Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel secondo anno di attività. Alfredo Nicotra riflette sull’opera di Amelia Rosselli (pubblicato l’11 febbraio 2015).
di Alfredo Nicotra
Amelia Rosselli, L’opera poetica, a cura di Stefano Giovannuzzi, con un saggio introduttivo di , pp. CL-1609, € 65,00, I Meridiani, Mondadori, Milano 2012.
“Amelia Rosselli ha soprattutto scrittura.
Ha soprattutto fascino”.
Con queste parole Giovanni Giudici si congedava dai lettori della sua Introduzione a Impromptu, il poema pubblicato nel 1981 da Rosselli, per fare spazio a quella voce incantatrice, riassumendone con un giudizio netto e folgorante l’intera carriera e il percorso della sua produzione poetica.
Eppure quella di Rosselli rimane a tutt’oggi una voce inascoltata, “straniera” per la maggior parte dei lettori di poesia; esperita soprattutto da una cerchia di appassionati e da un pubblico di specialisti e di addetti ai lavori.
Per quanto sia ingeneroso, gli ostacoli alla sua ricezione non possono sorprendere. L’autrice rappresenta un unicum all’interno del panorama già eccentrico e rizomatico della poesia italiana del Novecento, “di difficile sistemazione”.
Soprattutto, l’arditezza della scrittura e il vorticismo dello stile si mostrano di difficile interpretazione anche da parte del lettore meno ingenuo, sia per il costante sottintendere agli innumerevoli testi della tradizione poetica italiana ed europea sia a causa della deriva semantica che ciò comporta.
Una poesia controversa, dunque, che torce il verso e allo stesso tempo si ritorce ‒ riusandola ‒ contro una tradizione da cui attinge ampiamente.
Come suggerisce Emmanuela Tandello, nel saggio introduttivo al volume L’opera poetica, edito da Mondadori, quella di Rosselli è una voce “estranea”, cioè di una presenza “vissuta all’insegna della differenza rispetto a una tradizione che sembrerebbe starle stretta”.
L’opera, che raccoglie “l’intero corpus poetico” della scrittrice, permette allora di varcare la soglia di quest’officina poetica, così da rendere anche il lettore meno avvezzo in grado di apprezzarne il canto.
Il volume (a cura di Stefano Giovannuzzi, con la collaborazione di Francesco Carbognin, Chiara Carpita, Silvia De March e Gabriella Palli Baroni) accoglie, in maniera diacronica, i testi pubblicati dall’autrice più gli inediti finora ritrovati, ed è corredato da un’accurata cronologia e da un apparato critico e bibliografico cospicuo ed esaustivo. Le Notizie sui testi, che introducono ogni raccolta, sono strumenti efficaci per la comprensione, la decodificazione e l’interpretazione di questa scrittura al limite del pronunciabile, che permettono di ritrovare le motivazioni profonde e le ragioni compositive, illuminando la genesi e il farsi dei testi.
Dall’esordio deflagrante di Variazioni Belliche (1964) e dallo sperimentalismo de La Libellula (1958) e di Serie Ospedaliera (1969), al ritorno alle forme più classiche di Documento (1976), fino al poema Impromptu (1981), coincidente con la scelta di abbandonare la composizione letteraria e la conseguente “caduta della vocazione poetica”, il Meridiano evidenzia l’evoluzione della poetica dell’autrice che pur nella sua mutevolezza rimane avvinta a pochi ma fondamentali motivi stilistici e contenutistici. Insieme, le prose poetiche di Diario Ottuso (1990), la poesia bilingue di Sleep (1989), coevo agli esercizi dei Primi Scritti 1952-1963 (1980), e gli Appunti Sparsi e Persi (1983) chiudono il volume.
Amelia Rosselli, pur appartenendo all’area dello sperimentalismo, mantenne una posizione equidistante dalla poetica referenziale e civile di Pasolini e dei poeti di Officina come dagli esperimenti formali della Neoavanguardia. La sua scrittura, puntellata da antinomie inconciliabili, intreccia un fondo biografico e intimamente biologico (la tragedia personale e storica vissuta dalla sua famiglia, l’esperienza di “fuoriuscita” dalla Storia che segnò irreversibilmente tutta la sua vita, fino alla tragedia del suicidio nel 1996), franto dal conflitto psicologico che ciò suscitava, con un’attenzione scrupolosa verso i valori più sublimi del letterario, nella ricerca della parola come altro da sé. Lontana dai cascami della confessional poetry, scevra da ogni referenzialità, si nutre di sé, referto di un corpo in continua auscultazione, sia esso quello dell’autrice sia quello ancora più martoriato della Tradizione.
