Matteo Bianchi, La metà del letto

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel secondo anno di attività. Sandro Abruzzese recensisce “La metà del letto” di Matteo Bianchi (pubblicato il 30 maggio 2015).


di Sandro Abruzzese

Matteo Bianchi, La metà del letto, Barbera Editore, Siena 2015, pp. 128
Matteo Bianchi, La metà del letto, Barbera Editore, Siena 2015, pp. 128

«L’elemento scatenante è la sofferenza, da ragazzo era l’essere accettato dagli adulti. In seguito sarebbe diventata una necessità, una forma del mio essere». Ecco perché ha cominciato a scrivere, Matteo Bianchi. È la prima domanda che gli pongo. Scopro un uomo meno timido di quel che credessi. Trovo delle risposte attente e, quando si parla di scrittura, avvolte da un approccio rigoroso. «La poesia ha bisogno di un suo tempo, la parola deve muovere all’azione», si fa serio quando pensa alla scrittura. Quando pensa alla lingua, al suo farsi, vuole che lasci un’impronta, che serva a conoscersi, che avvicini.
Ne La metà del letto (Barbera Editore, 2015, pp. 128) invece incontro, tra le righe di uno spiccato senso della misura, la sua urgenza. Dopo aver letto il libro mi viene da pensare che, attraverso la misura, il limite, Matteo esprima una sorta di reticenza, il tentativo di nascondersi, pur avendo un estremo desiderio di essere trovato. Poi le parole, all’improvviso, si impennano, tradiscono la misura e svelano. È una poesia, quella che ho tra le mani, a cui non occorrono particolari filtri e nemmeno giochi di prestigio. La metà del letto è un libro chiaro e intimo, in cui la famiglia, i ricordi, l’amore si intrecciano fino a scorrere con naturalezza tra gli argini della vita. Non basta. «La tela, una volta tessuta e tesa / già non è più tua», scrive e, allo stesso modo, mi pare che i suoi versi abbiano il dono di liberarsi velocemente dell’autore, portano addosso la capacità di affrancarsi per diventare subito nostri. Quelli che ho sulla scrivania in una grigia domenica di fine marzo sono i versi di un uomo che, nonostante l’incomunicabilità e l’incomprensione, crede e aderisce alla forza salvifica dell’amore. «L’amore risolto invecchia, / quello insoluto eterna», sostiene. Anche se forse non imparerà mai a pronunciare la parola «sempre», ho come l’impressione che in qualche maniera vi aneli. Quindi gioca con l’idea di eterno consapevole che tutto è «uno scherzo, uno sbalzo di stagione». Il suo è uno sguardo che si traduce in forme plastiche. Fin dal titolo, entriamo in un mondo fatto di oggetti quotidiani: tende, poltrone, zaini, finestre, treni. Le due città che compaiono, i luoghi, sono Ferrara e Venezia, in mezzo il Grande Fiume.
Credo che Matteo Bianchi sia un uomo alla continua ricerca di una «destinazione razionale», anche se confessa che in tale ricerca sembra perdersi, annegare. Insegue con costanza un ordine, però, portando con sé la consapevolezza che la battaglia è persa. Ha ventotto anni, Matteo. In queste righe, non a caso, l’ho definito un uomo. Definirlo “giovane” poeta sarebbe ingrato. Trovo che quando la scrittura, attraverso la costruzione di un mondo interiore, combatte con l’idea della morte, della solitudine, dell’ineffabile, a scrivere sia sempre un uomo o una donna. Quando la poesia si occupa con cura dello «scarto tra noi e l’esistenza», a quel punto l’essere giovane non significa granché: sarebbe un gelido simulacro. In ultimo, l’amore.

Ne La metà del letto, è un amore andato a male, magari senza ragioni precise. Ma se penso a un fallimento, tuttavia dentro rimane una voglia matta di riamare.


 

testi scelti

 

Il ragno, magari, ignora
l’inquieta bellezza che ha creato

sul filo è necessaria la postura

ma tu non dimenarti
ascolta il tuo respiro
dosalo
non soffiare sulla tua sofferenza
abbine cura

la tela, una volta tessuta e tesa
già non è più tua.


Mi piacerebbe fossi seduta
comoda sulla poltrona di fronte,
nostro vagone trasognato
con i graffiti ai finestrini
e le porte mezze aperte.
Rincuorandoti sornione
e a voce mansueta:
«è stata una bella giornata,
no?»
– cercandoti la pelle,
una carezza sotto la manica –
«ogni tanto ci vuole
una giornata così». Mia cara, di ritorno
dalla vacanza fingo solo
la vita si possa orientare
come più ci piace e deciderla
dal belvedere di casa,
la mattina presto,
prima di andare al lavoro.
So bene quanto sia pura apparenza
– ma quale asso in mano, quale azzardo? –
di sorprendere la fuga del treno,
tratto di lazo che ci lega al caso.
Uno sconto di pena.
Uno scherzo, uno sbalzo di stagione.


VITA PRIVATA

«Ti andrebbe …» mi dicevi
fiera, esibendoti posata,
e non chiedevi mai
una scappata nel nostro letto

adesso, che non torni
da Parigi, non mi va
più di cucinare:
due uova sode, sole,
solide? Mai abbastanza.
Ho finito anche il sale.
Non mi siedo a tavola,
bocconi veloci in piedi
e freddi i tuoi baci
nel ricordare

dovrei ridere sopra
tutte le volte che
ho domandato perché ti ho sposata.
Mi vergogno delle docce calde
e impotenti, del letto sfatto
nel quale non riposo,
ma mi scopro a fantasticare.

Adesso, cara, mi andresti tu,
persino innamorata.


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