di Diego Conticello
(in copertina: la torre delle Ciàvole a Gliaca di Piraino, in una foto di Manuela Cappa)
La scelta di un sito elevato abbinata alla costruzione di torri ha giovato, nel corso dei secoli tra medioevo ed età moderna, sia per garantire un controllo visivo del territorio che fosse il più ampio possibile, sia per dominarlo e difenderlo.
A partire dal Medioevo le unità minime difensive furono le cosiddette “torri di avviso”.
Sulle loro piattaforme, una volta avvistato un nemico, venivano fatte delle segnalazioni acustiche o visive ad altre torri attraverso i ‘fani’ (dal greco, fumi e fuochi), lo sparo di armi da fuoco, lo sventolio di bandiere o al suono della ‘brogna’ (buccina, antico strumento simile ad un corno).
Le torri costiere costituivano il sistema difensivo, di avvistamento e di comunicazione lungo tutta la fascia litorale del Regno di Sicilia. Furono costruite per arginare le frequenti incursioni dei corsari barbareschi.
Da ogni torre era possibile scrutare il mare e vedere la successiva, con la possibilità di inviare segnali luminosi o di fumo per trasmettere un messaggio o richiedere soccorso. Nel periodo di massima funzionalità permettevano di fare il periplo dell’isola nello spazio di un solo giorno.
Le torri costellano gran parte delle coste dell’Italia meridionale e sono di grande interesse architettonico; si svilupparono più o meno contemporaneamente a quelle che vennero fatte costruire nel resto d’Italia, all’epoca suddivisa in svariati staterelli indipendenti l’uno dall’altro.
In Sicilia le prime torri costiere si fanno risalire al periodo compreso tra il 1313 ed il 1345, come baluardo della monarchia aragonese contro le incursioni della flotta angioina, che da Napoli muoveva all’assalto delle coste siciliane. A partire dal 1360 invece la minaccia provenne da meridione, dal nord Africa maghrebino, ad opera soprattutto di pirati e corsari berberi.
Nel 1405 il Re Martino il Giovane diede ordine di restaurare le torri esistenti, circa quaranta, e costruirne di nuove: questa è la prima testimonianza storica certa di un progetto organico di difesa costiera affidata alle torri.
La minaccia maghrebina si intensificò con il sorgere della potenza navale turca e, a partire dal 1520, il corsaro Khayr al-Din (Ariadeno) Barbarossa operava per conto dell’Impero ottomano, divenendo nel 1533 “Qapudan Pashà”, ossia comandante supremo della flotta turca. Fu necessario quindi investire ingenti risorse nella difesa dell’isola: a partire dal 1547 l’organismo amministrativo delegato alla gestione delle torri fu la Deputazione del Regno di Sicilia.
Diversi architetti ed ingegneri militari si succedettero nel tempo a partire da tale data, al fine di rafforzare gli incastellamenti esistenti o costruirne di altri. In particolare, nel 1577, il Viceré Marcantonio Colonna diede incarico al senese Tiburzio Spannocchi di redigere un piano-riparazione delle 62 torri già esistenti, e di costruirne altre 123. Il “Piano Spannocchi” rimase in buona parte non realizzato dati gli altissimi costi.
Nel 1583 la Deputazione, dopo la ricognizione dello Spannocchi e le sollecitazioni del Viceré, sentì il bisogno di una nuova supervisione delle strutture difensive dell’isola. Molte torri della Deputazione vennero costruite nel periodo che va fino al primo trentennio del ‘600, sull’idea progettuale dell’architetto fiorentino Camillo Camilliani, tra cui Passo del Lauro, Piraino (non da tutti segnalata come torre della Deputazione).
Le altre torri, dette di ‘particolari’, appartenevano a città e terre, alcune di esse erano inserite nel sistema di avviso ed erano comunque vigilate dalla Deputazione. Tra queste torri risultano, in un elenco del 1782, Caronia (duca di Torrenova), Acquedolci (principe di Palagonia), Sant’Agata (principe di Militello), Torrenova (principe conte di San Marco d’Alunzio), Capo d’Orlando (conte di Naso), Brolo (marchese di Lungarini). La maggior parte delle torri ancora oggi esistenti sono state costruite su indicazioni topologiche e progettuali del Camilliani, e sono riconoscibilissime quasi come un vero e proprio archetipo progettuale. Il Camilliani ricevette l’incarico da parte del Parlamento siciliano in data 1° luglio 1583, e fu accompagnato nella ricognizione preliminare dal capitano Giovan Battista Fresco, della Deputazione del Regno. Questa ricognizione durò ben due anni, dal 1583 al 1585, e comportò l’intero periplo costiero della Sicilia, effettuato quasi tutto per via terrestre. Lo sforzo costruttivo fu notevole dalla seconda metà del XVI sino al XVII secolo.
