Una volta non era così. Ai miei tempi le cose andavano diversamente. Quante volte abbiamo sentito pronunciare non solo dai nonni e dalle nonne, ma anche dai papà e dalle mamme, queste frasi nostalgiche, che idealizzano un tempo che non c’è più? (Già Woody Allen nel delizioso Midnight in Paris ironizzava su queste facili regressioni, mettendone in luce tutta l’inconsistenza). A quanto pare i conflitti familiari sono sempre esistiti e i figli hanno sempre amato-odiato coloro che li han messi al mondo, se è vero che anche nella Grecia antica esistevano problemi di questa sorta, così come ha messo in luce Eva Cantarella nel suo ultimo saggio dedicato proprio a questo tema, intitolato Non sei più mio padre. Il conflitto tra genitori e figli nel mondo antico (Feltrinelli, 160 pagine, 14 euro). Pagine in cui immergersi per avvicinarsi alla cultura antica, rileggerne alcuni fra i passaggi più importanti e riflettere su quanto ci accomuni ancora a quel modo di intendere i rapporti, pur nelle enormi differenze.
(A cura di Laura Di Corcia)
L’Antichità classica è sempre stata saccheggiata al fine di trovare archetipi in grado di illuminare le costanti relazionali fra genitori e figli. Trova corrette tali interpretazioni?
La psicanalisi ha un approccio che per uno storico è totalmente incomprensibile e utilizza le fonti in modo del tutto atemporale, come se i miti fossero qualcosa al di fuori del tempo e dello spazio. Gli archetipi, secondo questa concezione, varrebbero ovunque e in qualunque momento della storia. Secondo la mia prospettiva, che è quella dello storico, il mito non deve essere sottratto alla storia. Recentemente, per esempio, si è insistito molto sul personaggio di Telemaco, proposto come nuovo modello di figlio (dal premier italiano Matteo Renzi, che ha parlato di “generazione Telemaco” riferendosi ai giovani d’oggi e rifacendosi ad un saggio di Massimo Recalcati, ndr): ebbene, analizzando il testo Telemaco è un personaggio inesistente e insulso, un po’ inetto. I miti nascono in una certa società, in un certo mondo: per capire quello che significano, bisogna conoscere quella società, leggere le fonti e contestualizzare quelle storie. Occorre studiare la storia della famiglia e capire dove nascessero i problemi, che cosa generasse la conflittualità.
Come cambiano questi rapporti nel corso dei secoli?
Nel mio libro parto da Omero. Lì ci sono figli molto obbedienti e i rapporti con i loro padri sembrano quasi perfetti. Potremmo dedurne che a quei tempi si andasse d’amore e d’accordo, ma non è così: sappiamo che la poesia di Omero è il frutto di una tradizione orale che precedeva la scrittura. Ebbene, queste storie venivano raccontare per educare, per insegnare dei modelli ideali di comportamento. Nel modello ideale non c’è conflitto, ma obbedienza assoluta. Passando all’epoca successiva, dove le fonti sono diverse, magicamente appaiono anche i conflitti fra padri e figli.
Causati da?
Soprattutto dall’organizzazione economica delle famiglie. Il capo-famiglia era il titolare del patrimonio familiare che si trasmetteva ai discendenti solo dopo la sua morte, che poteva avvenire anche quando i figli avevano raggiunto da un pezzo l’età adulta. Questo creava una dipendenza economica dei padri nei confronti dei figli che nel mio libro ho cercato di mettere in evidenza. I figli, che erano cresciuti e che magari avevano un proprio spazio nella scena pubblica, come magistrati per esempio, non ereditavano fino a quando il padre non moriva. La società greca, che stava diventando sempre più democratica e quindi apriva le porte più facilmente alle nuove generazioni anche da un punto di vista politico, supponeva però una dipendenza economica dei figli verso i padri sempre più difficile da sopportare e digerire.
Quindi nel mondo greco la ribellione scattava non durante la fase adolescenziale, ma più tardi, una volta raggiunta l’adultità.
Per quello che possiamo saperne sì, certamente. I padri, ad ogni modo, cercavano di evitare questa conflittualità, trasferendo parte del patrimonio ai figli.
E le figlie?
Nel libro non ne parlo perché nel mondo greco le donne non contano, non esistono, non appaiono. Che conflitto ci può essere? Il padre decideva sempre per la figlia, la quale non diventava indipendente da un punto di vista economico. Come poteva ribellarsi al padre e alla madre? Rifiutandosi di sposare l’uomo che le avevano imposto. Ebbene, questo non accade mai nel mondo greco, a parte qualche caso leggendario.
Oggi come oggi i punti di riferimento per chi decida di ribellarsi all’auctoritas sono le star del rock. Un tempo quali modelli esistevano?
Il tipico giovane uomo ribelle è Alcibiade. Era l’idolo della gioventù o di una sua parte, ma era guardato con sospetto dagli anziani, perché nei confronti del suo tutore, Pericle, che aveva la stessa funzione di un padre, era tutto quello che un figlio non sarebbe dovuto essere.
