Una vivida tarsia della mitografia omerica anima “Verso Itaca” (edizioni d’if, 2015) romanzo in versi – come recita il sottotitolo – di Daniele Ventre, che nasce come libro per ragazzi, richiamando pomeriggi estivi quando nella altrui siesta familiare si sfogliavano le mille e una storia dei dizionari dei miti, incontrando in maniera fiabesca e incruenta i temi dell’incesto, dell’infanticidio, delle mutazioni genetiche, dei tradimenti e soprattutto della causalità ferrea di Ananke, la Necessità, che anche in questo romanzo in esametri riveste il ruolo di dea ex machina.
Le solide competenze professionali dell’autore, noto traduttore di Omero e non solo, gli consentono di inanellare in una struttura di nove “rapsodie” – ognuna preceduta da una titolazione non priva di rimandi ironici (cfr ad esempio nella Terza rapsodia : Telègono, il figlio di Circe, incontra la Sibilla e ne riceve più responsi e profezie di quante ne vorrebbe…) – gran parte dei miti e dell’epica greca; da Caos a Terra, dai Centimani a Prometeo, passando per Edipo, Teseo, Medea, la Sibilla Cumana, Aiace, Diomede e altri ancora, si susseguono con un ritmo ed una leggibilità invidiabile le “gesta” e le cicliche narrazioni di vita-morte all’origine della cultura occidentale. Filo conduttore è la riscrittura delle vicende della “Telegonia”, poema conclusivo del cosiddetto ciclo troiano, che narra il viaggio intrapreso da Telegono, figlio di Circe e Odisseo, alla ricerca del padre, in un controcanto della ricerca a suo tempo svolta dal fratellastro. E tuttavia più che il tema del padre – tornato in auge con il recente rispolvero del complesso di Telemaco – le rotte di Telegono, che tocca i principali approdi dell’Odissea, sono all’insegna delle “grandi madri”.
Tutte le donne di Odisseo, da Pallade a Circe, da Deifobe a Calypso a Nausicaa, da Penelope a Callidice, la regina guerriera che muore al suo fianco in battaglia, convergono nel libro ad aver cura del padre e del figlio delineando un’epica al femminile che ha nel “tessere” la sua azione precipua, dalle molteplici valenze. Da un lato la tela raffigura iconicamente nella propria trama le avventure eroiche per tramandarle, appunto, memoria che dal passato si proietta a costruire e custodire il futuro, non a caso azione tipica anche dei rapsodi, i “cucitori di canti”. In effetti, proprio nella figura di Demodoco, alter ego di tutti gli Omero (Sì, noi cantori ci chiamano Omero, o Demòdoco a volte,/e non abbiamo più nome e dimentichiamo anche il nome:/tutti ci chiamano Omero e non siamo più che Memoria/siamo l’Omero ciascuno di noi, siamo noi tutti insieme,/uno, talvolta, più d’altri, e non siamo più che parole.) viene riassunta un’idea di poetica (non troverai molto altro: memorie, al principio e alla fine) che nel custodire e trasmettere – oltre che nell’intrattenere – trova la sua ragione profonda, ancora strettamente intrecciata a una funzione “sociale” come sempre accade nelle culture orali. D’altro canto, questo tessere è anche un progettare gli eventi e se l’artefice massimo rimane la Moira, cui tutte a partire da Pallade Atena – la dea animosa, occhi – lucenti – cedono, il clinamen viene man mano disegnato e addolcito dalle donne, sino a giungere addirittura a una completa riapertura, e ripetizione, del gioco da parte dell’incantatrice per eccellenza, Circe, con un finale a sorpresa che delinea una struttura ad anello del canto, quasi un allegorema teoretico del meccanismo narrativo, inesausto crogiuolo di “storie”, dove tutto si riproduce e si perpetua, ben sapendo, peraltro, come recita l’esergo del libro, che nessuno approda a Itaca senza dolore.
