Prima che la scienza mutasse il terrore che la natura infliggeva agli umani nel terrore che gli umani provano nei confronti degli umani che maneggiano la scienza, lo sguardo pavido sgorgava in mille direzioni e da nessuna parte trovava acquietamento. La materia, disposta nel caos, fessurata in mille finestre a strapiombo sull’ignoto, vorticava attorno a una mente debilitata da necessità impellenti. Il corpo, guidato dall’istinto categorico alla sopravvivenza era spinto a una predazione esposta permanentemente al rischio definitivo.
Ciò che agiva la fame agiva contemporaneamente la paura, ed è da credersi che poco altro potesse starvi in mezzo. Il tempo, a prezzo di numerosi tentativi ed errori, allargò lentamente la radura del pensiero, spostando i confini dell’affanno a guisa che l’esperienza potesse specchiarsi nella previsione d’efficacia.
Tutto ciò che oggi permette il pensiero ozioso, dalla filosofia astratta all’opinione fatua del soggetto mimetizzato nella folla, è il frutto postremo di quella mutazione temporale, di quell’“introduzione di tempo”. Mentre mi lascio contenere dal ventre spazioso del salone di casa e i gatti s’inseguono solo per mantenersi in esercizio, penso al tempo angusto della radicale mancanza di tempo che mai vissi, ai tremanti corpi senza tratti autoriferibili raccolti in fondo a una caverna, mentre auscultano la penombra d’un pericolo sempre imminente. E all’enorme disperazione che deve esser loro occorsa per abbandonare il proprio loculo protetto dal fuoco per abbandonarsi a una rabbiosa ricerca di cibo, muniti solo di qualche pietra acuminata.
Mutatis mutandis quel terrore ha preso altre vie ma, nel profondo, permane il suo sostrato chimico. Perché poi la storia non s’è molto prodigata affinché ne sbiadissero le tracce.
La perenne mutazione antropologica, in altre parole, non ha saputo porsi a scopo l’armonizzazione della razza umana né con la natura (vittima piuttosto d’un revanchismo sprezzante) né con se stessa (il cui rafforzamento strumentale è stato speso in subordine a un supposto bene personale, totalmente scisso dal complesso degli elementi circostanti).
L’uomo è un essere mutevole, ma complessivamente incapace di guidare la propria mutevolezza in direzione dell’armonia. È come se ogni brandello di quiete dovesse essere necessariamente conquistato al prezzo d’uno strappo violento alla delicata tessitura della quiete complessiva. Persino la struttura economica di cui la “scimmia nuda” si è dotata, oggi motore d’ogni atomo senziente e non senziente, riproduce fedelmente la dicotomia soggetto/universo, e la loro struggente alternatività.
È impossibile sottrarsi all’interrogazione filosofica che chiede se vi sia mai stata realmente una speranza, per la specie che nolentemente si specchia in cotanta storia, d’essere altrimenti. I grandi numeri si stagliano impietosi, rotolando poi come macigni sopra tutti i tentativi minoritari di edificare su altre basi. I quali, nondimeno, non permettono alla fiammella della speranza di spegnersi definitivamente.
Il mio amore per la musica, spesso un po’ cieco – cieco come tutto ciò che esprime un bisogno potente – e dunque spesso bisognoso di pillole che addolciscano acconciamente i bordi delle valutazioni, si nutre anche dell’idea che la creazione artistica, o anche semplicemente l’anima che occorre per penetrarla, possa costituire uno dei fondamentali tasselli per l’auspicabile opera di “depotenziamento umano”. Partorire una piccola armonia, istoriarla della voce narrante d’una melodia, e infine donarla –in mezzo alle asperità- a una comunità di silenzi a essa compenetrati, lungi dal mettere in risalto l’anima prometeica della protervia creatrice, spezza e condivide il pane della finitezza animale, crea il contesto in cui la comunicazione appaga il proprio scopo annullando se stessa.
La musica assomma le tappe emozionali dell’historia humani generis, sublima in sé tutte le vicissitudini di tale sforzo, e si pone al centro del mistero dell’ascolto, il cui “pieno” delimita il centro d’una condivisione che, nella compartecipazione all’evento, allontana simbolicamente il vuoto della sperdutezza cosmica da cui proveniamo.
Pur rimandando a un altrove “compiuto” l’armonia si manifesta hic et nunc, e non distoglie lo sguardo dal luogo che delimita; al contrario, av-viene per confortare questa specifica plaga di Terra in cui è udibile. Contrariamente alle religioni trascendenti, sguardi opachi su mondi ipotetici la cui promessa destituisce l’unica certezza d’essere, la musica promette solo ciò che contemporaneamente dona: la Bellezza d’una complessità trasfigurata nella semplice potenza dei sensi, contemporaneamente qui e altrove.
La musica strumentale, più di altre, mostra l’indicibile dello specifico musicale nel suo non piegarsi a significati determinati e passeggeri; non si lascia consumare in ciò che contiene di non ri(con)ducibile all’ambito semantico.
Tim Story è un artista dalla carriera ormai lunga e defilata. Pur avendo inciso per la Windham Hill ha sempre rifuggito per la sua opera l’ormai infamante etichetta new age; dal 2000 ha avviato numerose collaborazioni tra cui spiccano quelle con i due Cluster Moebius e Roedelius, i cui nomi potrebbero anche esser presi a parziale riferimento poetico.
Il pianoforte e le tastiere elettroniche (via via aggiornate a suoni più contemporanei) sono il fulcro dell’arte del compositore di Philadelphia; “musica elettronica da camera” potrebbe essere un buon modo –seppur sbrigativo- per figurarsi le meraviglie che dal 1981 sforna a getto quasi continuo (a eccezione di un paio di pause).
Sebbene negli anni egli abbia continuato per lievi slittamenti a perfezionare il proprio stile, sottoponendolo anche a qualche revisione “modernista”, due sono i dischi che me lo fecero conoscere e immediatamente amare, due fragili vinili provenienti dalla Norvegia, e specificatamente dalla piccola etichetta Uniton (ci incideranno anche Eyeless in Gaza e Fra Lippo Lippi): “Untitled” (1984) e “Three Feet from the Moon” (1985).
Li conobbi semplicemente perché erano in offerta e avevano due belle copertine color pastello dagli estesi campi vuoti; ma ad aspettarmi v’era un’arte sottile ed estremamente raffinata per un ambient prendibile ma non esauribile, per la melodia da carillon incantevole ma sempre sfuggente, per la miniatura artigianale dagli spifferi “cosmici”.
Il secondo, in particolare, spicca per perfezionismo e meraviglia. Un continuo andar di fiaba sonora, dove la semplicità non diventa mai semplicioneria e l’attenzione dell’ascoltatore ha come unico antagonista la rêverie.
Un microcosmo tenuemente illuminato, disposto a misura d’un gusto confortevolmente raffinato da ogni brutalità, frutto d’un tempo sottratto a ogni apparente affanno, mentre fuori infuria la perenne battaglia degli atomi indifferenti.
In copertina: “Three Feet from the Moon” (front cover, Tim Story, 1985)