Capisco di essere veramente depresso quando mi accorgo di non aver voglia di ascoltare musica. È l’ultimo baluardo contro l’insensatezza. Sintanto che funziono, la mia dieta quotidiana prevede un’unica portata: dischi. Posologia: il maggior numero possibile.
Perché ciò avvenga, e non solo in me, è una domanda a cui difficilmente si può rispondere senza far ricorso a elementi del tutto soggettivi. Da qualche parte qualche insigne neurofisiologo avrà sicuramente raccolto una serie d’indizi certi sulla cui scorta tentare una risposta definitiva. Ma se lo si chiede a me, soggetto per cui la musica è più importante di qualsiasi domanda possa gravitarle attorno, difficilmente potrei evitare una certa vertigine.
Perché in un negozio di dischi sento, in generale, di essere nel mio elemento? È forse perché la mappatura degli scaffali è perfettamente sovrapponibile a quella del mio cervello? O perché l’elemento ignoto è pressoché assente o, al limite, riconducibile a una piacevole scoperta? Banalmente si potrebbe forse argomentare che qualunque passione abbia tra le sue prerogative quella di sottrarre le proprie vittime a un corso “neutro” (o spiacevole) della percezione per ricondurlo a qualcosa di familiare e consolatorio, proprio come l’orsacchiotto apotropaico per il bambino o la coperta di Linus. Ma nel frattempo la musica non è soltanto un oggetto, un semplice feticcio: è un organismo che, pur non vivente, “vive” di vita propria nel corpo di chi l’introietta. Ha uno status del tutto a sé, non assimilabile ad altro.
Qualunque cosa sia successa nella mia vita, il vuoto assoluto è stato bypassabile da un ben dosato profondarsi nell’ascolto. Questo non implica che il dolore non abbia saputo (come da contratto) condurmi sino alle soglie della follia. Tuttavia la musica ha sempre saputo come nominare l’abisso, lambendone gli orli a bordo d’un velivolo leggero. Dolore e musica amano collaborare: il primo fornisce profondità alla seconda, la seconda gli dona cornice (ed è già un tracciarne i bordi, un elaborarne il lutto).
La musica sembra saperne più di me, sul mio conto. Riprova sia che mi basta riflettere un attimo sul disco appena tirato fuori dagli scaffali per comprendere l’umore in cui mi trovo. È una scorciatoia; impiegherei decisamente più tempo a decifrarlo senza il catalizzatore della musica. Chiederlo a me stesso implicherebbe una serie infinitamente maggiore di attriti cognitivi e intenzioni nascoste. La scelta del disco, invece, è un riflesso incondizionato. Col cervello sollevato dalla realtà come una puntina di diamante dal vinile, l’atto procede sorprendentemente sicuro; le dita si dirigono non tremanti verso il vinile prescelto, scorrendone l’ordine alfabetico con l’indice.
Naturalmente non è facile determinare se l’umore preceda o segua la scelta del disco. La risposta giace probabilmente in mezzo: certi impulsi vogliono giungere alla loro piena estrinsecazione e per farlo necessitano della spinta decisiva della musica. Come Socrate, la musica è maieuta. Ma è anche un virus che, invisibilmente, ci agisce, ci frulla, ci fornisce un criterio solido sulla possibilità di amare o odiare.
Sgusciati via da un’idea tanto geniale quanto bislacca, nella fattispecie: far suonare la propria musica come se provenisse dalla “radio land” di JohnCaliana memoria “dove le orchestre suonano in continuazione e che noi uomini possiamo solo ascoltare ma mai raggiungere”, i Clientele di Alisdair MacLean e soci hanno raccolto qui il frutto dei loro primi tre anni di attività creativa, perlopiù singoli che, considerati come tali, sfavillano come lucciole disperse nell’infinità d’una notte surreale, ma che tutti insieme si costituiscono direttamente a punto di passaggio spazio/temporale verso l’Incommensurabile. Citando a modelli sixties poco noti i West Coast Pop Art Experimental Band ed eighties Loft e Felt, hanno distillato un suono caratterizzato da una singolare delicatezza delle partiture chitarristiche e degli abbozzi melodici del cantato – il tutto omogeneizzato da una patina di magico riverbero straniante e da una purezza di risultato da lasciare ipnotizzati. Bastano fatalmente un paio di ascolti per soggiacere per sempre alla malìa di meraviglie come “Monday’s Rain”, “An Hour Before The Light” o “Saturday” e via dicendo, dalla prima all’ultima.
“Suburban Light” è per me la storia d’un amore – unidirezionale certo – la storia di una fissazione, a sort of homecoming verso un topos permanente della mia vita subliminale.
Ho amato questa raccolta di singoli che avevo clamorosamente ciccato al tempo della loro uscita come si ama dell’amore che fa male, ascoltandola in una vicinanza solo fittizia, sottendente tuttavia un baratro incolmabile. E ascoltandolo un numero di volte tanto esteso che neppure la mia copia in vinile di “Hatfull of Hollow” ricorda.
La vita crepita tra questi solchi come l’attesa di un’immagine imprevedibile, con cui mischiarsi nella luce fantasmatica di attimi congelati per sempre; come se oltre le leggere tendine della percezione, se solo osassimo guardarvi in trasparenza, si stendesse una periferia uniforme e riverberata, un grigio e inattingibile miraggio.
Ho vissuto in quell’ombra di luce suburbana, sono scivolato nel silenzio del suo rumore e ho vagheggiato un oltre che non c’era. Ho trascorso anni su “Suburban Light”, interrotto solo da incombenze routinarie. Per esso ho coniato categorie, indossato i panni del divulgatore dissennnato, tempestato la rete di recensioni sentimentali (un po’ come questa, ma peggio); attorno a quella luce avellare ho celebrato le più dense tra le mie malinconie, riconoscendole come altrettante ghiande.