Nell’Ottocento, durante il periodo di protettorato inglese sulla Sicilia, dovuto alla fuga dei Borbone da Napoli, si continuarono a costruire torri contro una possibile invasione da parte delle armate napoleoniche guidate da Gioacchino Murat. La tipologia cambiava totalmente, a causa dei più elevati volumi di fuoco sprigionati dalle navi cannoniere di recente costruzione. Delle sette torri costruite in Sicilia secondo queste modalità, solo due risultano ancora erette: quella di Mazzone (o del Forte degli Inglesi) a Messina e quella di Magnisi, presso Priolo Gargallo (Siracusa).
Dopo la conquista di Algeri, avvenuta nel 1830, la minaccia dei corsari o di invasioni via mare venne a decadere e si interruppe in tal modo l’elevazione di altre torri. Alcune di esse, durante la Seconda guerra mondiale, vennero usate come postazioni da contraerea tedesca, con esito incerto. Il sistema delle torri cessò definitivamente la sua funzione di avvistamento e difesa nel dopoguerra. Persa la loro ragion d’essere, numerose torri vennero adibite ai più disparati usi, quali persino ricovero di attrezzi e bestiame o anche ad abitazione. Oggi alcune sono abbandonate all’incivile incuria, altre – recuperate e ristrutturate (come nel caso della torre dei Lancia a Brolo) – spiccano quali fascinose sedi museali od espositive.
Le torri della “Costa Saracena”
Il Castello di Brolo (o Torre dei Lancia)
È stato, da tempo, ormai accertato che il nome Brolo provenga dall’originale termine Brolium, che nella bassa latinità aveva il significato di ‘parco’ o ‘giardino’.
Dalla ricostruzione fatta nella Tabula Peutingeriana, si possono ricavare alcune notizie storiche riguardanti il territorio di Brolo. Da questa cartografia storica, che descrive anche la viabilità della Sicilia in epoca tardo-romana (IV sec. d.C.), si evince che la strada principale dell’isola, ossia la via Valeria, metteva in comunicazione tutta la Sicilia settentrionale da oriente ad occidente, conducendo dallo stretto di Messina fino al Capo Lilibeo (dove sorge l’odierna Marsala). Il percorso di questa arteria, che attraversava l’attuale centro urbano di Brolo, seguendo quasi fedelmente il tracciato della S. S. 113, costituiva un asse di rilievo per gli scambi commerciali dell’epoca (forse ancor prima di essere un borgo di pescatori, il villaggio siciliano era parte fondamentale di quello che Catone, alcuni secoli prima, aveva denominato “granaio del popolo romano”).
In La Sicilia nella tabula Peutingeriana, l’Uggeri, in riferimento alla via Valeria, scriveva: «Questo percorso, noto nel Medioevo come “h basilich odoz” (in un documento del 1091), è pedemontano da Tindàro (Tindari) verso Sant’Agata di Militello, scavalcando il Capo Calavà e poi per Gioiosa Marea, Brolo, San Carrà, Scafa, San Martino e Rocca (dove si stacca una variante costiera recenziore per Sant’Agata)».
La storia dell’antico originario borgo medievale nasce e si sviluppa intorno al castello. Costruito quasi a picco sul mare, il maniero dominava un vasto tratto della costa tirrenica, proteggendo le spiagge sottostanti dalle incursioni piratesche berbere.
Questo edificio, adibito al controllo della costa, unitamente al villaggio di pescatori era conosciuto, in epoca normanna, con il termine “Voab”, toponimo lasciato in eredità dalla precedente dominazione araba, il cui significato è ‘rocca marina’. L’attribuzione di una così impegnativa denominazione rende palese l’importanza che il villaggio ricopriva nel tratto di costa tra Capo d’Orlando e Capo Calavà, in virtù della sua particolare posizione geografica strategica; il porto di Brolo era il solo presente in questo tratto di litorale, segnalato dal geografo Edrisi (ibn-Idris) nel 1154 con il nome di Marsa Daliah (porto della vite), quasi sicuramente era protetto da una iniziale costruzione adibita all’avvistamento delle navi saracene.