L’uso, ormai affinato da Ventre nelle sue traduzioni isometriche, di una prosodia che tende a restituirci le sonorità dell’esametro “eroico” dell’epica greco-romana, contribuisce, insieme alla struttura formulare e ricorsiva tipica di ogni narrazione della cultura orale (dai poemi greci all’epica vedica, dalle saghe norrene alle fiabe europee e non), a una vivace scorrevolezza formale che incastona e armonizza l’ampio e variegato materiale mitologico. Nata che sia da motivi archetipici, da esigenze di esorcismo del caos, da tentativi di comprendere, sacralizzandolo, l’ignoto o dalla pura gioia del narrare, la “parola” che è il mito continua evidentemente a parlarci, persino negli impianti dei videogiochi o nel successo dei fantasy, e l’attenta e ricca rivisitazione delle sue coordinate occidentali in questo libro ne custodisce, disseminandolo, il continuum, come sin dall’inizio è avvenuto e avviene (Omero. Tese le vele./Ho letto a metà il catalogo delle navi:/ Quella fila di gru, lunga implume linea che si distese/ E si alzò una volta sull’Ellade, in volo … Osip Mandel’štam )
testi
dalla Prima rapsodia:
E le rispose così Telègono simile a un dio:
“E tuttavia tu continui a nascondermi nostro padre.
Già, ne conservi il ricordo da sempre e ne sembri gelosa
o ne hai paura e vorresti evitarci angosce e dolori.
Dimmi: qual è la sua terra? Dove ha i genitori e la casa?
Come si chiama? È famoso fra gli uomini? Forse è un eroe?
O non sarà che un amore meschino –e ne hai forse vergogna?
Questo però non lo credo davvero o la dea che t’è apparsa
non mi imporrebbe di andare a cercarlo in terre lontane.
Parlami, di’ che segreto nascondi e non chiuderlo in cuore.
Sin dall’inizio, da quando ho acquistato senno e ragione
io me lo chiedo, chi sono. Alle volte guardo il mio viso
che si riflette nell’onda del mare o nel lago tranquillo
d’una sorgente e non vedo che un essere nudo di nome”.
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dalla Terza rapsodia:
Ma gli rispose adirata, lo rimproverò la sibilla:
“Giovane sciocco: sèi figlio di dea ma il tuo animo è vile:
tu non conosci te stesso e nemmeno sai quel che cerchi.
Circe non te lo insegnò che il tuo ieri è seme dell’oggi
e del domani? Non sai che il futuro abbraccia il passato?
Come lo scorrere eterno dell’onda a una riva di ghiaia,
passano gli uomini. Ogni onda è diversa eppure è la stessa:
tutte hanno voce e ogni voce è uguale e però differente:
portano tutte una dea, le conosci l’una dall’altra:
tutte hanno parte nel mare e così la Moira le intreccia
fino a che giungono a riva, la sabbia assetata le uccide
e non lo sai se il destino per necessità le conduca
o le governi improvviso l’impulso e una libera scelta:
se la corrente la formino o se la corrente le forzi.
Gli uomini sono così: ma tu non conosci te stesso.
Sempre ti portano un’onda e una dea: sèi legno leggero”.
dalla Quinta rapsodia:
Loro, non altri, insegnarono un giorno a Demòdoco il canto.
Io pascolavo gli agnelli vicino a una rupe di monte.
Ecco che a un tratto nel sole mi apparvero loro, le dee
Figlie di Zeus il Tonante, le splendide Muse d’Olimpo.
Le partorì la Memoria, che Zeus possedé nove notti.
Loro mi vennero incontro toccandomi gli occhi e la mente
e mi parlarono, loro, che sanno intrecciare parole:
“Povera gente, non altro che stomaci, stanchi pastori:
noi ne sappiamo bugie che sembrano simili al vero,
ma se vogliamo, anche il vero sappiamo intrecciare nei canti”.
Questo mi dissero allora, toccandomi gli occhi e la mente:
ogni parola che udivo era quercia e solida roccia:
persi la vista degli occhi, però il mio pensiero vedeva.
Mi rivelarono loro ogni cosa: quello che è stato,
quel che sarà. La mia mente si perse in quel vortice eterno.
Vidi il principio di tutto, il Caos, la voragine antica…”
gorgo infinito di buio in cui era tutto confuso.