Un commento su Medea, colei che per vendetta nei confronti del suo uomo uccide i suoi stessi figli; una figura sulla quale si sono stratificate diverse interpretazioni.
Serve una premessa: le tragedie che andavano in scena ad Atene potevano affrontare problemi generali, ma non dovevano toccare problemi di attualità e non ci dovevano essere riferimenti a specifici eventi storici. Tornando a Medea, nelle versioni precedenti a Euripide non è lei a uccidere i figli, ma le donne di Corinto. È stato appunto Euripide a introdurre questo elemento nell’anno in cui scoppia la guerra del Peloponneso. Euripide era un uomo più illuminato degli altri Greci, un uomo aperto: quando scoppia il conflitto, si rende immediatamente conto che la guerra miete vittime anche al di là della contingenza della battaglia, che sono vittime anche coloro che sono costretti ad abbandonare la patria, a raggiungere nuove terre. Medea è questa figura, è un’esule, una che continua a spostarsi da un posto all’altro ed è vista sempre con sospetto, non viene mai accolta. Quando anche il suo uomo le volta le spalle, uccide i figli. Una delle interpretazioni recenti della storia di Medea (che mi trova d’accordo) è questa: Euripide voleva ammonire i suoi concittadini sulle degenerazioni cui può andare incontro una persona non accolta, in pericolo e senza punti di riferimento.
Che insegnamenti possiamo trarre leggendo i miti e le tragedie dell’Antichità classica?
Prima di tutto un grande godimento, perché sono bellissimi. L’insegnamento che ne traiamo dipende dalla nostra lettura, ma sicuramente impariamo a ragionare e a capire come le cose nel tempo cambiano, anche se alcune dinamiche rimangono sempre le stesse.
(Questa intervista è stata pubblicata su “Azione”, settimanale della Svizzera italiana).
In copertina: Eva Cantarella.
Intervista molto interessante, che fa venire voglia di leggere il saggio!
Ma il mito E’ la storia! Questo si sa molto bene. E’ vero che il linguaggio del mito è un linguaggio di archetipi, ma ciò non toglie che alla base di ogni mito ci siano avvenimenti storici, tramandati oralmente, magari anche per millenni, col linguaggio della poesia, per fissarne il ricordo nel tempo dell’assoluto.
Non è nemmeno vero che nella narrazione mitica non ci sia conflitto. Anzi! Basta pensare a Edipo. O allo stesso Achille! Centro del mito è sempre la ribellione dell’eroe, il suo infrangere dei tabù. Il Cuchulainn del ciclo dell’Ulster ne è un esempio eclatante.
La Grecia di Omero è quella di una società aristocratica e cavalleresca, analoga a quella dell’Europa medievale. I rapporti sono regolati dalla legge dell’onore e del valore ed è importante il legame di sangue, la tradizione di nobiltà e di valori di cui si è portatori. Ribellarsi a questa significherebbe negare la propria identità. Che senso avrebbe avuto? Non è certo una questione di obbedienza cieca ai padri, ma di trasmissione di una tradizione.
Giudicare quel tipo di società in base a strumenti e idee contemporanei porta appunto a questo tipo di fraintendimenti di cui la Cantarella dà qui dimostrazione.
Altra cosa poco precisa: le tragedie di Euripide avevano eccome dei riferimenti attuali. Quanta parte abbia avuto la Guerra del Peloponneso nel suo teatro mi pare nota. E I Persiani di Eschilo?
E’ invece vero che fu Euripide a “inventare” una Fedra assassina dei figli come rivalsa sul compagno fedifrago. (E questo la dice lunga sulla visione che ne ha Euripide ) Buona parte della tradizione precedente invece dipinge una figura tragica e infelice, i cui figli sono stati lapidati dagli abitanti di Corinto sull’altare di Hera, dunque azione doppiamente sacrilega, tanto che a Corinto era storicamente accertato un culto dei figli di Medea all’interno del tempio di Hera come espiazione del terribile delitto di cui si era macchiata la città.
Nella stessa Medea di Euripide ci sono alcune contraddizioni, come quella in cui Medea annuncia riti di espiazione dei Corinzi per l’uccisione dei piccoli. Cosa che stride con la versione euripidea del mito. In realtà l’interpretazione che si dovrebbe dare è che Medea è una donna che proviene da una terra di “barbari”, una maga potente, che ricorda la figura della Dea Madre pregreca, il cui culto fu soffocato ma non annientato dagli invasori indoeuropei, guerrieri e appartenenti a una società patriarcale.
La società greca nutre un rifiuto nei confronti di elementi arcaici e barbarici, anche se in realtà li ingloba e li trasforma. Vedi appunto il culto tributato ai figli di Medea e al sussistere del mito.
Ma comunque troppo ci sarebbe da dire.
Diciamo che trovo l’analisi di Cantarella un po’ limitata.