Impastare il fiato con la carne. Rimi di Gabriele Frasca

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel secondo anno di attività. Alfredo Nicotra su “Rimi” di Gabriele Frasca (pubblicato il 2 giugno 2015).


di Alfredo Nicotra

“Ciò che hanno fatto di me le vecchie parole, / spiccare il sole via dal midollo dell’osso / come s’essicca un frutto del proprio liquore, / spargere il senso assoluto d’un sasso / al debole grido che ha scosso / quest’ordigno di sensi che è tutto un motore / muto e cocciuto in attesa d’un suono; // Dove m’hanno condotto col loro fracasso, / lavorando d’intarsio lungo l’abbandono (…) // Eppure quanta giusta inconsistenza resta / mentre la testa impasta da ciò che s’è perso / quel tanto di sostanza come cartapesta. / Vi si tenne la vita in quel rimorso / andarsene via di traverso / alla vegeta morte che ancora protesta / s’aprì una ferita che duole, / cui non rimane chi rimi in soccorso, / dove m’hanno condotto le vecchie parole”. Nel silenzio in cui si assopisce la poesia contemporanea, l’ultima raccolta di Gabriele Frasca, Rimi (Einaudi, 2013), è stata tra le novità di questi anni quella forse più fragorosa, confermando l’ottima salute di cui gode la ricerca poetica in Italia. Disposta in maniera tripartita, in sezioni che si corrispondono per l’unità dei temi e per la complessità dei procedimenti stilistici, essa si rivela strutturalmente omogenea e compatta, affilata da una riflessione sulla poíesis, sul senso della poesia e della sua urgenza e immanenza. Sottolineando la volontà di erodere una consuetudine: il mutuo silenzio tra il poeta e il lettore, esito di una pratica non sempre consapevole di quanto ogni verso sia tecnica, artificio e oralità, lavorio insomma, e non l’espressione di un sentimento. Nei venticinque sonetti in endecasillabi rimati che introducono la prima delle tre sezioni, rifacimento dei componimenti del poeta spagnolo e barocco Quevedo (1580-1645), Frasca scandisce con un ritmo sincopato e privo della punteggiatura le ossessioni di un amore e di una passione erotica frustrati dall’incedere sempre al fianco della morte con il suo corteo di funebri presagi: la fuga del tempo, il senso del nulla e della vacuità della vita. Ma come nella tradizione del concettismo secentesco, di cui l’autore ripropone il furore virtuosistico e l’architettura delle metafore, la fatica di un pensiero incapace di risolversi se non nell’aridità dell’esistenza confligge in maniera contrastiva con la ricchezza della forma e con una versificazione in cui scintillano i bagliori dell’armeggiare poetico. La certezza quotidiana di essere dei “vivi in trasloco” si strema nel vortice orchestrato delle rime, rime interne, paronomasie, assonanze, allitterazioni e iterazioni, con il fine di coprire il “vuoto che ci assedia”, il brusio mai eluso della domanda: “ehi della vita chi mai mi risponde”. L’atto di scrivere diventa allora un ruminare versi e parole, così che “solo col suono”, “ridando forma al corpo in cui m’inscrivo / come fossero i versi chiavistelli / con cui serrarti mentre mi rinchiudi”, si intravede uno spiraglio, la fuga dalla “meta che ci ingoia”. Queste rime aspre e chiocce non concedono però nulla all’elegia o a una trascendenza assoluta o assolutoria, ma scavano con una crudeltà artaudiana nell’assurdità di ogni gesto, nel corpo solo a tratti percepito che ci offre il loro autore, unico puntello in un paesaggio di rovine postumane. “Venite anni vissuti e già trascorsi / il fato dirancò il mio tempo a morsi / la mia follia queste ora già nasconde / e senza mai sapere come o donde / salute età fuggirono i miei corsi / ogni sciagura in me viene a riporsi / la vita nel vissuto si confonde / ieri fu già domani non ancora / oggi già