Derivano da ciò i cardini e i principi di costruzione poetica e di scelta stilistica che le danno forma.
Il suo erompere trova spazio attraverso le parole degli altri poeti (Rimbaud, Lautréamont, Montale e Campana, per citare i più ossessivi e ricorrenti) e diviene ragionamento sulla scrittura stessa, secondo un esercizio pulsionale e metapoetico da cui si genera una poesia letteraria e antiletteraria allo stesso tempo, “analfabeta” e ipersofisticata.
In ogni testo la citazione, l’ipotesto vengono assunti per essere scossi, ironicamente e platealmente, ed essere sottoposti a un “rapporto dialettico”, “di affermazione e negazione”, che “permette l’emergere di un discorso altro, potenzialmente (…) opposto, (…) critico rispetto al modello”.
Rivolta all’urgenza del senso dietro il significante, la poesia di Amelia non diventa però mai gioco o maniera ma pronuncia dolorosa di un “linguaggio (…) che (…) oscilla indeciso fra verità e menzogna, fra risorsa che è ancora possibile utilizzare, o al contrario, da rigettare”. È un procedere incessante in cui “la dimensione personale diventa allegoria della letteratura e viceversa”; dove la parodia, l’ironia, la disgregazione del linguaggio e la perdita di fiducia verso di esso mimano la “disappartenenza”, il “dramma autobiografico”, la mitopoiesi dell’autrice chiusa nel suo “disagio esistenziale”: “la stancata bestia nascosta” che enumera “in malandati versi” la “normalità dell’orrore”, “la quotidianità come dominio privilegiato del terribile”.
Il “tu” a cui Amelia si rivolge è così un pronome informale, “specchio della separazione” e “abolizione del’io”, “forma di oggettivazione interna”, “testimonianza di sé” e dell’“impoetico del mondo”.
Questa poesia balbettante e straniata, straziata dall’indicibile e dall’impossibile pronuncia di sé, trova nell’“aspetto grafico” e nel “rigore formale” il riscatto alla propria necessità esorbitante.
Dalle ricerche in campo musicale (illustrate nel saggio teorico Spazi Metrici, 1962) e dall’esempio della “musica dodecafonica”, Amelia ricompone in una nuova forma poetica ‒ la “forma cubo” ‒ il rapporto tra la musica e la parola.
Ma è soprattutto nell’“autonomia inventiva della parola” che si traduce il linguaggio esclusivo della sua poesia. Il valore verticale della parola è inteso come il nucleo fonetico e semantico da cui far geminare sensi molteplici, che producono un discorso virale.
Ne è esempio il titolo stesso del poemetto La Libellula in cui il singolo lemma contiene in sé in una “fusione associativa” i termini di libertà e di libello.
Risiede in questa costante e ambivalente scelta del significato la tecnica e il senso poetico del linguaggio ascetico di Rosselli: un vocabolario contenuto in ogni parola, un senso sempre debordante, sempre rimandato e al contempo volenteroso di accogliere altri significati.
In tale produttività semantica, dentro questi nuclei fecondativi risiede il valore stesso della sua poesia e l’energia che da essa scaturisce: l’autentico “dramma” poetico, il combattimento che inscena l’autrice con sé e il corpo di un linguaggio sempre sfuggente.
Una poesia bellicosa e ingenuamente bellissima al cui interno “I vostri inverni non bruciano di quel inchiostro che io tengo in mano”.
***
I fiori vengono in dono e poi si dilatano
da “Documento” (1966-1973)
I fiori vengono in dono e poi si dilatano
una sorveglianza acuta li silenzia
non stancarsi mai dei doni.
Il mondo è un dente strappato
non chiedetemi perché
io oggi abbia tanti anni
la pioggia è sterile.
Puntando ai semi distrutti
eri l’unione appassita che cercavo
rubare il cuore d’un altro per poi servirsene.
La speranza è un danno forse definitivo
le monete risuonano crude nel marmo
della mano.
Convincevo il mostro ad appartarsi
nelle stanze pulite d’un albergo immaginario
v’erano nei boschi piccole vipere imbalsamate.
Mi truccai a prete della poesia
ma ero morta alla vita
le viscere che si perdono
in un tafferuglio
ne muori spazzato via dalla scienza.
