La persona superficiale che vive in me raramente entra in conflitto con la parte del corpo incline a ragionamenti articolati.
Il mondo, a parziale torto, tende a considerare assennata perlopiù quest’ultima. Nella mia persona fra le due sussiste un patto implicito e tale patto statuisce la chiara coscienza che in “condizioni normali” (ovvero buona salute, umore gioviale, desiderio di dare soddisfazione al corpo e godere la vita) a guidare le danze sarà inequivocabilmente cooptata la prima. La seconda, che per una serie di sfortunati accidenti ha giocato nella mia biografia un ruolo prominente sia in termini di durata che di riconoscimento esterno, sarà invece deputata a “dare un senso” a tutte quelle condizioni di sofferenza in cui il corpo, privato delle energie più fresche, lascerà defluire tossine verso l’encefalo, avendone in cambio sintesi e analisi non immediatamente indispensabili alle quattro/cinque prescrizioni necessarie alla vita in senso pieno.
Da studente di filosofia ho sempre nutrito il dubbio che la metafisica fosse un altro nome per “truffa”, the great philosophy swindle. Se l’uomo è l’ultimo modello disponibile di scimmia antropomorfa le cui propaggini culturali si sono ineluttabilmente step by step morfizzate in armi chimiche e smart tv, che posto riservare alla superstizione del “pensiero fondante”? Che investitura residuale conferire al Buon Dio (buon?)? Le “verità” filosofiche che, a differenza di quelle di fede – impossibilitate a nascondere pudicamente la loro evidente natura di burla – presumono di fornire un fondamento razionale alla realtà, mi sembrano da lungi affini alla ‘falsa prospettiva di profondità’ offerta dal banale gioco degli specchi opposti. A osservare il fenomeno senza esser avvertiti della natura di specchio dello specchio se ne coglie uno s-fondamento di profondità che si rivela però totalmente fittizio possedendo chiara coscienza della peculiare qualità del “materiale riflettente”.
Poiché lo slancio prometeico dell’uomo non ha nelle proprie corde il tornare sui propri passi (avendo nel frattempo edificato un imponente edificio di sperequazioni sulle conseguenze pratiche di quella fallacia ottica) i due specchi, pur smascherati, continueranno a spacciare quella superficie per profondità.
Nessuno potrà percorrerla (ricavandone piuttosto un bernoccolo o una contusione) eppure tutti dovranno perseverare nella loro vita assumendo come presupposto l’esistenza di quello spazio solo simulato. In quel luogo giacciono da secoli le idee platoniche e l’infinita schiera delle loro eredi. I cristiani suppongono che l’ostia consacrata sia davvero il corpo di Cristo. Ecco, a me l’esistenza d’una qualsivoglia “verità filosofica” sembra qualcosa che possa sostenersi soltanto con la stessa veemente apoditticità di chi afferma di nutrirsi domenicalmente di brandelli di corpo del proprio salvatore.
Quanto risibile può considerarsi la “storia del pensiero” d’un animale capace di scatenare sanguinose guerre pur di affermare l’unica, duplice o triplice “natura” del proprio (presunto) redentore? È come se tutti presumessero d’aver visto lo stesso fantasma e soltanto una parte di loro possa però ricordarlo bene. Permanendo nello stesso abbaglio sarebbe stato infinitamente più pacifico e saggio presupporre di aver visto tre fantasmi diversi (frutto della pesantezza di tre cene diverse), ugualmente degni di vivere nel mondo delle pie speranze. Perché ciò non è stato stato possibile? Perché la verità non pone semplicemente domande alla mente teoretica. Vuole delle risposte per un dominio estremamente pragmatico. La verità dovrà essere una come uno sarà il principio a cui obbedire (Dio, Re, Legge, Stato, Bene, Motore Immobile, Materia, Spirito etc…).
Il Rock, e lo scrivo maiuscolo per scimmiottare qualunque cosa presuma di meritare tale pompa, è politeistico. Per quanto vi sia una non ignorabile percentuale di idolatri ossessionati da uno -e uno soltanto- tra i milioni di artisti possibili, ostinatamente indisponibile a farne coesistere il santino nel proprio altare mono-teistico e mono–tematico (e trattandosi fortunatamente di una minoranza), il rock si presta a scelte di costellazioni del tutto customizzabili a partire da criteri tanto impalpabili quanto capricciosi. In tale capriccio e in tale impalpabilità consiste la sua grandezza, pronta a sottrarsi a qualunque gerarchizzazione definitiva o ipostasi docimologica, sogno globale di chiunque non sappia farsi bastare la -a volte gioiosa a volte tragica- anarchia che agisce al fondo del vivente.
Nondimeno uno dei più incentivanti piaceri alla base dell’indefessa produzione di musica rock risiede nell’infinito pontificare che esso richiama: pur non dandosi verità o scale misurabili assolute, con un poderoso colpo di reni tali mostri teorici tentano costantemente di impadronirsi del discorso sulla musica, alimentando l’inestinguibile logomachia dei fan, logomachia che, quando non scada nella mera volontà di violenza, è uno dei veri piaceri della vita dell’ascoltatore. Combattere come se vi fosse una verità, anche se non c’è; parlare della profondità dei due specchi, anche se non c’è.
Per quanto la musica si presenti come entità assolutamente autonoma, strutturata perfettamente a partire dalle sue regole intrinseche, la fruizione è animata da una fenomenologia totalmente altra. Della musica bisogna parlare, soprattutto se non c’è niente da dire. Il commento musicale è la crosta semisolida d’un cuore ripieno di sangue e cioccolato, magmatico e inconciliante. Certi dischi sarebbero letteralmente incomprensibili, o addirittura inascoltabili, senza il proprio booklet o, ancora meglio, la propria monografia postuma allegata.