Non si hanno notizie certe sui fondatori del primo insediamento; le fonti storiche più attendibili fanno risalire la costruzione del primo impianto urbanistico all’XI secolo, attribuendola ai Primati di Sicilia, nobile famiglia appartenente al ceppo di Bartolomeo d’Aragona e legata alla corte di Federico II.
All’interno della torre una splendida sala di rappresentanza si chiude in un’ardita volta che ostenta lo stemma nobiliare dei Lancia di Brolo, venuti dal Piemonte in Sicilia al tempo degli Svevi e discendenti da Galeotto e Cubitosa d’Aquino, nipote dell’imperatore Federico II e sorella del filosofo, futuro santo, Tommaso d’Aquino.
Con l’imperatore il legame dei Lancia si fa ancora più intenso, perché lo stupor mundi stringe matrimonio con Bianca Lancia, prossima alla morte, dalla quale aveva prima avuto Manfredi, divenuto poi “Re di Cicilia”, come amò definirlo Guidotto da Bologna nel suo Fior di Retorica. Di questo legame, sulla porta della cinta muraria di Brolo, trova fondamento la scritta: “Imperium Rexit Blanca – Hoc e Stipite Manfredus Siculus Regia Sceptra Tulit”. Sulla seconda porta invece, a ricordo di Corrado III che, nel 1404, veniva dichiarato “maior ac principalior de domo Lancia”, il marmoreo scudo reca ancora oggi l’apellativo di “Principalior Omnium”. I muri del castello risentono delle trasformazioni del tempo ed appaiono come una struttura feudale costruita nei primi del ‘400, probabilmente ai tempi di Pietro o Corrado Lancia, secondo tipologie già attivate alla fine del ‘300, ma fortemente rimaneggiate nel ‘600, quando l’uso delle armi da fuoco necessitò la costruzione della “scarpa fortificata”.
Pur essendo inserita nel sistema delle torri costiere, la rocca di Brolo sorge soprattutto a controllo e difesa di un sottostante porto-caricatoio, nodo commerciale dei traffici per l’entroterra o per le Eolie fino al XVII secolo, insabbiato dalle piene dei torrenti avvenute nel 1653 e nel 1682. In tempi più recenti, sino all’avvento della Repubblica, Brolo è stata feudo di donna Manuela Contarino, marchesa di Brolo.
Da tempo immemore Brolo – dalla crescita economica allo sviluppo urbano, dall’andamento demografico alle arti, dalle tradizioni popolari alla cultura – è stata fortemente condizionata dalla costante presenza nel tempo del castello della famiglia Lancia. Del complesso edilizio originario oggi rimane solamente la torre e parte dei bastioni della cinta muraria. Il castello, posto su una rocca originariamente lambita dal mare, odiernamente dista dalla spiaggia antistante circa 300 metri.
In alcuni documenti della Regia Cancelleria datati 1431 e 1434, inerenti Pietro Lancia Arezzo, figlio di Corrado e di Laura Arezzo, Baroni di Ficarra, che fu il primo ‘investito’ di Brolo il 27 luglio 1453, si trovano riferimenti precisi sulla presenza di una fortificazione nel territorio di Brolo, che viene definito rispettivamente come “castrum” e come “terra e turris”.
Quindi è lecito stabilire che, già nei primi decenni del 1400, Brolo fosse un borgo contadino difeso da un complesso fortificato.
Solitamente una struttura adibita a questa specifica funzione si sviluppa su una pianta quadrata se ubicata in pianura, circolare o comunque irregolare se dislocata in collina; per esigenze di rapidità d’esecuzione, la prima messa in opera avveniva con un’intelaiatura in legno, facile da smantellare qualora si raggiungessero in breve tempo accordi pacifici. Viceversa, se nel tempo la giacitura scelta si dimostrava ottimale, ossia soddisfaceva i requisiti strategici che le permettevano di controllare in modo sicuro un’ampia porzione di territorio, il più delle volte, la provvisoria costruzione primitiva veniva trasformata in un complesso fortificato stabile; tale operazione era, quasi sempre, effettuata sostituendo le pareti di tronchi d’albero con dei muri perimetrali in conci, più o meno squadrati, di pietra.
