Un attimo di chiarezza dura così poco.
L’oscurità resta più a lungo. Vi sono
più oceani che terraferma. Più
ombra che forma.
(L’attimo, pag. 137)
Nato nel “45 a Leopoli, odierna città ucraina di L’viv, Zagajewski alla fine del secondo conflitto mondiale, fu costretto con la sua famiglia ad abbandonare la Galizia e a trasferirsi nella Slesia sottratta alla Germania per essere annessa alla Polonia. Di fatto Zagajewski è stato sempre considerato polacco più che ucraino, studiando e formandosi a Cracovia, dunque partecipando attivamente e rappresentando a pieno titolo la Generazione letteraria della Nowa fala, ovvero la Polish New Wage del “68. Ma più di tutto Zagajewski, così come il Miłosz di “Citta senza nome”, si definisce cittadino dell’Europa dell’Est, ovvero di quel mondo di frontiera in cui confini, appartenenza e disappartenenza sembrano sottostare al susseguirsi di vicende storiche in cui la forza e la violenza trascendono ogni cosa, come un destino ineluttabile che si ripete di vincitore in vincitore
[…] Sull’altra riva / del fiume, nel raggio dell’esistenza, / marciano i soldati. L’armata nera, / l’armata rossa, l’armata verde, / arcobaleno di ferro. Nel mezzo l’acqua / tranquilla, l’onda indifferente. (Il fiume, p. 26)
[…] Là, dove cantavano i merli, un tempo c’era / una succursale di Auschwitz, e sotto l’erba / furono sotterrate le bende dell’ospedale russo, per questo il prato era gonfio, rigoglioso. […](Il fiume nero, p. 94)
Dunque gran parte dell’opera di Zagajewski sarà caratterizzata da questo senso di spaesamento e disappartenenza che la malvagità umana e storica ha imposto alla vita indifferente delle cose e degli oggetti (Dalla vita degli oggetti, pag. 106), rendendo l’uomo e il poeta, straniero nelle citta straniere (Nelle città straniere, pag. 101), viandante e migratore in cerca di una verità che coincida con l’identità (Il viandante, pag. 15) e con il segreto di quell’IO che
“piccolo e invisibile come i grilli / ad agosto […] abita tra / blocchi di granito, in mezzo a verità / utili”, quell’io “eterno fuggiasco […] così diffidente da non / ricevere nessuno, me compreso”, (IO, pag. 38).
Così la città natale si trasfigura in simbolo, bandiera senza patria (La bandiera, pag. 14) o, meglio, patria senza bandiera, madre accogliente e traditrice, amore impossibile e quindi anelato,
“[…] Da quale stazione andare / a Leopoli, se non in sogno all’alba, / quando la rugiada ricopre le valigie e proprio allora / nascono i rapidi e gli espressi. […] (Andare a Leopoli, pag. 39)
luogo di religioso pellegrinaggio da contrapporre al grigiore della Polonia,
“febbre riarsa sulle labbra dell’emigrato […] / mappa stirata dai ferri pesanti/ di treni a lunga percorrenza […] // Paese di gente così innocente da non / poter essere salvata. […] // Paese senza aculei, / confessione senza peccati mortali […]” (La Febbre, pag 22).
Dunque il viaggio è il tema conduttore di questa antologia che raccoglie una selezione di testi che abbraccia l’intera esperienza di vita del poeta che, in questo vero e proprio diario di bordo
“[…] scrivo viaggiando – perché volevo vedere, / e non solo sapere – vedere chiaramente / incendi e scorci di quell’unico mondo, […]”, (Vedere, pag 178)
descrive minuziosamente città, paesaggi, ma anche oggetti, suoni, opere d’arte, dialoghi veri e immaginari, tutto come se ogni cosa, ogni oggetto descritto fosse filmato da una macchina da presa capace di soffermarsi e inquadrare ogni aspetto nelle varie e possibili angolature, definendone quindi l’esistenza al di là della mera e concreta presenza, sì da coglierne l’inner sense, ovvero il lato d’ombra, la voce segreta che la natura morfologica delle cose in se stessa racchiude, mettendone in relazione significato (oggetto, luogo, sentimento) e significante (nome, parola, linguaggio) fino a tracciare una mappa luminosa sull’intreccio che ogni possibile esistenza incontra e agisce.
