Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 37) Gravenhurst

Non conosco una possibilità di felicità più estesa di quella che offre il non-esser-nessuno. Possibilità fragilissima, in pericolo per antonomasia, quotidianamente insidiata dalla necessità del mercato di nominare-per-vendere. Niente che non sia riconducibile a una categoria merceologica e, all’interno di quella, a un codice item assegnato, può andar bene per il Catalogo. Il Catalogo è lì dove le cose trovano la propria sostanza di prodotto e la conseguente smerciabilità. I suoi confini sono le nuove Colonne d’Ercole. Oltre si stende l’infinitezza della follia e dell’esclusione.
Le parole contribuiscono. Pur con tutta l’assoluta necessità che io sento di parole per illudermi d’inseguire un refolo di beatitudine nell’arsura della bruttezza generalizzata, so che una breve disattenzione mi porterà là dove non voglio: in un posto preciso d’una città clone.
Un posto preciso è sempre un non-posto e – ancor meno d’un porto, d’una stazione, dove almeno non ci si può esimere d’aprirsi alla disperazione della partenza – un non-posto è lì dove occorre prendersi a gomitate per risiedere e apprestar la lingua per rasserenare il committente. Il non-posto è lì dove la tua fortuna corrisponde meccanicamente alla disgrazia di qualcun altro, dove ogni invidia è sempre profondamente giustificata, perché non è l’unicità della Bellezza ad aver lì condotto, ma l’abilità di trovare qualifiche altisonanti alla parte più posticcia di sé. Essa corrisponde infallibilmente con il brutalizzare l’unico legame che manteniamo con l’ineffabile, elusiva dignità della creazione artistica.
Che lì presenziare sia una truffa è la sua matrice fondante. La pacca del false friend-mercato ti marchia sulla schiena, là dove non è neppure possibile accorgersi del proprio reparto d’appartenenza, e ci si ritrova a ricoprire il frusto ruolo dell’anima bella che crede di vagare nel nulla dell’esistenza e invece già percorre la via del macero meccanizzato.

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Parlando di musica so già che a spulciar cataloghi ho trascorso buona parte della mia vita. Ma quella facies del catalogo è, in fondo, la meno offensiva. Il cadavere non ha alcuna responsabilità dello stato di abbandono della propria lapide o dell’intero cimitero. Né il responsabile pare a me essere chi ha organizzato il percorso in modo tale che un affetto sia facilmente raggiungibile. Ben più atroce è la consapevolezza di ritrovarsi avvolti da un silenzio che non coincide con la mistica negazione del discorso, bensì con la caciara della violenza più banalmente comune. Il tacere di certi morti può essere all’anima un gioioso frastuono; quello della maggioranza dei vivi è quasi certamente una ridondanza, un efficace slogan dell’estinzione che proviene da ogni finestra aperta nell’arsura d’una feria comandata.
Non posso neppure assicurare la Bellezza dei momenti da cui proviene la musica di cui parlerò e da cui sono soggiogato. La vita è così grande e i misteri che la dominano così vasti che so possibile persino distillare Bellezza da sentimenti poco nobili. Ma la forza che li trasmuta, che dà loro la forma adatta per penetrare la nostra ferita archetipale, è un segno della parte migliore dell’uomo. E se non della migliore, almeno della più affascinante. Quella parte che pone una distanza tra il proprio bisogno di partecipare alla Bellezza e quello di spartire una qualche forma di abusante potere. È una lettera d’amore, affidata ai flutti. La cui risposta proviene, e proverrà sempre, da un’immeritata Fortuna.

Come intendere la breve parabola di Nick Talbot, giovane chitarrista-polistrumentista del Surrey? Fu fortuna poter incidere una manciata d’album gravidi d’una densa idea estetica e, per marchiarli definitivamente di ciò che il pubblico non intese, abbandonare il mondo a 37 anni? A chi resta, la sua inquietudine, i buchi neri della sua epilessia, l’introversione, si ritrovano tutti in quattro album personalissimi, in qualche modo tenebrosi e in qualche altro fascinosamente ariosi. Arpeggi acustici introflessi ma capienti, intorbiditi da striscianti minacce cinematiche, droni e gusci di tempo costituiscono l’ossatura dei pezzi più memorabili; un’efebica tessitura vocale meticolosamente armonizzata il tratto distintivo d’un songwriting baciato dall’ispirazione e sostenuto da una personalità riconoscibilissima.
“Flashligh seasons” (2003) è il disco più bello del suo catalogo, il più intimista e delicato e anche il suo primo lavoro maggiore dopo l’acerbo “Internal travels” dell’anno precedente. Fu anche l’exploit creativo che gli valse l’interesse della Warp, etichetta dedita solitamente a sonorità IDM: un sorprendente strappo alla regola comprensibile solo alla luce dell’abbagliante densità d’una scrittura tanto tersa quanto foriera di malinconia che contiene insieme il pericolo e ciò che salva.