All’interno di una siffatta struttura edilizia, qualora già non vi fosse naturalmente, veniva innalzata una piccola collinetta artificiale, denominata ‘motta’, al di sopra della quale si costruiva un perimetro quadrangolare, detto ‘turris’ o ‘dongione’; all’altezza delle sue fondamenta si disponeva lo spazio predisposto per la raccolta dell’acqua, mentre le diverse elevazioni venivano utilizzate come magazzini per le derrate alimentari e come alloggio per il comandante della guarnigione. Basata su una forte scarpa da due lati e aperta ad un terrapieno dagli altri, la torre è affiancata e caratterizzata da un torrino scalare cilindrico che, intersecandosi alle mura, consente l’accesso alle varie elevazioni e al terrazzo, dove si posano i merli ghibellini, che con il loro profilo a coda di rondine coronano l’alto e maestoso torrione, punto di vedetta privilegiato per la difesa dalle incursioni dei mori.
Addossati ai muri della cintura perimetrale, vi erano ubicati una serie di edifici supplementari, quali le stalle, la forgia e tutte le residenze (provvisorie e non) della guarnigione.
Dall’analisi di un diploma del 1262 si evince che Brolo era, a quella data, ancora un semplice casale non fortificato, dato riscontrabile anche nella Carta generale dell’insediamento nella Sicilia sveva in La Sicilia di Federico II di Ferdinando Maurici. Il processo costruttivo appena indicato è, con ogni probabilità, quello effettivamente verificatosi intorno al primitivo complesso abitativo.
Attenendosi ai caratteri tipologici della torre di Brolo, verifichiamo il loro inquadramento all’interno dei canoni della tipologia edilizia federiciana.
Infatti, la pianta generale è pressoché quadrata, il vano del piano terra, a cui si accede direttamente dal cortile, ha i lati di misura irregolare, da 4,90 a 5,70 metri, tale differenza deve essere relazionata al diverso spessore murario, che passa dai circa 1,60 metri nel fronte dell’ingresso ai 2,50 metri circa del fronte opposto, con delle minime differenze nei muri laterali. Gli apparati murari sono in pietra, accuratamente squadrata in corrispondenza degli angoli e delle cornici delle aperture, le scale risultano immerse nello spessore murario e il sistema delle coperture è a volta.
In seguito all’espansione della pirateria turca nel bacino mediterraneo – Brolo fu attaccata e saccheggiata nel 1543 – il Viceré De Vega diede avvio alla realizzazione di un sistema di torri vedetta, sparse in maniera omogenea e continua lungo la costa, in modo tale da risultare, in successione, agevolmente visibili tra di loro.
Questo sistema di fortezze consentiva di trasmettere l’arrivo di un bastimento nemico, attraverso i ‘fani’(insieme di segni di fuoco e di fumo convenzionali, appartenenti ad un sistema comunicativo, attualmente oggetto di studio della semiotica) e di comunicare la notizia dell’avvenuto avvistamento da un elemento della catena al successivo, sicché tutti i punti della costa fossero messi in condizione di approntare i rispettivi sistemi di difesa, compresi quelli molto distanti dal luogo d’origine del messaggio di pericolo. Esistevano già lungo il litorale delle torri di avvistamento, ma non erano relazionate tra di loro, quindi fu svolta quest’opera di ricucitura tra l’esistente ed inoltre furono aggiunti una serie di capisaldi a dominare le zone scoperte.
La torre di Brolo faceva parte della categoria dei capisaldi già esistenti e, con ogni probabilità, usufruì del donativo stanziato nel 1579 sotto il Viceré Marco Antonio Colonna, per la riparazione e l’adattamento delle torri presenti sul territorio. Questi edifici, furono trasformati da semplici ripari per l’avvistamento in vere e proprie strutture difensive. Si può far risalire dunque a questo periodo l’adeguamento strutturale del complesso brolese alle nuove sopraggiunte necessità.
Tra le mura del Castello non esiste più la chiesetta di S. Girolamo, ma nel parco fa bella mostra l’elegante esagona del pozzo, che la leggenda vuole collegato con alcune grotte sottostanti, per assicurare una sorta di via di fuga, anche se questa è da ricercarsi tra le “timpe” (scarpate) della cosiddetta “potta fausa” (porta falsa).
