CONSONANZE E DISSONANZE
Attraverso le finestre della traduzione. Javier Vicedo Alós, “Finestre su nessuna parte” (Gattomerlino Superstripes 2015)
Avvicinandomi all’opera di Javier Vicedo Alós e in particolare alla sua prima traduzione italiana in volume, ad opera di Antonio Bux, cercherò di non farmi prendere la mano dalla forte consonanza che sento con i testi di entrambi gli autori – a riprova del fatto che ogni traduzione ‘riuscita’ è, a sua volta, una creazione… È una consonanza, d’altronde, che ho già avuto occasione di dimostrare, dando un mio piccolo contributo alla traduzione online di alcuni testi del poeta originario di Castellón, classe 1985, che sono stati pubblicati qui…
L’inizio, dunque, può anche essere retorico, ma lo è soltanto, spero, in funzione di ciò che segue. Manipolando creativamente il titolo dell’opera di Vicedo Alós, infatti, potrei dire che, nelle condizioni disastrate della traduzione poetica in lingua italiana, ogni pubblicazione curata e attenta, com’è il caso delle edizioni Gattomerlino Superstripes, apre una finestra su un mondo diverso, sul quale uno sguardo altrettanto curato e attento sembra essere un dovere irrinunciabile.
Si tratta pur sempre, però, di una manipolazione creativa del titolo dell’opera, e da qui nasce il dubbio che ogni finestra aperta sul panorama poetico internazionale sia, in realtà, spalancata su scelte poetiche, culturali e politiche ben precise, se non proprio idiosincratiche. Aperte, quindi, a una manipolazione che nasce dallo stesso ‘fare’ che è costitutivo del verbo poiein e può diventare rapidamente qualcosa d’altro… Ma, a mio modo di vedere, bisogna comunque correre il rischio.
Anche perché – ultima capriola di questo gioco – le finestre possono aprirsi su nessuna parte, come recita, per intero, il titolo dell’opera in questione: si tratta, in fondo, di squarci che possono anche evitare di introdurre faziosità, o partigianerie, pudicamente mascherate da scelte ‘militanti’, e spalancarsi su un vuoto interrogante, che ottiene di mettere a nudo autore, traduttore e lettore allo stesso tempo.
Passo a vedere, rapidamente, cosa può significare questo nel caso specifico di Javier Vicedo Alós e di Antonio Bux.
Le prime finestre aperte dal testo si trovano in epigrafe, dove a Fernando Pessoa si accompagna la voce, formatasi nello studio della letteratura mistica e approdata poi a una sua particolare versione della contemporaneità, che in ultima analisi non è stata né ermetica né neo-orfica, del poeta galiziano José Ángel Valente (1929-2000). Mentre Pessoa nomina una finestra chiusa, che esclude il mondo e contribuisce a riprodurne i fantasmi, Valente parla di una finestra aperta «por toda memoria» («per tutta memoria»); crea, cioè, una potente immagine di memoria come travaso vitale, della quale occorre anche notare, però, come essa proceda senza particolari bisogni di strutturazione o articolazione storica. Se Javier Vicedo Alós apre le sue finestre su nessuna parte, lo fa dunque nella piena consapevolezza di queste derive, o, più semplicemente, della possibilità di questi percorsi.
Di fatto, le rispondenze con la poesia di Valente sembrano ricorrere spesso, risuonando, ad esempio, nell’attenzione e rispetto quasi sacrali di Javier Vicedo Alós verso il silenzio, come si legge in Sinceramiento: «Y callarse sería lo más sabio.» (Giustificazione: «E zittirsi sarebbe più saggio»). Le relazioni tra parola e silenzio, tra interno ed esterno e tra luce e ombra finiscono, anzi, per costituire gli assi portanti del libro, creando una semantica scarna, ma intensa, sempre accuratamente soppesata, mai triviale né incline al poetese. Già nel 2012, in effetti, Antonio Bux parlava della poesia di Javier Vicedo proprio in questi termini, nel blog di Giacomo Cerrai: «Una lirica questa, aspra e diretta, sottilmente aperta all’infinito e alla fatalità dell’esistenza; un dire che si fa in alcuni tratti più duro e sprezzante, quasi intransigente, soprattutto nei confronti dell’uomo stesso, nonostante permanga l’impronta sostanzialmente esistenziale delle tematiche affrontate. (“Si nasce senza parole / e con tutte le parole distrutte / ce ne andiamo”, da Omaggio verticale)».