Egli agisce, nel fulgore e nelle tenebre,
nel fragore delle cascate e nel silenzio del sonno,
ma non come annunciano i vostri
pastori, che restano ben protetti.
Cerca la linea più distante,
una strada così lontana che quasi
non si vede. Si perde
nel dolore. Solo i ciechi, solo
i gufi talora ne percepiscono la tenue impronta
sotto le palpebre.
(Egli agisce, pag. 27)
Attraverso l’obiettivo di Zagajewski si alterneranno quindi immagini e suoni, ascolteremo Chopin, Schubert, Bach, osserveremo i quadri di Veemer e Modigliani prendere forma, e ci soffermeremo ad ascoltare la voce dei morti tra i rami degli alberi tetri, fino a giungere all’intuizione numinosa della luce che in sé racchiude il mistero dell’esistenza nella stretta relazione tra le cose tutte unite indissolubilmente in ogni singolo attimo d’eterno e presente che sovrasta il volere o ancora l’indifferenza degli uomini, delle loro guerre e del loro minuscolo passaggio di terrore e bellezza attraverso la natura e le sue cose.
***
Anni Trenta, pag. 123
Anni Trenta
Io ancora non ci sono
Germoglia l’erba
Una ragazza mangia un gelato alla fragola
Qualcuno ascolta Schumann
(il folle Schumann,
smarrito)
Che felicità
Io ancora non ci sono
Sento tutto
*
Là, dove il respiro, pag. 190
Sta sulla scena
senza alcuno strumento.
Appoggia le mani sul petto,
là dove nasce il respiro
e dove si spegne.
Non sono le mani a cantare
E nemmeno il petto.
Canta ciò che tace.
*
Dalla vita degli oggetti, pag. 106
La pelle levigata degli oggetti è tesa
come la tenda di un circo.
Sopraggiunge la sera.
Benvenuta, oscurità.
Addio, luce del giorno.
Siamo come palpebre, dicono le cose,
sfioriamo l’occhio e l’aria, l’oscurità
e la luce, l’India e l’Europa.
E all’improvviso sono io a parlare: sapete,
cose, cos’è la sofferenza?
Siete mai state affamate, sole, sperdute?
Avete pianto? E conoscete la paura?
La vergogna? Sapete cosa sono invidia e gelosia,
i peccati veniali non inclusi nel perdono?
Avete mai amato? Vi siete mai sentite morire
quando di notte il vento spalanca le finestre e penetra
nel cuore raggelato? Avete conosciuto la vecchiaia,
il lutto, il trascorrere del tempo?
Cala il silenzio.
Sulla parete danza l’ago del barometro.
*
Versi sulla Polonia, pag. 62
Leggo versi sulla Polonia scritti
da poeti stranieri. Tedeschi e russi
non hanno solo mitra, ma anche
inchiostro, penne, un po’ di cuore e molta
fantasia. Nei loro versi la Polonia
ricorda un unicorno spavaldo
che si ciba della lana degli arazzi,
bella, debole e incauta. Non so in che cosa
consista il meccanismo dell’illusione,
ma incanta persino me, lettore smaliziato,
quest’indifeso paese delle fiabe,
di cui si cibano aquile nere, imperatori
famelici, il Terzo Reich e la Terza Roma.
*
Negli alberi, pag. 24
Negli alberi, nelle loro chiome, sotto sontuose
vesti di foglie e sottane di luce,
sotto i sensi, sotto le ali, sotto gli scettri,
negli alberi si cela, respira, palpita
una vita quieta, sonnolenta, un abbozzo d’eterno.
Prosperi reami crescono nell’ambone
delle querce. Gli scoiattoli corrono, immobili
come piccoli tramonti rossi nascosti
sotto le palpebre. Ostaggi invisibili
formicolano sotto i gusci delle ghiande,
gli schiavi portano cesti con frutta e argento,
i cammelli oscillano come studiosi
arabi sopra i loro manoscritti, i pozzi
bevono acqua e aceto, l’acerba Europa
stilla come resina dal legno, Vermeer dipinge
vesti e una luce che non va scemando.
