Il Porto Proibito (volume brossurato di 312 pagine in bianco e nero)
di Teresa Radice, Stefano Turconi, Bao Publishing, 21 Euro.
Una notte del 1831 dalle acque al largo della Sicilia si formò un’isola che suscitò subito l’interesse di alcune potenze straniere. Alcuni pensavano che l’isola sarebbe diventata sempre più grande e sarebbe potuta essere un porto molto importante del Mediterraneo. Fu battezzata isola “Ferdinandea” in onore del sovrano del Regno delle Due Sicilie, ma francesi e inglesi reclamavano la sua proprietà. Ferdinandea, stanca delle liti, decise di inabissarsi dopo qualche mese. Sembra quasi che la leggenda dell’isola riecheggi fra le pagine de Il Porto Proibito, libro a fumetti in cui si parla di un porto al largo delle coste inglesi, regno di mezzo tra morti e non morti, tra vivi e non vivi. Solo poche persone riescono a vederlo. Fra questi Abel, un enigmatico naufrago trovato al largo del Siam mezzo morto, nell’estate del 1807, da una nave della marina di Sua Maestà Britannica. Abel di sé ricorda soltanto il nome. Diventa ben presto amico del primo ufficiale, facente funzioni di capitano perché il comandante della nave è, a quanto pare, scappato dopo essersi appropriato dei valori presenti a bordo. Abel torna in Inghilterra con l’Explorer, e trova alloggio presso la locanda gestita dalle tre figlie del capitano fuggiasco. Grazie all’incontro con Rebecca, tenutaria del “Pillar To Post” di Plymouth e a Nathan MacLeod, burbero scozzese a capo della Last Chance, una nave della Compagnia delle Indie, Abel scoprirà un’inquietante verità sul suo passato. Che dire di più? Il libro è stato premiato a Lucca Comics and Games come miglior Graphic Novel (ex aequo), ma i premi, serata degli Oscar docet, li danno a tutti (tranne a Leonardo Di Caprio e Stanley Kubrick ovvio). Il Porto Proibito non va letto perché è stato premiato a Lucca, ma perché storia e autori meritano, e tanto.
Intervista a Teresa Radice e Stefano Turconi,
fumettisti per la Disney, coniugati (non solo lavorativamente) e con prole.
Ci raccontate la genesi de Il Porto Proibito?
TR: Amiamo il mare, anche se abitiamo in pianura padana, amiamo le storie di mare, le navi, le avventure alla Stevenson per intenderci. È venuto naturale produrre una storia legata a questo tipo di avventure insieme. È la nostra prima storia per adulti perché noi siamo etichettati come autori Disney. Il Porto Proibito è uscito in maggio. Noi avevamo già realizzato la versione Disney dell’Isola del Tesoro, uscita due mesi prima, a marzo, però la lavorazione è stata parallela. L’isola del tesoro ha beneficiato di tutta la documentazione che avevamo raccolto per il Porto Proibito. L’Isola del Tesoro è ambientata un po’ prima, nel 1700, mentre con il Porto Proibito siamo nell’800.
Come vi organizzate dal punto di vista lavorativo?
TR: Lavoriamo a casa entrambi. Abbiamo due studi separati perché io di solito lavoro in assoluto silenzio, mentre Stefano ha bisogno di mettere su una musica che lo ispira o che c’entra con quello che sta disegnando. In realtà la nostra è una giornata normale come di due persone che vanno in ufficio. Sveglia alle 7, portiamo i bambini a scuola e all’asilo, torniamo a casa e lavoriamo finché non torniamo a prendere i bambini. Poi riprendiamo a lavorare fino a sera. Anche se lavoriamo separatamente la genesi delle storie è condivisa. Tutte le nostre storie nascono insieme, da un’esigenza di entrambi di raccontare qualcosa, dalla passione per un’atmosfera, per un periodo storico e via dicendo.
A questo proposito, come è stato il lavoro di ricerca per il libro?
