente naturale e degli oggetti che lo abitano, talvolta profanandone il significato mistico, le tradizioni, l’aspetto ancestrale; sì come l’interazione dello stesso sul vivere dell’uomo e lo scorrere dei giorni, delle emozioni, degli eventi e della Storia, sono tema-logorio principale della poetica di Addamo. Dunque, lo spazio urbano e la metropoli con le sue architetture disumananti, rappresentano nelle raccolte di Addamo, e più specificatamente ne Il giro della vite (Garzanti, 1983), l’origine dell’incubo: le sovrastrutture portanti del disfacimento sociale e umano.
“Nulla è garantito ormai,
desinenze e cifrari perduti,
codici gualciti nelle fedeli case del sonno”
(“Solstizio barocco, pag 23)“Abitata dalla morte che vi accoglie
ospiti precari e minacciosi,
uomini degradati a oggetti
[…]
la città è un ‘vuoto’ […]”
(L’incubo, l’eco’, pag 57).
Tale visione, cruda e apocalittica al contempo, mantiene viva la sua convinzione, ovvero l’idea della costrizione che le sovrastrutture sociali e architettoniche impongono all’uomo, anche nell’ultima importante raccolta di Addamo, La linee della mano (Garzanti, 1990); tuttavia in questa sua penultima opera si percepisce l’approssimarsi alla fine, laddove l’ascolto delle cose del mondo diventa quesito, domanda più grande dell’uomo stesso, che a tratti si abbandona a meditazioni più liriche, più alte, senza mai cadere in ovvie ingenuità.
La scrittura di Addamo raccoglie in questa raccolta la summa dell’intero viaggio umano attraverso lo Spazio-Terra e diventa lascito, memoria non priva di pietas per l’uomo perso nella ricerca di un senso stretto ma – ineluttabilmente – irraggiungibile da dare al suo viaggio. (nc)
Rifiuti (a Salette Tavres)
La poltiglia la mucillagine ardente
qui la bianca città ha evacuato
plastiche distrutte
ossa calcinate
l’accumulo nero, il guasto, il rigetto,
e tutto il resto fermenta
le terrose ossidazioni
i cicli, i cupi fuochi taciturni
la mente tumefatta
immagini già vuote
il volto dalla memoria sfilacciato
l’ameba turgida e sconfinata
felicemente la bianca città
si conficca
nella dura terra dove è nata.
La creazione può ricominciare.
*
Due gridi
Entrambi li ho uditi.
Era l’alba per il primo
la fine forse o culmine
dell’incubo
l’onda del precipizio
madido momento quando
svegliarsi è meraviglia
la flora tranquilla degli oggetti
adombra sospetti
di sotterranee complicità,
improvvisa come il tuono
senti l’infelicità dell’ospite
straniero.
Traforò le strade deserte
si perse con l’ultimo gufo.
*
Era sera per il secondo
felice nel giuoco della luce e del buio
parte esso stesso del giuoco
transito che non cessa, fino a quando
tristemente l’Essere comincia
a fronteggiarti, acuto, sicuro
e ineludibile
la nebbia silenziosa si sgretola
dietro i vetri
compone grigie figure di pena.
Fu breve, impercettibile.
*
Un terzo ci sarà
ancora più breve
misterioso suono di conchiglia
la vitrea luce sottomarina
che dissotterra i mostri
la lampada fa luce rosa
vi gira la falena
l’immobile andare verso
il fondo del mare
dove si narrano storie ghignanti
mentre qualcuno con la tua faccia
ti fa cenno da lontano.
Muto. Perduto.
***
L’ha ribloggato su Gianluca D'Andrea.