Almeno altri due autori arricchiscono il panorama intertestuale della poesia di Javier Vicedo Alós: Homenaje vertical/Omaggio verticale, infatti è dedicata al poeta argentino Roberto Juarroz (1925-1995), mentre Ambición/Ambizione è un omaggio all’autore valenziano, di qualche generazione più giovane di Juarroz, Carlos Marzal, ancora vivente.
Da un lato, il riferimento a Juarroz evoca un altro poeta fortemente interessato a quella dimensione profonda del silenzio che sostanzia, e rastrema, la parola poetica; per farlo, Vicedo Alós ricorre alla dizione di “Poesia verticale”, che Juarroz usò come titolo complessivo per racchiudere la quasi totalità della sua opera.
Altra poesia, come quella di Valente, che non si può semplicemente rubricare come neo-ermetica, oppure neo-orfica, quella di Juarroz è la ricerca di una “abrasada transparencia”, nelle parole di Vicente Aleixandre: una “trasparenza ustionata” che, aldilà del contrasto quasi ossimorico nella definizione, rappresenta la sintesi di un percorso di ricerca, che anche lo stesso Javier Vicedo Alós è pronto a compiere, come si può leggere nei primi versi della sua poesia: «Echamos fuego al agua / y apagamos la transparencia» («Diamo fuoco all’acqua / e spegniamo la trasparenza»). La permanente oscillazione tra diversi campi semantici si propone come un’indagine integrale della parola poetica che, nel suo negare la trasparenza (o la comunicazione), si apre, sempre secondo Juarroz, alla possibilità del proprio completo fallimento. Tale fallimento, tuttavia, non è mai totale all’interno della ricerca stessa, quando questa sia mantenuta viva – “dando”, ad esempio, “fuoco all’acqua”. Si possono ricordare, a questo proposito, le parole che chiudono il prologo di Poesia vertical e che si possono rileggere qui: «Desde adentro, toda obra es un fracaso. Pero creo haber buscado algo distinto. Y esa búsqueda, desde adentro o afuera, no es un fracaso».
Carlos Marzal, invece, può essere considerato un esponente di quella poesía de la experiencia (“poesia dell’esperienza”) che accoglie tra i suoi autori di punta anche Luís García Montero o Felipe Benítez Reyes. Questo, almeno, stando a Wikipedia; in realtà, nella poesia dell’autore valenzano è più facile rintracciare la poesía de pensamiento (“poesia di pensiero”), incarnata, tanto per Marzal quanto per Vicedo Alós – autore, peraltro, di un sentito omaggio all’autore di “Noche del mes de junio” – dal catalano Jaime Gil de Biedma. Tra i due poli, non si avvertono frizioni decisive, se non forse nella rinuncia alla ricerca di una leggibilità che appartiene più alla poesía de la experiencia che non a quella del pensamiento; tuttavia, ciò che mi interessa sottolineare in questa sede è il particolare vigore del testo dello stesso Javier Vicedo Alós.
Bux ne rilevava la tensione a «ritornare a quegli stadi primordiali spesso invocati, in stretta simbiosi con tutti gli esseri della terra e con il grande vuoto sapienziale dell’universo», interpretazione che può reggersi benissimo sulla strofa centrale del testo: «Quebrar los nudos pétreos de la carne / y ser la incandescencia pura / sin motivo ni superficie.» («Spezzare i nodi impietriti della carne / ed essere pura incandescenza / senza motivo né superficie.»).
Un altro percorso interpretativo potrebbe nascere dal primo verso – «Descomponer mi nombre en esta tarde» («Scomporre il mio nome in questa sera») – che apre, invece, una finestra sull’unico, e splendido, testo della sezione finale, Coda abierta/Finale aperto, e sulla questione della firma come marchio e garanzia della voce autoriale. «Alguien debe firmar este silencio» («Qualcuno deve firmare questo silenzio»), scrive Javier Vicedo Alós, e sia lui che Antonio Bux – nelle loro poli-testualità e poli-grafismi (soprattutto nel caso di Bux), che sono anche, in ultima istanza, poli-tradizioni e poli-traduzioni – ambiscono senza tema a farlo.
Lorenzo Mari
Immagine di copertina: Benozzo Gozzoli, particolare delle “impannate” alle finestre, affresco raffigurante la “Scuola di Tagaste”, uno degli episodi della “Vita di Sant’Agostino” dipinti nella chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano (SI) nel 1467.
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