“Questa tarda, tarda luce.
Io so: i fili luccicano”
Ciò che mi trattiene nei sogni è ciò che mi conduce. Essere alla mercè di forze contemporaneamente distruttive e conservative. Cataclismi, precipizi, morte, resurrezione, violazioni metodiche delle regole gravitazionali, incontri che sprigionano potenziali emotivi sopiti durante la veglia, connessioni libere da vincoli sociali e culturali, fantasia libera di violare la coercizione dell’ego.
Tutto ciò che lì avviene (e avviene) non muta la cogenza esteriore della veglia né mette a repentaglio la sopravvivenza, eppure è capace di modificare, finanche profondamente, la sua percezione interiore.
Da adolescente m’innamoravo di donne sognate, e scoprivo interesse per persone che in condizioni di riduzionismo desto restavano sullo sfondo distante dei miei interessi. Scoprii poi che i sogni non sono solamente sogni, ovvero luoghi disomogenei all’essere, che si ha per qualche motivo in sorte di “visitare”. M’avvidi insomma della circostanza per cui nessun sogno può sussistere senza colui che lo sogna; che nessun altro può penetrarlo al di fuori di chi lo produce. Essi sono esperienze paniche, in cui potenzialmente tutto e tutti possono rientrare, eppure, allo stesso tempo, esperienze fortemente monadiche, incomunicanti, solitarie.
Certi giorni finivano per essere tempi infiniti di privazione di luoghi o situazioni intensamente vissute, in qualche non-tempo, in qualche non-spazio. M’immergevo in una malinconia da separazione costante e inemendabile, in una delusione da non sequitur coattivo, tentando vanamente di riannodare il filo di quella vita sempre prematuramente assente.
Cercai poi, iniziando a essere adulto, di vivere più oniricamente possibile, allampanandomi quanto bastasse per disprezzare il più possibile le regole disgiuntive della ragione logica, vivendo la vita vigile in modo da assecondare connessioni solamente a me note, immergendo ogni decisione legalmente perseguibile in un continuum emotivo con la mia fantasmagoria notturna .
L’uomo che sogna intensamente ha due possibilità: scindersi da se stesso, recidendo la vastità della propria potenza creativa per affidarsi alla schematicità della ragione come unico ufficio di collocamento oppure riabbracciarsi, integrarsi, amarsi nell’inestinta panicità dell’orgia segreta delle cose.
Un giorno riflettei davanti allo specchio. Riflesso dalla riflessione, come un gambero presi ad allontanarmi dalla mia immagine. Un muro alle mie spalle m’impedì di scomparire, eppure i miei atomi, vieppiù flebilmente, continuavano a comunicare con lo specchio. Mi allontanavo dall’immagine come un razzo dalla terra, ma non rinunciavo a esserci. Immaginai gli infiniti sfondi dietro al muro, rette che fuoriuscivano dalla direzione terrestre intersecando altri mondi e altri specchi. L’atomo si rimpicciolisce meno lentamente dell’occhio che lo indaga e, a diverse grandezze, tutti gli atomi dialogano. Disconoscere quella corrispondenza accresce l’ufficio delle lettere morte.
La musica è la parete ultima, uno specchio dalle dimensioni del cosmo. Al suo interno i suoni s’intrecciano e dialogano fino a dimensioni totalmente invisibili all’occhio della mente. Consustanziale all’infinitezza dei sogni, più profonda del logos oculare che stende e classifica, essa interagisce nelle profondità dell’esperienza vigile, laddove agire ed essere agiti consistono nella medesima azione.
La società dell’efficienza si serve della musica come di uno strumento, afferrandone e mettendone a coltura piccoli brandelli incomunicanti, riempendone barattoli e colmandone gli scaffali, a immagine e somiglianza del nuovo cervello auspicato: nel flacone salvagoccia.
Ciò che esonda, sommergendo la mappatura dei settori è inequivocabilmente assimilato a eventi distruttivi e imprevedibili. La musica muore, soggetta a virus culturali che spadroneggiano in organismi indeboliti dall’endogamia spirituale.
Eppure l’universo non è più piccolo, o più povero: la sua grandezza e ricchezza pagano solo il pedaggio all’occhio che le osserva e le sfrutta.
Come Dio, – anzi nella sua coincidenza con Dio – l’universo s’è sottratto, assentato.
Anche Luciano Cilio decise, a trentatrè anni, di allontanarsi dal suo specchio, dopo aver fustigato “con parole al vetriolo le istituzioni sorde alle emergenze della cultura e indifferenti al percorso solitario degli artisti”.
Poche restano le tracce discografiche del suo breve percorso, alcune delle quali ancora non pubblicate, eppure il suo unico ellepì ufficiale, “Dialoghi del presente” (1977), possiede una forza irriducibile, capace di sottrarlo permanentemente all’oblio-da-sovraesposizione della società dello spettacolo. Scarsamente classificabile, sembra che abbia accolto tracce di sogni sparsi per adunarle in un flusso in cui i vuoti prevalgono sui pieni, le sottrazioni forniscono il risultato delle addizioni e il cosmo vibra come un’inquietudine composta, classica nel suo sanguinare.
Al crocevia di mente e anima, i “Dialoghi del presente” piaceranno a chi considera “Hosianna Mantra” uno dei vertici della spiritualità musicale occidentale o a chi, come me, piace vagare per i giorni senza avvertire alcun senso di colpa per le trascurate mille cose da fare.
Anche una sola cosa, da queste parti, affanna la purezza del respiro del vuoto.
In copertina: “Dialoghi del presente” (front cover, Luciano Cilio, 1977)
Un pensiero su “Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 43) Luciano Cilio”