Di Alfredo Nicotra Un linguaggio metaforico, denso e straripante è quello che gronda dai testi raccolti nella plaquette di Anna Laura Longo, Questo è il mese dei radiosi incarnati del suolo (Oèdipus, 2016). Prestandovi ascolto e lasciandosi incantare dalla partitura musicale di un senso naufragato, mai definitivo e raggiunto, inseguito quanto inevitabilmente sfuggente, il lettore rimane come contagiato da questa musicalità imperfetta, e indotto al contempo a rinsaldare con l’autrice un patto di credulità e di sospensione del dubbio. Sono infatti versi compiacentemente enigmatici, criptici, franti in semi e simboli che si rincorrono da un luogo all’altro della raccolta lungo un movimento sinuoso che mima la mutevolezza dell’acqua.
Eppure risiede in una volontà di costante “antropomorfizzazione” dello spazio e dei luoghi vicini al vissuto quotidiano dell’autrice il carattere specifico della sua poesia. Secondo una commistione e una metamorfosi sublime dell’uomo in paesaggio e viceversa: “Nottetempo il viale appare ossuto,/ sottilmente ricoperto di rame./ Le limitazioni – scarne –/ si distanzieranno dal bollente sfondo indifferenziato,/ mentre gli occhi aguzzi,/ come increduli sobborghi vivi,/ troveranno un posto/ sul profilo di un uomo.”
Ci si trova così immersi in un territorio di corrusche epifanie, tra lampi di immagini e illuminazioni vagamente rimbaudiane che si fanno stigma di una voce personale e originale. “Eri austero nei ringraziamenti/ – sfavillanti come criniere –/ ma di certo l’occhio resta raggiante/ catturato da ogni nuovo fulcro./ Si apre un varco smaniante:/ ha l’intensità di un’immagine.” I versi atonali e liberi da ogni parallelismo fonico-sintattico trovano infatti nella sospensione del senso e nella indeterminatezza dei referenti il loro specifico poetico.
Ed è da una posizione di regressione adamitica che l’autrice scrive, lavorando con cura sulla capacità estetizzante della parola trasformata in idioletto e insistendo sulla necessità quasi pulsionale di una “rinominazione” del mondo attraverso il verbo, al fine di ritagliare uno spazio per il proprio io scisso. Sempre alla presenza di una stupefazione costante davanti all’essere, come innanzi a una fitta trama di prodigi (“Riassorbibile è il Tempo,/ abilmente arato per un prodigio”).
Lo straniamento allora non può che manifestarsi attraverso le due dimensioni scarne ed essenziali del tempo e dello spazio, qui incarnato dai volti. Continuamente evocati e allo stesso tempo aboliti al fine di sopraggiungere a una dimensione panica e vitale dell’esistenza, sorretta solo dalla consistenza dei suoni, scavata da una lingua stetoscopio che ne vuole illuminare l’oscurità attraverso la propria indicibilità, fissandola in versi simili a “ombre araldiche”.
“Come torrenti i volti avanzano,/ con quantitativi di ombre araldiche o mute./ Nell’eterogeneità delle lotte ogni sguardo è cambiato,/ ogni passo è nudo ed affusolato nel mare./ Un prolungamento del suono sfiora il collo adunco,/ confluendo in un cardigan,/ ricercando luoghi di acerbo e vivo ristoro./ Come torrenti i volti inarcano il mondo/ sinuosamente.”
In questa continua stupefazione il tempo non può che manifestarsi come immutabile, una voragine da cui giunge sincronicamente tutta la verticalità semantica e l’abisso delle parole. Ma è da questi naufragi che si depositano a volte sulla riva i frammenti di tesori sconosciuti: “I temporali si sono abbattuti/ come folle issate su una schiena arguta,/ affettuosamente amata./ Non hanno indicato luoghi o radure.”
Anna Laura Longo, Questo è il mese dei radiosi incarnati del suolo,
postfazione di Cesare Milanese,
pp. 48, € 10,00,
Oèdipus, Salerno/Milano 2016