Sotto la cupola del circo danzano i tordi.
Slowacki già abita a Parigi e gioca
perseverante in borsa. Un ricco
si infila nella cruna d’un ago
e geme, ah, che tortura, Socrate
spiega ai cercatori d’oro che cos’è
la menzogna, che cosa il bene e la virtù.
I rematori remano lenti. E lente navigano
le barche a vela. I fuggitivi dell’Insurrezione
di Varsavia bevono un tè dolce,
sui rami asciuga la biancheria,
qualcuno nel sonno chiede « dov’è
la mia patria ». Un veliero verde è fissato
a un’ancora arrugginita. Un coro di anime immortali
prova una cantata di Bach, in silenzio.
Accanto, su un angusto divano, dorme, stanco,
capitan Nemo. Un picchio trasmette un telegramma
urgente con la notizia della conquista
di Cartagine e del Boston Tea Party.
La donnola non si tramuta affatto
in lady Macbeth, nelle chiome degli alberi
non esistono rimorsi. Icaro serenamente affoga.
Dio riavvolge il nastro. Le spedizioni punitive
rientrano in caserma. Vivremo a lungo
negli intrecci di un arabesco, nel balbettio
dell’allocco, nel desiderio, nell’eco
senza casa, sotto sontuose vesti di foglie,
nelle chiome degli alberi, nell’altrui respiro.
*
La Febbre, pag 22
La Polonia, febbre riarsa
sulle labbra dell’emigrato. La Polonia,
mappa stirata dai ferri pesanti
di treni a lunga percorrenza.
Non scordare il sapore della prima fragola,
della pioggia, il profumo degli umidi tigli
a sera, registra il suono metallico
della bestemmia, annota l’odio,
il pelo raso di ciò che è straniero,
ricorda ciò che unisce, ciò che divide.
Paese di gente così innocente da non
poter essere salvata. Un agnello lodato dal leone
per buona condotta, un poeta
sempre sofferente. Paese senza aculei,
confessione senza peccati mortali. Sii solo,
ascolta il canto non battezzato
del merlo. Giunge fluttuando il profumo acerbo
della primavera, presagio crudele.
*
Nelle città straniere, pag. 101
A Zbigniew Herbert
Nelle città straniere c’è una gioia sconosciuta,
la fredda felicità di un nuovo sguardo.
Gli intonaci gialli delle case, sui quali il sole
si arrampica come un agile ragno, esistono
ma non per me. Non per me furono costruiti
il municipio, il porto, il tribunale, la prigione.
Il mare scorre per la città con una marea
salata e allaga le verande e le cantine.
Al mercato i prismi delle mele, piramidi
che svettano per l’eternità di un pomeriggio.
E pure la sofferenza non è poi così
mia: il matto locale farfuglia
in una lingua straniera, e la disperazione
di una ragazza sola in un caffè è come
il frammento di una tela in un cupo museo.
Le grandi bandiere degli alberi si agitano
al vento così come nei luoghi
a noi noti, e lo stesso piombo fu cucito
negli orli di lenzuola, di sogni,
dell’immaginazione folle e senza casa.
*
Lava, pag. 71
E se Eraclito e Parmenide
avessero ragione contemporaneamente
e due mondi esistessero affiancati
uno tranquillo, l’altro folle; una freccia
scocca immemore, e l’altra indulgente
la osserva; lo stesso flutto si frange e non si frange,
gli animali nascono e muoiono nello stesso istante,
le foglie di betulla giocano con il vento e al contempo
si struggono in una crudele fiamma rugginosa.
La lava uccide e serba, il cuore batte e viene colpito,
c’era la guerra, la guerra non c’era,
gli ebrei sono morti, vivono gli ebrei, le città bruciarono,
le città rimangono, l’amore avvizzisce, il bacio è eterno,
le ali dello sparviero devono essere brune,
tu sei sempre con me, anche se non ci siamo più,
le navi affondano, la sabbia canta e le nuvole
vagano come veli nuziali sfilacciati.
