Lo sguardo stupito del primo uomo sul mondo è probabilmente una pura finzione letteraria. Serve a rimarcare -col sadismo aggiunto dell’immagine- che all’uomo non è data alcuna emozione genuina e perdurante; ché, nel momento stesso in cui è espressa, essa è già in fase di regressione: l’inquieto sorvegliare e punire della ragione non lascerà alcunché esser privo di funzione.
Quando ci capita, quasi per una distrazione della mente conscia, di trovarci sopraffatti dalla puntura di spillo di un’emozione imprevista, è come se accorressimo velocemente per tirar via lo spillo dichiarando insopportabile quell’estasi. Sfortunatamente ciò avviene che lo si desideri oppure meno: la possibilità stessa di un’emozione perdurante sarebbe la fine della vita sociale. Oltre il suo confine ipotizzabile, niente di meno disdicevole che una “morte per felicità”. Come un orgasmo che c’inchiodasse vitanaturaldurante a colui/colei che ce lo ha propiziato e rendesse futile tutto ciò che a esso non fosse riconducibile. La natura, purtroppo, è sparagnina: suggerisce per accenni, illumina per scintille, dona misere mance a chi umilmente serve sulla via della Bellezza.
Ma che alla Bellezza servano necessariamente abiti sfarzosi è ugualmente una pigrizia immaginale. Si potrebbe però provare a ipotizzare cosa distingua una bellezza incapace di darsi nudamente e un’altra incapace di farlo carica di orpelli. È cosa nota che il femmineo make up ben celi abitualmente un’insufficienza di auto-apprezzamento di base o che, addirittura, una donna che non sia stereotipicamente ossessionata dalla pittura facciale sia detta spregevolmente sciatta. Gli esseri umani preferiscono a volte ignorare i motivi reali del proprio apprezzamento per consegnarsi a un’approvazione che giochi con i propri elementi strutturali come costruendo castelli sulla sabbia: il corpo che giace sotto il trucco è solo uno degli elementi dello spettacolo di conferma psichica di ciò che piace. E tanto basta.
Se un viso è già rimarchevole (e la rimarchevolezza stia anche e soprattutto nel modo in cui s’indossino le proprie peculiari imperfezioni) il trucco gli sottrae unicità (l’insopportabile unicità del non previsto) per conferirgli canone. Chi stia sotto il canone non potrà che aspirarvi ma, al contrario, colui/colei la cui fierezza non tradisce insicurezze, dovrà rifuggire l’insieme articolato di strumentalità finalizzate a sottrarre una bellezza a se stessa e consegnarla all’anestesia del sopportabile.
A tal proposito mi sembra paradigmatica la breve storia discografica di Plush, sotto il cui moniker si nasconde il musicista/arrangiatore chicagoense Liam Hayes: due album, entrambi molto belli, situati agli antipodi della scala Mercalli del suono. Tanto “More you becomes you” (1998, di cui qui accenneremo) è ridotto all’osso (pianoforte, voce e di rado qualche fiato) tanto “Fed” (2002) ostenta compiaciuto i suoi scintillii arrangiamentali, e lo fa in modo che neppure il più piccolo dettaglio possa passare in cavalleria. Due scelte dettate dalla qualità del materiale a disposizione: granitico e autosussistente il primo, fessurato e assorbente il secondo. Tra i due, “More you becomes you” mi sembra quello destinato ad aver più facilmente riconosciuto il permesso di soggiorno nella memorabilità; la sua formula eccentrica, che tende a riprodurre con dovizia di disinvoltura un’esecuzione casalinga – con tanto di piccoli commenti fuori campo, stonature, risate – si regge in piedi autarchicamente in forza d’un songwriting capace di comprimere un maximum di pathos alcoolico in un minimum armonico d’accordi di piano pesantissimi. Ne emerge una sorta di quieta disperazione, una secondarietà accettata e sublimata che subito bendispone all’ascolto e ci guida lungo un percorso di autodissoluzione controllata, quasi una disintegrazione basinskiana applicata alle rassicurazioni melodiche di Burt Bacarach.
Un disco essenziale, nella duplice accezione in cui tale termine si usa nelle recensioni musicali.
Alessandro Calzavara
In copertina: “More you becomes you” (front cover, Plush, 1998)