Buon vecchio Woody Allen. Il suo nuovo film, puntuale come ogni anno, “Magic in the Moonlight”, ripropone, in una chiave gradevole, lontano dalle vette artistiche di altri titoli (da “Io e Annie”, “Manhattan” e “Zelig” a “Broadway Danny Rose”, “Hannah e le sue sorelle” e “Match Point”), i temi del suo cinema. La sua visione dell’esistenza, il perenne conflitto tra il pessimismo tragico della razionalità e la necessità di ancorarsi a una magnifica illusione (il sogno del cinema, la magia dell’amore, la bellezza della musica), complice il tema ricorrente dell’illusionismo (da “Stardust Memories” a “La maledizione dello scorpione di Giada” e “Scoop”), per poter continuare a vivere. In questo quadro, “Magic in the Moonlight” risulta garbato e scorrevole, impreziosito da un buon cast: in primo piano Colin Firth (al quale Allen affida il suo umorismo tragico), Emma Stone (graziosa e dagli occhi magnetici) ed Eileen Atkins (la zia, acuta e intuitiva, del protagonista). Girato nel sud della Francia, il film non a caso inizia su un palcoscenico della Berlino del 1928, dove si esibisce il mago inglese Stanley (in arte Wei Ling Soo), facendo intuire uno sfondo drammatico (l’imminente ascesa del nazismo, l’orrore della vita) che rimane fuori campo. Sottinteso tragico – il mondo prima della catastrofe bellica – nascosto per scelta, in modo da alimentare l’illusione salvifica della commedia e del cinema. Quell’immaginario sempre affascinante dove il cinico miscredente sposa l’adorabile bugiarda e il mistero dell’universo smette, per un istante, di inquietare.
Marco Olivieri Da Centonove dell’11 dicembre 2014, rubrica Nuove Visioni