Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 18) The Collectors

The Collectors

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Da bambino la cosa più straordinaria fu imbattersi in un’antologia. E che antologia: misi accidentalmente su la doppia rossa beatlesiana: un pezzo tirò l’altro senza che il tempo ne fosse minimamente scalfito. Tecnicamente concepita per non concedere alcun calo di meraviglia, m’impaniò irreversibilmente le froge cerebrali e fece di me l’essere totalmente ineffettuale che potete subodorare da queste farfuglianti note. Compresi che la musica poteva essere un’esperienza totale; intesi che aveva a che vedere con gli dèi che –pure- in seguito compresi non esistevano. Ciò non ha molto senso, ne convengo, ma è oltremodo preciso. A ripensarci, però, con i Beatles –ad eccezione dello scialbo “Let it be”- si sarebbe potuti andare anche di notte e l’effetto sarebbe stato lo stesso. Come l’aspirante autobiografo Antoine Doinel accendeva ceri a Balzac, noi scribacchini musicali l’accendiamo ai quattro liverpooliani.

Ma come giudicare una band che produce due lp che –per un verso o per un altro- risultano ampiamente imperfetti all’ascolto e che invece sforbiciando un po’ qui e un po’ lì e aggiungendo qualche singolo riempiono un’antologia da quasi favola?

È capitato ai canadesi (di Vancouver) Collectors, ottimi musicisti per carità, ma sufficientemente impegnati con un’emittente televisiva (con il moniker “CFUN Classics”, capite?) -di cui fecero la band d’intrattenimento- per essere credibili. Fu nel 1966 che si svincolarono inseguendo il legittimo anelito alla personalità, pur all’interno del funesto acronimo MOR (laddove creativamente stiamo in mezzo a una strada), ribattezzandosi The Collectors. Eppure… c’è un eppure che salva. I Collectors amavano gigioneggiare, amavano la densità gargantuelica dell’arrangiamento “grasso” e caciaravano ch’era un piacere.

In questa follia v’era un metodo che pian piano scagliò illuminazione pubblica sui dintorni. Provate a sentire uno dei loro primi singoli qui incluso: “Fat Bird”: su un violino psicotico s’innesta un bordone di marranzano al confine con un djdgeridoo ma soprattutto una linea vocale gradassamente caricaturale. La melodia traballa e ballonzola, le variazioni aggiungono trippa e tutto insieme torna su sé lasciando la sensazione di qualcosa di perfetto che si sia appena consumato. Wow. Stesso discorso per “Looking at a baby” (altro singolo): le vocine lallanti qui provengono dalla coscienza e si spandono grottesche inseguendo due grosse farfalle guidate dal flauto di pan. Potrebbero essere i Collectors la versione goliardica dei Beatles di “Rubber Soul”? Sì, perdinci! O dei Left Banke meno sussiegosi? Ancora meglio! Prendiamo “Lydia Purple” (dal primo omonimo lp del 1967): siamo a metà tra i migliori Simon e Garfunkel e il Baroque pop (mettiamo -per farla facile- dei Baroque) e io, se fossi in voi, non ci sputerei.
Sul secondo lato dell’LP (perché la presente selezione non esiste in cd, diversamente dai due dischi ufficiali) s’affolla uno spaccato del secondo (e migliore) album (“Grass & Wild Strawberries”, 1968). Vi cito –a titolo d’esempio- il pezzo che dà il titolo alla nostra Hidden Gem, “Seventeeth Summer”, a metà tra un muezzin e George Harrison flippato con l’India e quello successivo, “Teletype Click”, una sorta di borborigmo intestinale d’umore psichedelico, trascinato come la colonna sonora d’una digestione difficile. Sorprendenti. Notevolissimi. Favolosi & Sporadici: i collezionisti.

Alessandro Calzavara


In copertina: Seventeeth Summer (front cover, The Collectors, 1968).

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