Giacomo Sartori, Rogo, Carta canta, Forlì 2015.

di Daniele Greco

Ho provato a cercare dove fosse la materia che conferisce lo status di romanzo al libro “Rogo” di Giacomo Sartori (Carta canta, Forlì, 2015) e ammetto, alla fine, di non averla trovata.
Le tre storie che compongono il libro sono ambientate, rispettivamente, nel 1600; tra gli anni ‘70 e ‘80 del XX secolo; nel 2012. Dietro l’ambizione di scrivere un romanzo polifonico capace, attraverso le vicende che hanno al centro delle figure femminili, di restituire la condizione della donna come un “rogo” metaforico, si cela un testo di una banalità e monotonia prive di qualsiasi valore letterario. Gli eventi delle tre vicende si alternano nella narrazione, ma sono assolutamente retorici, sterili e pieni di una ideologia manichea in cui gli uomini sono cattivi per definizione e le donne, ovviamente, il loro contrario.
C’è Ilio che fa il rocciatore, è compagno di Lucilla, e al momento del parto del figlio non potrà essere presente perché deve scalare la parete nordovest dell’Eiger; Anna, una ragazza bulimica, anoressica, paranoica e poco altro; Gheta, infine, una strega di Vigo, che viene torturata e il cui pensiero più alto nel romanzo è quello di sperare di non essere ammazzata. Poco altro. Impossibile parlare di romanzo, con tutta la buona volontà. Si tratta di una sceneggiatura venuta male, per la quale l’autore ha detto di volere mettere sulla pagina i propri fantasmi interiori – lo diceva anche Nerval, ma con esiti diversi – , la propria inconoscibilità delle donne e, infine, l’eterno fascismo – da lui associato al maschilismo – degli italiani.

Su questo ultimo punto valga per tutti il modo in cui viene descritto uno psichiatra:

“Lo psichiatra assomigliava a Mussolini, aveva anche lui la capoccia pelata e la faccia da maiale”; “Un mercoledì lo psichiatra preciso a Mussolini (…)”; “Lo psichiatra calvo”; “Sembra più piccolo e più dimesso, e anche il suo testone appare meno intimidante: non assomiglia più a Mussolini”.

Non c’è altro. Non ci sono dialoghi, non ci sono impennate stilistiche che tentino di dire qualcosa di nuovo sulla condizione femminile. C’è solo un elenco di fatti dei quali i personaggi – poco meno che creature bidimensionali – vengono a conoscenza solo perché esiste un autore che afferma che quelle cose sono accadute. Non abbiamo neanche lontanamente l’illusione di trovarci in un mondo narrativo che nella lettura sembri sgorgare da sé stesso.
Spiace dirlo, infine, ma le letture che si trovano in rete al libro di Sartori sono piuttosto deludenti, sono affette dalla profondità di superficie di chi non pare avere letto l’intera opera, ma semmai considera la recensione come il valore di scambio che deve tenere vivi alcuni rapporti di forza. Considerato che la stragrande maggioranza di quelli che scrivono recensioni lo fa per passione e non per denaro – meno che mai per lavoro – sarebbe auspicabile essere quanto meno rigorosi: se non nei confronti della letteratura, sulla quale si possono anche avere delle legittime opinioni contrastanti, almeno verso la propria malafede.

0 pensieri su “Giacomo Sartori, Rogo, Carta canta, Forlì 2015.

  1. E che la maledizione di chi ha anche solo toccato il libro ricada anche sugli avi… Bah, c’è un astio, un rancore e un accanimento che una persona che dà giudizi, per quanto da appassionato, su dei testi a mio parere non dovrebbe avere… La conclusione che (più o meno virgolettato) tutti coloro che l’han trovato un ottimo libro sono dei coglioni, dei leccaculo o dei pirla è veramente imbarazzante… Ragionaci un po’ su… ‘Che tutti siano usi fare la “genuflessioncella d’uso” (se l’hai capita bene, sennò c’è la rete per spiegartela) quella sì è manichea. Tra l’altro me ne sfugge il motivo… Forse é un libro che a te non é piaciuto, a molti altri si… Buone letture

Rispondi