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Intervistai Nick proprio all’uscita di Flashlight. Tagliando qualche passaggio che oggi suonerebbe un po’ troppo legato alla contemporaneità di quei giorni, ve la ripropongo.

Con te, Nick, ho intervistato i tre autori dei miei tre dischi preferiti di quest’anno. Anno molto buono direi, a saper ben cercare. Che roba ascolti oggidì?

Ho passato un lungo periodo ascoltando prevalentemente Bert Jansch e Neil Young, ma anche Crescent (la band di Bristol, non “The Crescent”); il loro ultimo album “By the Roads and the Fields” è davvero unico. Sono poi un fanatico dei Guided By Voices, anche se non lo diresti mai ascoltando Gravenhurst! I miei amici Jeffrey e Miriam dei Black Forest/Black Sea mi hanno fatto conoscere i Pearls Before Swine, i cui due ultimi album mi hanno influenzato nel senso di avermi spinto verso un folk più “psichedelico” di quanto non ascoltassi prima. Ci sono anche un bel po’ di ottime band che stanno venendo fuori da Bristol: War Against Sleep e SJ Esau, sono fra le mie favorite, insieme a Crescent e Movietone, che sono in giro da un po’ più di tempo. Flying Saucer Attack, che proviene dalla medesima scena, è un’altra delle mie influenze maggiori, continuo ad ascoltarne i dischi. Apprezzo parecchio Nico e recentemente, i Fairport Convention.

Quali fra gli artisti che ascolti credi abbiano condizionato maggiormente il tuo modo di comporre?

Suppongo che fino a poco tempo fa le influenze maggiori sul mio approccio alla composizione di canzoni fossero artisti artefici di un pop eminentemente chitarristico come Simon & Garfunkel e Smiths. Ma effettivamente la maniera in cui arrangio è stata progressivamente influenzata da artisti tipo Low e Red House Painters. Ma anche questo sta cambiando. Ho una band di tre membri adesso, e il nuovo materiale ha elementi più psichedelici, con abbondanza di passaggi ‘dronici’, ma anche accenni di Slint e My Bloody Valentine.

Cosa pensi del luogo comune della critica musicale di paragonare ogni fingerpicker decente a Nick Drake?

E’ giornalismo ozioso. Nick Drake é stato un chitarrista straordinario, ma storicamente ci sono stati fingerpickers di gran lunga più importanti, ad esempio Bert Jansch, Davey Graham e Jackson C. Frank, che hanno influenzato Nick Drake e la gente lo dimentica. Il fatto che i giornalisti abbiano ascoltato solo Nick Drake non implica che questi fingerpickers non abbiano lanciato reti ben più grandi! Penso spesso di essere uno dei pochi che osano criticare l’opera di Nick Drake. “Pink Moon” è un album molto solido, e parti di “Five Leaves Left” sono buone, ma Bryter Layter è sciupato da arrangiamenti davvero datati e antipatici. Ad ogni modo, ho scoperto Nick Drake dopo aver iniziato il progetto Gravenhurst: le influenze originarie su Gravenhurst sono state Simon & Garfunkel e gli Smiths.

Un altro degli elementi che mi deliziano del tuo disco è l’assoluta misuratezza con cui innesti piccoli suoni “elettronici” sulle tue ragnatele acustiche. Accentuano certi semplici passaggi con una forza indescrivibile. Come nascono le tue canzoni?

Scrivo le canzoni prevalentemente con la chitarra acustica, poi le arrangio con vari strumenti.

Rispetto a “Internal Travels”, che pure è un bel disco, “Flashligh Seasons” sembra possedere il dono di una maggiore felicità melodica nella struttura dei pezzi. Che differenze scorgi fra i tuoi due lavori?

Ci sono differenze enormi. Credo che “Internal Travels” sia piuttosto debole. Allora non pensai ad armonizzare le parti cantate, e se potessi ricantarlo oggi cambierei tutto. C’è una grande differenza. Le canzoni non sono altrettanto buone. È buffo ma “The Diver”, “Bluebeard”, “Tunnels” e “Hopechapel Hill” le ho scritte persino prima di “Internal Travels”, ma sapevo che erano canzoni molto migliori, così ho deciso di metterle da parte fino a quando non avessi potuto far loro giustizia. Per il primo album ho scelto canzoni da poter registrare semplicemente, dato che era la mia prima esperienza di registrazione. Il mio amico Simon Grant ha fatto un gran lavoro; considerando le apparecchiature a disposizione non avremmo potuto fare di meglio. Sono ancora orgoglioso di “The High Seas” e soprattutto di “Meet the Family”; sono davvero felice della pienezza dell’arrangiamento, del modo in cui conferisce un gran finale al disco. Sarebbe stato bello che l’intero album fosse così buono! Anche dal punto di vista dei testi, è un po’ debole e unidimensionale.