Per esperienza personale so che non avrei mai potuto ascoltare un disco jazz per intero se nel tempo non mi fossi lasciato irretire dalla sterminata produzione letteraria e musicologica gravitante attorno a esso. La mia “ignoranza” in materia non mi avrebbe dato scampo, sovrapponendo l’autocommiserazione al piacere dell’ascolto. Ducunt fata volentes.
La vulgata attorno alla musica è un tratto essenziale della musica stessa che, almeno in parte, scalfisce l’assunto secondo cui la musica sia del tutto autosufficiente.
Autosufficiente non sarebbe neppure se, poniamo per celia, la musica fosse un mostro, un Grande Antico lovecraftiano che per riprendersi la Terra dovesse farsi suonare e ascoltare da tutte le formiche usurpatrici del pianeta; o se fosse una pianta infestante e carnivora che seducesse tutte le vecchine del mondo con colori sgargianti per poi farne un solo boccone.
No, preferisco pensare la musica come uno dei tratti migliori dell’altrimenti esecrabile essere umano; averne scoperto l’esistenza e reso di vasta praticabilità l’esecuzione è uno dei suoi meriti maggiori. Merito che non viene scalfito neppure dall’avere utilizzato alcune tra le sue massime espressioni (Nick Drake, Cocteau Twins) per spot pubblicitari, come attesta il fatto che ricordi bene le musiche ‘profanate’ ma abbia assolutamente rimosso i prodotti a essi abusivamente associati.
Ma proviamo salvarci sia dall’essere snob sia dal non esserlo: la musica che ci piace è bella, e la bellezza non è mai cosa trascurabile. Solo: alla bellezza occorrono orecchie e non basta semplicemente propalare una composizione che riconosciamo come straordinaria affinché come tale sia colta. Vi sarà chi, ascoltando “Northern Sky” come sottofondo di qualche televendita, avrà desiderato sapere tutto del suo autore e, avendolo saputo, gli abbia riservato nel suo cuore gli onori che merita. Eppure un numero infinitamente maggiore ha continuato imperterrito a entusiasmarsi per i Negramaro. (Che si possano fare entrambe le cose lo annovererei tra gli insondabili misteri della mente umana).
Nick Drake è un autore formalmente “quieto”, usa strumenti dal suono classico e disteso; una fetta molto larga di pubblico però desidera che il castello di elezione del proprio gusto musicale sia difeso da fossati con i coccodrilli, catapulte e olio bollente. In altre parole non tollererebbe che dei tamarri musicali potessero affollare lo stesso sotto-palco da loro scelto per glorificare i propri idoli. Per accontentare questa tribù crescente di snob il Rock ha diversificato la propria proposta sino a produrre una Babele di sotto-generi. La battaglia dei sottogeneri non ha niente da invidiare alle dispute teologiche medioevali. Sotto motivi musicali nasconde questioni eminentemente psicopatologiche, ovvero umane in senso proprio.
Talvolta un sottogenere si qualifica tale per l’uso di un certo strumento piuttosto che un altro, o per il timbro del canto, o per il numero di dita di chi fa l’assolo.
Lo snob ulteriore, il suo modello più raffinato (che potremmo, per elevarne la sorte etimologica, chiamare dandy e a cui per buona creanza tutti dovrebbero tendere), è tuttavia colui che riconosce la secondarietà, di fronte alla Bellezza, delle questioni di mera etichettabilità. L’etichetta postrema, l’asintoto non ulteriormente sfondabile, è quello della “musica indefinibile”, ovvero lo specchio che rimira lo specchio, la parola che si nega nell’atto di affermarsi. Il che ci ricorda che le parole conviene sempre prenderle cum grano salis.
Io, come a un matrimonio il riso, provo a lanciarvi negli occhi questo doppio disco, a cui voglio talmente bene da non avere mai avuto davvero voglia di definirlo troppo: Normil Hawaiians, “More Wealth Than Money”.
Siamo nell’ambito di una musica certamente espressionista, incline a usare l’asprezza e la circonvoluzione come codici comunicativi. L’anno in cui venne fuori dalla testa d’un manipolo di giovani londinesi (1982) il punk defunto da un bel pezzo si era mutato in post-punk e il post punk offriva –nella vaghezza della sua definizione- un terreno molto ampio per la sperimentazione. Chitarre ora taglienti ora oblique, strani rantoli di corde strisciate con archetti, distorsioni, percussioni prima distratte poi marziali, voci dentro e fuori dal tono rassicurante della melodia, agonie industriali messe in musica, ritmi di pressa… sì, ok, ma quanti dischi semplicemente inascoltabili sono venuti fuori da questo tipo di “libertà espressiva”? Molti, e probabilmente hanno svolto un ruolo sociale: non fare impiccare altri adolescenti a là Ian Curtis e/o dare criteri settari ai giovani “guerrieri della notte” della musica.
“More Wealth Than Money” alle mie orecchie suona sincero perché colgo, al di là della “moda di essere liberi” del suo tempo, una passione che si concreta in bozzoli di musica densi di compenetrazione e gusto, la cui lacerazione riesce a ricucirsi quel tanto che basta per comunicarsi efficacemente. Per far questo occorre una qualità superiore. Quantomeno alla media.
E poi vabbè, vi do solo due titoli: “Yellow Rain” e “Sally IV”.
In copertina: “More Wealth Than Money” (front cover, Normil Hawaiians, 1982)
Caro Alessandro, sovente le tue lettere sono molto meglio degli oggetti che lanci.