insegue il suo venire espunto / un fu sono e un sarà che mi divora / nell’oggi e nel domani e ieri giunto / il sudario alle fasce resto l’ora / che succede al futuro già defunto.” Rimane la spoglia, l’auscultazione di un sé e della propria irrimediabile dispersione in un presente sempre procrastinato. Poesia del corpo e delle sue materie-macerie, niente di irreale esala da queste parole, niente che non stia accadendo e che non sarà destinato ad accadere nell’attimo in cui le si pronuncia: “fu quasi con sollievo che comprese che sopravvive chi si preda in proprio. E che di questo nostro farci a brani risuona inascoltato l’universo”. Lasciata da parte la metrica chiusa dei sonetti, la novità dell’operazione di Frasca risiede tuttavia nella sezione eponima del volume, che rappresenta l’oltranza stilistica del suo lavoro. Qui cinquanta tavole, o lasse, in doppi endecasillabi sciolti, senza alcuna suddivisione in versi né altra punteggiatura se non il punto a ritmarne la sintassi, fabbricano un lungo poema che procede nel flusso continuo di una narrazione allucinata. Sono quadri composti dai ricordi o dalle azioni minime di un soggetto monologante (in realtà incarnazione di una pluralità di personaggi che si dividono la scena nell’arco di un giorno), fisso in un ambiente spoglio, deserto, beckettiano, fatto di pochi elementi e di scarni riferimenti contestuali che tracciano scene, rappresentazioni, vicende registrate nello spazio liscio e fluttuante della pagina. Ritratti di personaggi deposti in interni chiusi e claustrofobici o in periferie edificate ai margini di una città, sorpresi dall’emergere di eventi lasciati nella memoria o nell’atto di essere vissuti e percepiti come emblemi di segni perturbanti. In questa narrazione senza racconto, l’azione si concentra sui percetti e sugli affetti di un soggetto minimo e plurale, ridotto a comune denominatore dell’esperienza. Non un soggetto autoriale ma una macchina vociante e un fascio di percezioni, simile a tutti nella propria riduzione e degradazione. Il soggetto plurale della poesia post-lirica di Frasca è una voce issata nello sforzo di stabilire continuamente il confine tra un dentro e un fuori, come tra la poesia e la prosa, sul limite che separa i due generi. Scritta in una lingua colloquiale, con uno stile che si inceppa, incespica e balbetta, inseguendo una sintassi sconnessa da un ritmo ossessivo, ansante tra il suono e il senso sempre differiti, la poesia si fa mimesi di un “corpo che si frammenta nei pensieri”, tra attitudini fenomenologiche e intuizioni pre-logiche. Uniche protagoniste rimangono allora le parole con la loro capacità di opporre resistenze: “ne vanno giù a milioni in una vita a intonacare il corpo dall’interno. contengono la bocca che le tiene e le lavora e vi si fa ingoiare. per indurire stagne le pareti di un corpo molle intorno al suo silenzio. lo senti disse e si rispose certo echeggiava ogni sillaba nel vuoto. ogni singola sillaba scomposta e ripetuta a scandagliare dentro”. E tuttavia, è questo partecipare alla propria spersonalizzazione ad aprire il testo a una dimensione collettiva, impersonale, comunitaria e paradossalmente civile. A fare una poesia che “ci dice con le parole d’altri ciò che siamo”, cioè “senza comunità se non di voce”, rendendo tangibile almeno in parte quella traccia di senso che ostinatamente domandiamo: “che non c’è vita in noi che non sia dirsela”. Dopo l’incursione, l’ultima delle sezioni della raccolta, una serie di poesie tradotte da Dylan Thomas, chiude il  volume. Altre parole da custodire nel corpo del lettore, impastando il fiato con la carne.

Gabriele Frasca, Rimi, pp. 136, € 11,00, Einaudi, Torino 2013.

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