La torre diventò un elemento forte della costa, si sviluppò in altezza, al fine di avere il più ampio raggio visivo, vennero rinforzate le mura con l’edificazione della seconda cinta in cui era presente, oltre all’ingresso principale, la porta falsa con uscita a mare, oggi non più esistente, ma in ricordo della quale la località in prossimità della scarpata della rupe viene ancor oggi chiamata contrada della «potta fausa».
Nel suo Viaggio in Sicilia 1804 «Soggiorno a Brolo e Patti», Carl Grass racconta: «Il vecchio castello appartiene adesso al marchese Lungarini di Palermo, ed è stato probabilmente costruito – come tante altre simili fortezze – al tempo di re Federico II di Sicilia. Ancora mezzo secolo fa era compreso tra i più conservati vecchi edifici. Oggi è circondato da mura munite di feritoie, ma poiché il tetto è stato trascurato è caduto in rovina pezzo dopo pezzo. Quando lo vidi io nessuna stanza aveva una porta. Le finestre non erano mai esistite, se non soltanto persiane con piccole aperture. Il pavimento era nella maggior parte delle stanze bucherellato. Qua e là una parte del solaio era caduta; il cortile, nel quale si trovava una fontana, era ricoperto di erbacce».
Il viaggiatore tedesco prosegue la sua descrizione con i particolari dell’arredamento: «di ornamenti o di mobili non c’era proprio niente. Nell’unica stanza ancora abitabile si vedevano i resti di tappezzeria di cuoio pressato, che sembravano essere stati un tempo dorati, uno specchio rotto e ornato di svolazzi ed inoltre un vecchio tavolo, una poltrona ed una piccola credenza che doveva essere stata sistemata in un angolo. Questi erano tutti i mobili».
Il castello ha oggi il desiderio di mostrare a tutti le pagine ingiallite della propria storia, così che nessun altro viaggiatore straniero abbia ad esclamare: «Sacro silenzio della solitudine! Qui non ti disturba più nessuno».
La Torre delle Ciàvole a Gliaca di Piraino
Edificata ai piedi di una collina su uno sperone roccioso, con grossi blocchi di pietra che il mare lambisce, la Torre delle Ciàvole, di base quadrata su tre elevazioni, costituisce un valido esempio del sistema difensivo approntato lungo le coste siciliane intorno al 1500.
La facciata principale, rivolta a sud, è dotata di tre aperture: accanto ad una finestra esiste ancora la campana che serviva a dare l’allarme. Infatti, la torre era presidiata da tre soldati che controllavano i vascelli in transito a lanciavano segnali in caso d’incursioni piratesche o di bastimenti visibilmente infestati.
Ad uno di questi guardiani e alla principessa Maria la Bella è legata una triste leggenda.
La ragazza s’affacciava al balcone del Castello dei Lancia, aspettando l’arrivo del suo spasimante, che giungeva con una piccola barca fino al porto-caricatoio di Brolo, aggrappandosi poi alla murata per abbracciare l’amata. Di giorno, invece, i due comunicavano attraverso un elaborato gioco di specchi.
Il fratello di Maria, annebbiato dalla rabbia, decise di eliminare chi aveva osato insidiare la sorella. Si appostò sullo scoglio antistante Brolo (che forse per questo è detto “del pianto” o “ploratu“), finì il giovane guardiano e si liberò del corpo infilandolo in un sacco e facendolo calare a fondo nell’acqua.
La leggenda vuole che Maria la Bella appaia nella notte ai pescatori, augurando loro una buona pesca o richiamandoli in caso di pericolo, dicendo: “juta e vinuta, bona piscata” (ovvero “andate e tornate, buona pesca”) e, se il tempo è inclemente, avvertendo: “isati li riti! Viniti, turnati!” (cioè “issate le reti! Venite, ritornate!”).
Una versione più prosaica narra che i genitori della ragazza, per l’onta subita, fecero uccidere i due giovani. Secondo altri, invece, intorno alla Torre delle Ciàvole aleggia lo spirito del cosiddetto Capitano di Piraino, che osò sfidare Ariadeno Barbarossa, un feroce pirata, rimanendone ucciso.
Nella metà del XVI sec., il viceré Juada De Vega cercò di affiancare al sistema di difesa strategico basato sulle città bastionate, un apparato tattico più capillare, facendo edificare alcune decine di torri di avvistamento, dislocate lungo tutto il litorale siciliano. Questo tipo di torri, a differenza di quelle cilindriche di derivazione araba costruite dal X al XV sec., avevano pianta quadrata.