Il mondo è sottile e piano:
pochi elefanti vi girano, ottusi.
A Pier Paolo Pasolini
E posso trasfigurarti,
passarti ad un altro
sino a quell’altare
della Patria che tu chiamasti
puro…
E v’è danza e gioia e vino
stasera: – per chi non pranza
nelle stanze abbuiate
del Vaticano.
Faticavo: ancora impegnata
ad imparare a vivere, senonchè
tu tutto tremolante, t’avvicinavi
ad indicarmi altra via.
Le tende sono tirate, il viola
dell’occhio è tondo, non è
triste, ma siccome pregavi
io chiusi la porta.
Non è entrata la cameriera;
è svenuta: rinvenendoti morto
s’assopì pallida.
S’assopì pazza, e sconvolta
nelle membra, radunata a sé
gli estremi.
Preferii dirlo ad altra infanzia
che non questo dondolarsi
su arsenali di parole!
Ma il resto tace: non odo suono
alcuno che non sia pace
mentre sul foglio trema la matita.
E arrossisco anch’io, di tanta esposizione
d’un nudo cadavedere tramortito.
C’è come un dolore nella stanza
da “Documento” (1966-1973)
C’è come un dolore nella stanza, ed
è superato in parte: ma vince il peso
degli oggetti, il loro significare
peso e perdita.
C’è come un rosso nell’albero, ma è
l’arancione della base della lampada
comprata in luoghi che non voglio ricordare
perché anch’essi pesano.
Come nulla posso sapere della tua fame
precise nel volere
sono le stilizzate fontane
può ben situarsi un rovescio d’un destino
di uomini separati per obliquo rumore.
Di sollievo in sollievo
da “Serie Ospedaliera” (1969)
Di sollievo in sollievo, le strisce bianche le carte bianche
un sollievo, di passaggio in passaggio una bicicletta nuova
con la candeggina che spruzza il cimitero.
Di sollievo in sollievo on la giacca bianca che sporge marroncino
sull’abisso, credenza tatuaggi e telefoni in fila, mentre
aspettando l’onorevole Rivulini mi sbottonavo. Di casa in casa
telegrafo, una bicicletta in più per favore se potete in qualche
modo spingere. Di sollievo in sollievo spingete la mia bicicletta
gialla, il mio fumare transitivi. Di sollievo in sollievo tutte
le carte sparse per terra o sul tavolo, lisce per credere
che il futuro m’aspetta.
Che m’aspetti il futuro! Che m’aspetti che m’aspetti il futuro
biblico nella sua grandezza, una sorte contorta non l’ho trovata
facendo il giro delle macellerie.
***
Amelia Rosselli nasce a Parigi il 28 marzo 1930 da una famiglia di origini italo-ebraiche. Il padre, Carlo Rosselli, teorico del Socialismo Liberale e militante antifascista, fu tra i fondatori a Parigi del movimento di resistenza e del giornale “Giustizia e Libertà”; venne quindi perseguitato e ucciso in Francia nel 1939. Scoperta da Pier Paolo Pasolini, la poesia della Rosselli fece il suo esordio nel 1963 con la pubblicazione ad opera dello stesso Pasolini di 24 poesie della giovane Amelia sulla rivista Il Menabò.
Appartata e estranea a gran parte del mondo intellettuale dell’epoca, la Rosselli non ricevette mai in vita i riconoscimenti critici che meritava.
Pubblicazioni:
“Primi scritti” (raccolta 1952-’63 – Guanda 1980);
“Variazioni belliche” (Menabo’ n.6, postfazione di Pasolini, Garzanti 1964);
“Serie ospedaliera” (Mondadori 1969, Premio Argentario);
“Documento ’66-’73” (Garzanti 1976, Premio Indizi 1977, Premio Pasolini 1980);
“Appunti sparsi e persi” (Coop. Edit. Aelialaelia 1983);
“La Libellula” (SE Editore 1985);
“Antologia poetica” (Garzanti 1987, Premio Cittadella, Premio Chianciano);
“Sleep” (Rossi & Spera 1989);
“Prime prose italiane” (1954); “Nota” (1967-’68); “Diario ottuso” (1968) – Editore IBN;
“Le poesie”, Prefazione di Giovanni Giudici (Garzanti 1996).
L’ha ribloggato su natalia castaldi [esilio e desnacimiento].
L’ha ribloggato su Gianluca D'Andrea.