E’ il 27 gennaio e, ormai da undici anni, ogni ventisette di gennaio si torna a parlare e polemizzare sull’utilità di celebrare la memoria dell’Olocausto e la liberazione del Campo di concentramento e sterminio di Auschvitz, avvenuto nel corso de La Grande Offensiva dell’Armata Rossa, il 27 gennaio del 1945. La settimana del 27 gennaio anno dopo anno va perdendo di vista il suo obiettivo principale, saturando l’informazione con discussioni sterili, o peggio pavoneggianti, sulla retorica della memoria, sull’inutilità dell’istituzione di una data in cui celebrare una memoria tanto scomoda da meritare l’etichetta dell’ipocrisia, del fastidio, della noia, del trito e ritrito talmente ripetuto e celebrato da causare irritata indifferenza, un distacco emotivo assuefatto e malato che non si ferma al passato, ma si protrae ed estende al presente, al punto di “banalizzare il male” come qualcosa che comunque non ci appartiene se non come spettatori inermi, indispettiti, disturbati. Consumiamo quotidianamente i nostri pasti principali adattandoci al fastidio del solito ronzio dei telegiornali principali che monotonamente raccontano storie di popoli, intere etnie, costrette ad imbarcarsi nel viaggio più lungo e difficile della loro esistenza, un viaggio fatto di vuoto, di profondità abissali, di freddo, fame e abbandono, senza certezze d’approdo, nel silenzio della sola consapevolezza che ripone nella fuga da una vita fatta di soprusi e sterminio, l’unica e disperata scelta di libertà per smarcarsi dalla sopraffazione, dalla certezza di una morte somministrata con malvagità e violenza.
E’ vero, la memoria e le celebrazioni si muovono pestando goffamente nel campo minato della stucchevolezza, della stanchezza, della banalità. Tuttavia, proprio in virtù di questo rischio, l’Europa ha più che mai il compito di coltivare la sua peggiore memoria, facendone non un singolo momento per raccogliersi in cordoglio davanti agli errori della nostra storia, bensì un costante percorso formativo ed educativo su cui lavorare duramente, appassionatamente, per risvegliarci dall’indifferenza difensiva con cui, quali singoli soggetti viventi e apparentemente ininfluenti dinanzi agli eccidi e ai violenti cambiamenti che destabilizzano le nostre vite socialmente regolari, siamo costretti a fare i conti. Il passato, quel particolare passato non è mai stato così vicino, così tangibile e replicabile come in questo triste principio di Millennio. E’ bene che i nostri giovani studino e coltivino questa orribile memoria con la consapevolezza di quanto sia loro vicina, su loro incombente. E non credo sia il solito pessimismo da poeta invecchiata a farmi alzare il dito come monito, ma autentica paura: la dannata paura che prevalga la parte che si fa scudo della noia e della retorica stucchevole della memoria come lasciapassare al ripetersi delle cose, abbracciando un’insana e indifferente intolleranza.
le architetture dell’orrore
(Auschwitz, 2011, monologo in undici stanze)
di natàlia castaldi
(mini-silloge che esplora le stanze, i cubi, in cui si muovono le esistenze. Da sempre l’uomo ha cercato riparo costruendo intorno a sé i suoi spazi, talvolta semplici, altre grandiosi. Espressione del suo potere, del suo status sociale, delle sue credenze religiose o manifesto della sua propaganda politica, l’estetica di questo processo architettonico si è evoluto fino a divenire emblema e prigione stessa dello spazio umano, della sua ambizione e tensione verso l’esterno, l’eterno, l’interno immanente, l’assoluto. Lo spazio come architettura, quindi come progettualità, ha fallito nell’assolvere al suo primario compito di proteggere, custodire, sostituendo al senso protettivo del contenimento quello limitativo della reclusione: il soffocamento dell’ambiente e del respiro si inginocchia dinanzi alle necessità del paesaggio urbano, cui fa da sfondo la presenza impassibile ed assente degli oggetti, che hanno il privilegio di contenerci, ed in qualche misura di gestirci fino a sopravviverci, immobili.
Le stanze di questo lavoro sono un monumento all’abominio di cui è capace l’ingegno umano, raccogliendo in sé il cordoglio e il respiro della storia.)
Premessa per entrare nelle stanze dell’orrore
La delicatezza deve possedere la volontà di un gesto deciso
È un bilico continuo reggere il confronto
tra apparenze e distanze che il verbo deve assoggettare
all’attimo che precede ogni dire
L’intuizione
che niente si spegne con la fine.
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I.
l’odore degli oggetti, il letto, la parete
lo scheletro delle parole dentro il taglio netto della continuazione
ferita o congiunzione retta tra muro e muro
tra dentro e dentro e ancora più dentro
e ancora più vuoto
II.
per contare i giorni
da questo niente alla fine
incrociamo un passo, un altro
poi un respiro
si sentono parlare le pietre
il sangue [ ricordi il nostro sudore?
quello di ieri
quello che avevi
III.
ci siamo messi in processione
senza parole per pregare
la luce era un’ombra leggera
nascondeva le paure
si sentivano le caviglie
i polsi chiacchierare
un fruscio mesto
come un addio
un silenzio infame
IV.
[i letti a castello per i bambini
sono montagne troppo alte da scalare:
quanti sogni potranno ancora
le stelle
quanti giorni ancora
di neve
– fa freddo –
la puzza è un profumo
da annusare fintanto che siamo]
V.
una ninnananna ancora
una litania, quasi un singhiozzo
“Un coniglio parigino aveva un parasole
Portava rose e viole
Un coniglio parigino ieri l’altro l’han mangiato
Com’è buono, com’è buono lo stufato”
si addormenta
tengo il tempo del respiro
domani è l’alba di ieri
i giorni ci accartocciano ai muri
i piedi sono freddi
il pavimento non ha colore.
VI.
quanti morti ancora dovremo contare
la tacca sul muro dice: è aprile ||||
domani maggio se si potrà arrivare
forse qualche fiore, un filo d’erba:
cerco papaveri con gli occhi
per sperare
VII.
Le stanze hanno una loro naturale esistenza
le puoi riempire e vuotare
le puoi ruotare, camminare ossessivamente
tracciando diagonali nel sonno delle vite ai suoi estremi
Le puoi violare le stanze
le puoi m a l e d i r e
ma hanno una loro naturale esistenza
che contiene e va oltre noi.
VIII.
La vecchia ripete il movimento del corpo
come un pendolo che va al contrario.
Detesto osservarla scandirmi il tempo
col viso scarno di chi non dà tregua
alla speranza.
IX.
Ora mi sento in colpa per averla odiata
ho sperato che fosse proprio lei
la prima.
È stata la terza in successione.
Quando l’ho vista incamminarsi
ho sentito sporche le mie mani
come i pensieri
che qui si mischiano ai rimorsi
di chi nel dolore sa trovare lo spazio vitale
per sferrare il colpo e farsi attore
di una scorciatoia tra bene e male,
come se tutto qui fosse normale
accettando le cose nel loro rituale orrore
segnato dalle dita secche di pelle e i ricordi
di una bellezza che era concessione scontata
ai colori dell’incarnato
che si spegne
nel terzo numero in successione
che mi porta via con sé
nell’attesa di un pendolo che all’incontrario
segni il tempo della fine.
X.
ogni addio necessita un taglio netto
un’incisione acuta
la traduzione di uno stato d’ansia
che s’arrota le lame in silenzio
XI.
non importa dove siamo ma la meta
tu cura il traguardo, l’ombra viva
del pensiero, perché sia memoria.
L’ha ribloggato su natalia castaldi [exilio y desnacimiento].