Per incarico del Viceré Marco Antonio Colonna, l’architetto toscano Camillo Camilliani, tra la fine del 1583 ed i primi del 1585, compì un giro di ricognizione lungo tutto il perimetro costiero dell’isola al fine di individuare i punti più pericolosi ed esposti agli sbarchi nemici, e progettare dunque nuove torri. Così, tra la fine del 1500 ed i primi anni del 1600, tutta l’isola fu dotata di una catena continua di torri di guardia.
La Torre della Ciàvole ricalca in modo quasi fedele la tipologia indicata dal Camilliani: pianta quadrata; piano inferiore con pareti esterne scarpate fino al cordone e destinato a cisterna; piano superiore destinato all’alloggiamento delle guardie; terrazza munita di parapetto.
Notizie certe sulla Torre delle Ciàvole risalgono alla fine del XVII sec., ovvero al periodo del Ducato della famiglia Denti. La nostra viene citata come: “Torre di deputazione, posta sotto la soprintendenza del Principe di Castellazzo, Duca di Piraino, con armamento di artiglieria e di tre soldati, giusta obbligazione del 30 aprile 1687”.
La torre è oggi simbolo di Piraino e dell’intero tratto costiero tirrenico denominato “Costa Saracena” (forse in maniera quantomeno impropria, poiché ci sembra indelicato intitolare un luogo a personaggi storici di dubbia moralità, nella fattispecie pirati stupratori e malfattori che hanno, per secoli, perpetrato angherie su pacifici e umili villaggi di pescatori).
Di proprietà privata, è inspiegabilmente e scandalosamente stata abbandonata all’incuria per molto tempo, con il conseguente crollo di un pezzo di muro d’angolo. Solo di recente, per lo stato di pericolo in cui si trova, la Sovrintendenza di Messina ha inoltrato le dovute autorizzazioni, al fine di consentire i lavori di restauro e consolidamento. La ditta proprietaria, negli scorsi mesi, ha già dato inizio ai lavori, ma l’ennesima mareggiata di quest’inverno ha creato forti danni al costone roccioso su cui poggia la torre stessa, causandone ingenti problemi di stabilità.
Dopo una serie di sopralluoghi e riunioni pare che la Provincia di Messina abbia deciso finalmente d’intervenire, nell’ambito dei lavori per il ripristino del litorale eroso, affinché si possa realizzare una barriera preliminare per difendere lo sperone roccioso dai marosi provenienti da ponente.
La Torre Saracena (o Torrazza) di Piraino
La Torre Saracena, detta anche Torrazza, fu realizzata dagli Arabi nel X secolo, per la difesa e l’avvistamento: la sua particolare posizione geografica consente infatti una
visione panoramica a 360° (sia lato mare, a settentrione, che lato entroterra, a meridione).
Presenta una forma cilindrica ed una superficie esterna con muri del tipo “faccia a vista”, ovvero realizzati con mattoni pieni, privi di ulteriore rivestimento.
La torre faceva parte di un sistema di avvistamento che, partendo dalla cinquecentesca Torre delle Ciàvole, posta lungo la costa, comunicava con la Guardiola, situata a nord del paese e quindi con il Castello di Brolo e quello di Capo d’Orlando. Si sviluppa su tre livelli, con una terrazza, collegati tra loro da una scaletta interna.
Nel XVIII sec. fu anche adibita a carcere.
Risulta essere l’edificio posto sul punto più alto di tutto il centro storico ed è sicuramente attorno ad essa che si sviluppò il primo nucleo abitativo.
Piraino sorge su un crinale che degrada bruscamente sul mare, tra i promontori di Capo d’Orlando e Capo Calavà. Secondo la tradizione, il toponimo trae origine dal nome del ciclope Piracmone, che avrebbe costruito il primo insediamento intorno all’anno 827 a. C.. Fin qui la leggenda. Secondo le fonti storiche, le prime notizie certe sull’esistenza di Piraino (forse il nome deriverebbe invece dal siciliano Pirainu, che significa “pero selvatico”) sono da collocare in epoca greca. Fu casale romano, subendo anche la dominazione bizantina.
