di Daniela Pericone
Caravaggio, Morte della Vergine, 1605-1606 (Parigi, Louvre)
Nei primi anni del Seicento Caravaggio ottiene importanti commissioni a tema religioso le cui vicende seguono vie travagliate, sia perché le opere vengono respinte dagli stessi committenti, sia per le reazioni di scandalo suscitate dalle scelte figurative controcorrente.
Su incarico nel 1601 del giurista Laerte Cherubini per un dipinto da destinare alla sua cappella in Santa Maria della Scala, Caravaggio esegue qualche anno dopo una imponente Morte della Vergine. Ma il dipinto subisce il rifiuto dei Carmelitani rettori della chiesa a causa delle voci secondo cui, per ritrarre la Vergine, il pittore si sarebbe avvalso del corpo di una cortigiana morta per annegamento.
La tela si presenta con un impianto teatrale a cominciare dall’ampio drappo rosso che occupa la parte superiore e incombe come un sipario sulla scena. Gli apostoli sono assiepati intorno al corpo senza vita della Madonna e assorti nel compianto (tra questi, secondo da sinistra, è ritratto il committente Cherubini), appena sfiorati dalla luce, orientata a dare centralità al volto e al busto della Vergine. Anche la Maddalena in primo piano è esposta alla luce, ma ripiegata su sé stessa in un dolore così abissale da non cedere suono.
Tutti testimoni muti e attoniti dinanzi alla morte che va in scena senza solennità di paramenti nella sua cruda e scarna quotidianità. Perché la morte si mostra per sottrazione. Ancor più se la vita è appena cessata, se il momento è quello dello straniamento, in ottundimento i sensi e la ragione che non sanno ancora adattarsi alla brutalità della perdita. Il corpo della Vergine infatti non è stato ancora ricomposto, un braccio giace abbandonato di lato, una mano poggia sul ventre gonfio, i piedi sono nudi. Proprio questi i segni invisi all’ortodossia religiosa dell’epoca, e tali da rendere plausibili le dicerie sulla modella morta annegata.
Tuttavia non si dia motivo di contrasto solo nella scarsità di decoro o irriverenza, inaccettabile ai più è il pensiero dell’ordinarietà della fine.