“Flashlight Seasons” è un sottile capolavoro di oscura malinconia. Penetra fra le emozioni dalla porta secondaria dell’attenzione e poi prende a colpi d’ascia ogni pensiero rassicurante. La tua è un’iconografia di inquietudini. Quali sono i nutrimenti del tuo immaginario?

Difficile rispondere. Mi piace molto l’idea di avere testi misteriosi, mentre le emozioni che veicolano sono molto dirette. Sotto questo rispetto credo che i Low siano maestri. Non mi piace essere pienamente al corrente di quanto si sta verificando; questo rovina l’incanto e l’effetto si perde. I sogni sono una grande ispirazione e sono interessanti principalmente perché difficili da comprendere, eppure hanno una profonda, magica risonanza. Due dei miei scrittori preferiti sono Montague Rhodes James, lo scrittore vittoriano di storie di fantasmi e Alan Moore, l’autore di fumetti. Entrambi alludono a strutture e significati nascosti ma senza rivelare tutto. Questo procedimento lascia le cose aperte all’interpretazione e spinge a ritornare agli stessi luoghi per carpire sempre qualcosa di più. Per la stessa ragione possiamo rimanere ossessionati da misteri irrisolti come gli omicidi di Whitechapel; se conoscessimo le risposte perderemmo interesse. Ma paradossalmente, sono precisamente queste risposte che stiamo cercando.

Ciò che colpisce è la perturbante distanza fra la soavità  delle partiture di chitarra e l’incertezza delle immagini. Un contrasto voluto? Per questo talvolta mi fai pensare a David Lynch.

Credo di avere avuto inizialmente l’idea di scioccare gli ascoltatori dando loro testi provocatori su uno sfondo pastorale. Ma adesso gli arrangiamenti musicali sono lentamente divenuti più ‘progressivi’; mi piace pensare che “Tunnels”, “The Diver”, e “…Forest Floor”, ad esempio, siano sia musicalmente che testualmente sinistri. I pezzi nuovi lo sono persino di più. Ma cerco ancora di scrivere canzoni pop, solo, le arrangio in maniera più espansiva.

Eppure, in un certo senso, questi dovrebbero essere tempi propizi per una musica così raffinata e densa. Com’è stata in generale l’accoglienza della stampa e del pubblico a “Flashlight Seasons”?

Beh, finora non è molto conosciuto perché è uscito su etichette molto piccole, seppure molto buone. Solo poca gente lo ha recensito, e prevalentemente negli U.S.A. Finora le recensioni hanno oscillato dalla “schifezza” all’alto elogio. Molte di queste non hanno preso minimamente in esame i testi o gli arrangiamenti, limitandosi a disquisire su quanto carina sia la musica; ciò è frustrante. Aspettiamo allora di leggere le recensioni quando sarà ristampato.

Sappiamo che la Warp Sta per ripubblicarlo. Cosa ti aspetti da ciò? 

Spero che venda  bene! E che sia ben ricevuto dalla critica. È difficile dire come ci riuscirà. L’industria musicale – per non dire il mondo – è un luogo davvero incerto adesso. La gente non compra i dischi, e i dischi che vendono sono principalmente porcate. Fortunatamente chi ama la buona musica è il tipo di persona che s’interessa al ‘prodotto’; molti di loro vogliono ancora un bel pezzo di vinile consistente in un package di qualità! Speriamo di far uscire l’album nuovo abbastanza presto; credo sarà davvero un disco più espansivo.

Nonostante sia un disco superbo dall’inizio alla fine, voglio ugualmente chiederti quali sono i tuoi pezzi preferiti di FS e perché. (Io adoro “Tunnels” e “Hopechapel Hill”)

“Tunnels” è la mia preferita. È la più espansiva. Non riusciamo ancora a suonarla dal vivo perché è troppo complicato. Avremmo bisogno di tre chitarristi, due organisti, un clarinettista e un batterista.

Che farai in futuro? Novità  in vista?

Sto lavorando al nuovo album. Dopo questo immagino che lavorerò al prossimo ancora.

Il libro, il film e la donna che porteresti sull’isola deserta.

Difficile questa! Quando mi fanno questo tipo di domande non riesco mai a ricordare niente che abbia visto o letto. Suppongo che dovrei portare un libro davvero lungo, così probabilmente porterei “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust, che non ho nessuna speranza di leggere a meno che appunto non finisca su un’isola deserta. Per quanto riguarda il film, forse “Donnie Darko”, perché ancora non lo capisco dopo tre visioni, ma è il miglior film che ho visto da parecchio tempo. La donna, beh, sarebbe mia moglie Erin.


In copertina: “Flashlight Seasons” (front cover, Gravenhurst, 2003)

 

 

 

 

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