Tutto è perduto. Tanto incanto. I colli
reggono cauti lunghi stendardi boscosi,
il muschio sale sul campanile di pietra della chiesa
e con labbra minute timidamente loda il Settentrione.
Al crepuscolo i gelsomini brillano come lampade
folli stordite dalla propria luce.
Nel museo davanti a una tela scura
si stringono pupille feline. Tutto è finito.
I cavalieri galoppano su cavalli neri, il tiranno scrive
una sgrammaticata condanna a morte.
La giovinezza si dissolve nell’arco
di un giorno, i volti delle fanciulle si fanno
medaglioni, la disperazione volge in estasi
e i duri frutti delle stelle crescono nel cielo
come grappoli d’uva e la bellezza dura, tremula, immota
e Dio c’è e muore, la notte torna a noi
sul fare della sera, e l’alba è brizzolata di rugiada.
*
Prova a cantare il mondo mutilato, pag. 193
Prova a cantare il mondo mutilato.
Ricorda le lunghe giornate di giugno
e le fragole, le gocce di vino rosé.
Le ortiche che metodiche ricoprivano
le case abbandonate da chi ne fu cacciato.
Devi cantare il mondo mutilato.
Hai guardato navi e barche eleganti;
attesi da un lungo viaggio,
o soltanto da un nulla salmastro.
Hai visto i profughi andare verso il nulla,
hai sentito i carnefici cantare allegramente.
Dovresti celebrare il mondo mutilato.
Ricorda quegli attimi, quando eravate insieme
in una stanza bianca e la tenda si mosse.
Torna col pensiero al concerto, quando la musica esplose.
D’autunno raccoglievi ghiande nel parco
e le foglie volteggiavano sulle cicatrici della terra.
Canta il mondo mutilato
e la piccola penna grigia persa dal tordo,
e la luce delicata che erra, svanisce
e ritorna.
*
Mattina a Vicenza, pag. 171
In memoria di Iosif Brodskij e Krzysztof Kieslowski
Il sole era così fragile, così giovane,
che un po’ temevamo per lui; un gesto distratto
poteva scalfirlo, persino un grido – se qualcuno avesse
gridato – poteva minacciarlo; solo alle rondini in volo
dalle ali temprate, come fuse in uno stampo di ghisa,
era concesso stridere forte, poiché la loro infanzia
era stata breve, colma d’affanno, in nidi d’argilla,
insieme ai fratelli, minuscoli, folli pianeti,
neri come more silvestri.
Nel piccolo caffè un cameriere assonnato – sotto i suoi occhi
confluivano le ultime ombre della notte – cercava spiccioli
in una tasca fonda, e il caffè profumava solenne
d’inchiostro di stampa, di dolcezza, d’Arabia. Nel cielo turchino
la promessa di un lungo meriggio, di un giorno infinito.
Ti guardavo come se fosse la prima volta.
Persino le colonne del Palladio
parevano sorte in quell’istante, emerse dalle onde dell’alba
come Venere, la tua sorella maggiore.
Iniziare di nuovo, contare le perdite, contare i caduti,
iniziare un nuovo giorno, anche se non ci siete più, tu,
che due volte abbiamo seppellito e pianto
– hai vissuto due volte più degli altri, in due continenti,
in due lingue, nella realtà e nella fantasia –, e tu, dal viso affilato,
e dallo sguardo che ingrandiva oggetti e cuori (sempre troppo minuscoli).
Non ci siete e per questo noi ora condurremo una duplice vita,
nella luce come nell’ombra, nell’abbagliante sole del giorno
e nel freddo dei corridoi di pietra, nel lutto e nella gioia.