Infine, due parole scambiate epistolarmente con Alasdair:
Non so se siete un gruppo pop. Per me, suonate più come un sorta di crepuscolo del pop, oltre che “pop crepuscolare”. Avete deciso di bandire le luci dirette e vivete di riflessi? Siete esseri decadenti?
C’è una canzone di John Cale che parla di un uomo che ascolta la radio e si convince che esista una “radio land” lontana dove le orchestre suonano in continuazione e che noi uomini possiamo solo ascoltare, ma mai raggiungere. Sente che questo luogo è casa sua e sa di essere destinato a cercarlo per sempre nelle onde radio. Volevo che i Clientele suonassero come quel luogo, un mondo teletrasportato da qualcosa di misterioso e lontano nel tempo e nello spazio. Un luogo che facesse sembrare misteriose a chi ascolta anche le cose più ordinarie.
Volevo che suonassimo in questo modo perché mi sembrava la cosa più naturale, il logico passo avanti per la musica pop. Mi aspettavo che avremmo avuto un grande successo; nel 1997 volevo che diventassimo un estremo surreale del movimento Britpop. Non credo che ciò abbia nulla a che fare con la decadenza, anche se come individui possiamo essere o non essere decadenti.
Qualsiasi cosa siate, create dei forti stati mentali. Credete sia merito dei due/tre trucchi di studio che adoperate per le registrazioni?
No, perché ogni band usa due o tre trucchi di studio. Io sono fortunato perché ho sempre avuto una idea molto chiara di ciò che avrei voluto fare con la musica e di come ottenerlo, e dunque può essere che i nostri trucchi di studio siano stati scelti con maggiore attenzione o che siano più inusuali.
Qual è la genesi dei vostri pezzi?
Mi servono alcune ore di calma, una chitarra Spagnola, un dittafono, a volte anche una sbronza.
(A bruciapelo) il tuo pezzo preferito dei Clientele.
Dal catalogo completo dei Clientele, ‘Monday’s Rain’
Che genesi ha il “suono” dei Clientele? Voglio dire, scelta pianificata o fortunata alchimia di eventi in parte fortuiti?
Quando abbiamo cominciato a registrare avevamo un amplificatore per chitarra, uno studio portatile a 8 tracce e due microfoni. Con questo equipaggiamento spartano, l’unica produzione decente che potevamo creare è quella che senti su “Suburban Light: un suono vintage, piuttosto distante, autunnale. Suona in quel modo perché abbiamo dovuto usare il riverbero e la compressione sull’amplificatore per chitarra piuttosto che avere effetti digitali hi-tech.
Ma la necessità aguzza l’ingegno: dato che non avevamo un equipaggiamento decente siamo stati molto attenti a dove piazzavamo i microfoni e a come le cose suonavano prima di metterle su nastro. Quindi il suono è scaturito sia dal caso che dalla pianificazione.
Qual è la differenza tra una buona e una brutta canzone?
Credo ci sia qualcosa di buono in ogni canzone. Ma in realtà non esiste il bello e il brutto, solo l’interessante o l’irrilevante, l’utile o l’inutile.
La vostra musica non sa di molto altro, eppure è gravida di una tradizione. Qual è il vostro background musicale? Con che artisti – se ci sono – sentite un forte legame?
Ho imparato a suonare la chitarra classica quando ero un ragazzo. Sono cresciuto ascoltando i Carpenters e i Beatles, ma per me il momento più importante è stato l’inizio degli anni ‘90, quando ho scoperto band come i Felt e i Loft proprio mentre si stavano sciogliendo e passavano di moda. Nello stesso periodo ho cominciato ad ascoltare band psichedeliche come i Love e la West Coast Pop Art Experimental Band. Credo di aver consumato all’osso i miei dischi degli anni ‘60 e ‘80. Oggi apprezzo il minimalismo, un po’ di dub e di jazz.
Che rapporto avete con la musica come arte? La intendete come un mezzo dialogante con il presente o come una mera arcadia, un paradiso artificiale sonoro?
Credo che la musica possa evocare nel cervello della gente immagini e memorie che si trovano oltre ciò che le parole possono esprimere. In un certo senso è affascinante. Oltre a questo non ci penso molto, perché la mia opinione sulla musica è istintiva.
Come immaginate i vostri ascoltatori? Dove vi piace immaginare che ascoltino la vostra musica? Con chi? Perché?
Non ho idea di chi siano i nostri ascoltatori. Alcuni ragazzi americani mi hanno detto che i nostri dischi sono un aiuto per sedurre le ragazze. In Svezia la gente sembra vederci sempre qualcosa di filosofico, e dunque si siedono in silenzio e ascoltano ogni parola.
Non immagino mai veramente chi ci ascolta, ma mi piace pensare che potremo ispirare futuri artisti a creare il loro mondo, senza guardare al successo o alla fama, come gli Spacemen 3 e i Felt hanno ispirato me quando avevo 16 anni. Anche se devo ammettere che mi fa piacere pensare che la gente usi i nostri dischi come un aiuto al romaticismo!
Il libro, il disco, il film e la donna che porteresti sull’isola deserta.
Libro: Moby Dick
Disco: Chopin Preludes and Nocturnes
Film: The Producers
Donna: Elisabetta I
Come ti senti quando ti mancano le parole e l’unica risposta possibile a domande strane poste via mail è “vaffanculo”? (avevo domande migliori, ma volevo fare autocritica)
Ha ha, non ci sono state domande simili in questa intervista.
In copertina: “Suburban Light” (front cover, The Clientele, 2000)
ma quanta bellezza! questa è letteratura.
grazie di tutto.