Nell’860 i Saraceni iniziarono la conquista della Val Demenna (altrimenti conosciuta come Valdemone). Occupata Piraino, per ordine dell’emiro Ahmod, furono costruite la torre cilindrica, quale punto di osservazione, e le mura del paese, mentre la pre-esistente chiesa cristiana venne trasformata in moschea. Della presenza musulmana sopravvivono evidenti tracce anche nei toponimi di alcune importanti borgate di Piraino quali Salinà, Scinà e Maraona.
Con la dominazione normanna, a partire dal 1070, Piraino conobbe un periodo di grande splendore grazie alla riorganizzazione dell’agricoltura. Nell’alto Medioevo, il centro tirrenico con Brolo, Ficarra e Galati Mamertino appartenne alla nobile famiglia dei Lancia, che resse l’esteso feudo fino agli inizi del XVIII secolo.
Durante le lotte fra Svevi e Angioini, che per decenni devastarono l’isola, i Lancia, che avevano combattuto eroicamente sotto le bandiere di Federico II, perdettero i loro beni. Soltanto con l’avvento degli Aragonesi recuperarono parte dei loro antichi possedimenti. Sempre durante il regno degli Aragona, Piraino dovette subire le incursioni degli arabi, tra cui quella arcinota guidata, nel 1544, dal pirata arabo Khayr al-Din (Ariadeno) Barbarossa, dove venne ucciso a colpi di scimitarra l’arciprete di rito ortodosso Giovanni Maria Scolarici, mentre tentava la fuga dal paese, per salvare non solo se stesso ma, soprattutto, le sacre ‘particole’ dalle mani degli infedeli. L’evento è a tutt’oggi ricordato nel paese durante il periodo estivo, quando viene inscenato un vero e proprio corteo storico in abiti d’epoca, rievocante l’arrivo dei saraceni a Piraino.
L’attacco del Barbarossa fu così grave da causare la mancanza di sacerdoti di rito ortodosso nella zona, la cui eredità spirituale fu presa in custodia da quelli di rito romano nel 1576. Il 27 settembre 2009 la Chiesa Ortodossa in Italia ha proclamato santi padre Giovanni Maria Scolarici ed il figlio Giuseppe.
Nel 1640 il reverendo canonico Francesco Denti acquistò da Vincenzo Paternò la baronia su Piraino, affidandola a Vincenzo Denti che, per privilegio del re Filippo IV di Spagna, nel 1656, ottenne il titolo di Duca. Iniziava così il dominio della nobile famiglia che legò al suo nome le pagine più gloriose della storia della città. I Denti governarono per circa due secoli col mero e misto impero, affidando le questioni civili ad un magistrato. A Vincenzo Denti successe, nel 1678, Gregorio Castelli, al quale venne conferito il titolo di Principe di Castellano. Costui promosse la ricostruzione e l’ampliamento del palazzo Ducale, per farne prestigiosa dimora della sua famiglia, come in passato lo era stata per i Lancia. Di quel magnifico edificio oggi purtroppo restano solo i ruderi ed il portale, sulla sommità del quale spicca lo stemma araldico. Per volontà dello stesso Gregorio, nel 1687 fu costruita anche la chiesa di Sant’Anna, per dir messa per la famiglia.
Ma veniamo alla struttura della torre nel dettaglio. Alta ben sedici metri, il piano terra ospitava piccole cisterne, molte di queste si trovano oggi sparse intorno la torre: esse costituivano un sicuro sistema di approvvigionamento idrico, indispensabile quando gli abitanti erano costretti a chiudersi dentro la cinta muraria a causa delle incursioni piratesche. I tre piani sono collegati tra di loro da una scala interna ed illuminati da due aperture a tutto sesto, riquadrate in pietra e sfalsate fra loro. La terrazza aveva un parapetto merlato.
La torre, oltre all’avvistamento e alla difesa è servita, nel corso dei secoli, per controllare il passaggio delle navi che transitavano tra la nostra riviera e le Isole Eolie.
Ci sono testimonianze del suo utilizzo da parte dei nazisti, durante il secondo conflitto mondiale, come base di avvistamento e fuoco a lunga gittata, per cercare di evitare l’approdo dei reggimenti dei generali Patton e Truscott.
Oggi è in fase di restauro, anche se si è mantenuta sempre in discreto stato nel corso del tempo (forse era da evitare l’obbrobrio estetico costituito dalla scala antincendio esterna in ferro, che ne intacca la fascinosa immagine di raro esempio di fortezza araba ben conservata).