*
Vedere, pag 178
Mia città muta, città ambrata e d’oro,
sepolta in forre dove i lupi correvano
in silenzio lungo un freddo meridiano;
se ti dovessi raccontare, città
assopita sotto un cumulo di foglie morte,
se dovessi descrivere la pelle dell’oceano
su cui le navi tracciano lunghe scie di versi luminosi
e gli yacht come pavoni ostentano le loro alte vele,
e il Mediterraneo, assorto in un rapimento salino,
e le città dalle torri aguzze che brillano
nel sole intenso del mattino,
e la forza selvaggia degli aerei che forano le nubi,
l’eterno disprezzo dei burocrati per noi, gente comune,
le viuzze dell’Umbria, cisterna
in cui è fermo il vecchio tempo che sa di vino dolce,
e una certa collina dove cresce
l’albero più quieto;
Parigi grigia, attraversata dal fiume del perdono,
Cracovia di domenica, quando persino le foglie dei castagni
paiono stirate da un ferro invisibile,
i vigneti in cui fanno incursioni l’avido autunno
e le autostrade piene di sgomento;
se dovessi descrivere la solennità della notte
in cui ciò avvenne,
e il fragore del treno che avanzava verso il nulla,
e il barbaglio della lama d’acciaio su una pista di ghiaccio improvvisata;
scrivo viaggiando – perché volevo vedere,
e non solo sapere – vedere chiaramente
incendi e scorci di quell’unico mondo,
e tu, città immobile, pietrificata,
i miei fratelli nella piatta sabbia;
su voi la terra continua a ruotare
e avanzano le legioni romane,
la volpe artica tende l’orecchio al vento
nel deserto bianco dove i suoni svaniscono.
*
Valzer, pag. 186
Sono così sgargianti i giorni, così chiari,
che la polvere bianca della disattenzione
copre persino le rare esili palme.
Le serpi scivolano silenziose nelle vigne,
ma alla sera il mare si fa cupo e i gabbiani
sospesi nell’aria si muovono appena,
punteggiatura di un più alto scritto.
Sulle tue labbra una goccia di vino.
Le montagne calcaree all’orizzonte si dissolvono
lente mentre una stella appare.
La notte, in piazza, un’orchestra di marinai
in uniformi bianche immacolate
suona un valzer di Šostakovič; piangono
i bimbi, come se intuissero
di cosa parla quella musica allegra.
Siamo stati rinchiusi nella scatola del mondo.
L’amore ci renderà liberi, il tempo ci ucciderà.
*
Nell’enciclopedia di nuovo non c’è posto per Osip Mandel’štam, pag. 17
Nell’enciclopedia di nuovo non c’è posto
per Osip Mandel’štam di nuovo è senza un tetto
è sempre così difficile trovare un alloggio
registrarsi a Mosca è quasi impossibile
lo chiama il Caucaso echeggia la bassa foresta
dell’Asia quei giorni non sono ancora giunti
altri raccolgono ciottoli sulle spiagge del Mar Nero
continua sempre l’iniqua istruttoria sebbene l’uniforme
mostri un taglio nuovo e un sarto sempre diverso
senza volto s’inabissi in inchini profondi
Chiudi il libro un fragore di sparo e la polvere
bianca della carta solletica il naso è sera
cade una neve latina nessuno verrà più oggi
è tempo di dormire quando busserà alla tua porta sottile
aprigli.
*
Schopenhauer piange, pag. 20
Sì, è proprio quello Schopenhauer (1788
– 1860), l’autore de il mondo come volontà
e rappresentazione , lo scopritore degli inganni
della natura e della musica delle sfere. Qualcuno poi
lo definì un educatore. Nulla è successo,
poiché nulla succede; solo un bambino,
un moccioso, che un poco somiglia
a quella donna conosciuta in gioventù –
la gioventù non esiste -, gli sorrise
e non ce n’era bisogno, certo
era un agente della natura.
Settembre, cosa indifferente,
non apre più i cuori, solo la terra
a poco a poco s’indurisce.
Torna a casa, chiude
la porta a chiave, per nascondersi al servente. Come
gira bene la serratura, prende parte al complotto
senza dubbio. Piange. Il corpo minuto del grande
filosofo, il settimo continente, trema.
Il suo panciotto, il colletto inamidato.
Le guance gialle. La redingote marrone.
Tremano queste cose superflue,
come se già cadessero le bombe
su Francoforte. Trema la sua solitudine, spessa,
sottile come una tela olandese.
***
Ciò che, pag. 65
Ciò che pesa troppo
e trascina in basso
che fa male come il dolore
e brucia come uno schiaffo,
può essere pietra
o àncora.
***