TR: La ricerca è avvenuta sul campo. Abbiamo fatto due viaggi in Inghilterra, sui posti che poi appaiono nel libro. Io avevo già scritto la storia e sapevo cosa andare a cercare. Stefano invece conosceva la storia per sommi capi, non dettagliatamente. Il primo viaggio di vacanza-lavoro è stato nel 2013, per recuperare il materiale e rendere più credibile l’ambientazione del libro. Abbiamo studiato un itinerario, da intraprendere coi bambini, nella Cornovaglia, nel sud dell’Inghilterra, per scattare foto, girare nelle librerie e nei musei. Ci siamo fermati una settimana a Plymouth per scattare le foto e decidere dove piazzare la locanda, il cimitero che poi sarebbero apparsi nel fumetto. Il lavoro di disegno è iniziato dopo il lavoro di documentazione. L’anno seguente, nel 2014, siamo tornati in Inghilterra, in un altro porto storico, a Chatham, e abbiamo fatto un altro tuffo in cose marinaresche. Abbiamo anche letto un sacco di libri. Stefano ha letto tutti i libri di Patrick O’Brian, che sono più di venti (da uno dei suoi libri è stato tratto il film Master and Commander di Peter Weir, ndr.). Abbiamo fatto arrivare della documentazione dall’America, come il volume sulle divise napoleoniche che era ormai fuori produzione. Sono stati più di due anni di ricerca. La ricerca continuava anche mentre lavoravamo. Stefano ha costruito il modellino della Last Chance, mentre stava lavorando. Si accorgeva di un errore su una vela e tornava a modificare il disegno della nave nelle tavole.
A quale tavola siete particolarmente affezionati?
TR: A molti lettori è piaciuta la prima notte che Nathan e Rebecca trascorrono insieme, la tavola muta in cui sono a letto e, mentre dormono, si avvicinano. Però siamo affezionati a molte tavole del libro. Per esempio per me sono importanti alcuni momenti: l’unico bacio del libro; quando Abel suona il violino; la tavola nel cimitero, quando Rebecca va a portare i narcisi ai suoi.
Il libro è diviso in quattro atti, i primi due sono incentrati su Abel, gli altri due su Nathan. Chi è il reale protagonista?
TR: In realtà non ho costruito la storia con una logica narrativa all’americana, incentrata su un solo protagonista. La storia è stata architettata per filo e per segno, ovviamente, ma è uscita quasi di getto, come fosse un’esigenza. Non avevo pensato che all’inizio si partiva con un personaggio e poi si finiva con un altro, però è come se i personaggi si passassero il testimone tra di loro, e noi ci immedesimiamo in ognuno di loro. Poi ci sono anche altri personaggi in cui ci immedesiamo. Per esempio, alcune riflessioni di Rebecca sono venute fuori da nostri dialoghi. Per schematizzare, Abel è chi parte, Nathan è chi resta. Entrambi si occupano delle tre sorelle.
Chi sono Tata e Abele, a cui si dedica il libro alla fine?
TR: Sono entrambi miei zii. Erano fratelli, purtroppo partiti prematuramente. Sono due persone care a cui la storia è dedicata. I personaggi con loro hanno dei punti in comune, oltre al nome. Erano viaggiatori, molto allegri, pieni di vita, delle belle persone da tenersi sempre dentro. Ognuno quando scrive mette dentro le storie alcune vicende che ha vissuto, però nascondendo e dissimulando. La caratterizzazione grafica non risponde alla descrizione dei miei zii, eccetto per il fatto che Abel era biondo. È stata la mia unica richiesta a Stefano. Di solito non do una descrizione fisica dei personaggi, ma solo psicologica: descrivo atteggiamenti, paure. Sulla base di quello Stefano crea graficamente il personaggio. L’unica richiesta che ho fatto stavolta è che Abel fosse biondo.
Riguardo alla collaborazione tra di voi, quanto sono dettagliate le sceneggiature?
TR: C’è molta libertà tra di noi. È vero che lavoriamo in uffici separati, ma ci vediamo e ci confrontiamo di continuo. Genericamente io scrivo la sceneggiatura, Stefano la riceve e la traspone in tavole. In realtà c’è tantissimo dialogo tra di noi mentre il lavoro prende forma. Se qualcosa non ci convince, cambiamo in corso d’opera. Di solito però andiamo molto d’accordo su come realizzare le tavole e i disegni di Stefano corrispondono al progetto iniziale.
Qualche aneddoto particolare?
TR: La cosa più difficile per noi era realizzare la scena d’amore fra Nathan e Rebecca. Noi siamo considerati autori Disney, per bambini. Era il primo momento adulto di una storia che dovevamo raccontare. C’è stata molta “ansia da prestazione” diciamo, da parte di entrambi. Alla fine sono state tavole molto apprezzate dai lettori. Hanno funzionato.
Qual è stato il vostro primo incontro con i fumetti? Come avete iniziato a lavorarci?
TR: Per me il primo incontro è stato Topolino. Da piccola andavo dal nonno e c’era questa cassapanca piena zeppa di Topolino e Alan Ford, la collezione di mio zio Abele, di cui ho già parlato. Alan Ford all’epoca non mi interessava perché era in bianco e nero, quindi leggevo solo Topolino. La passione per i fumetti è continuata negli anni. Sebbene sia laureata in lingue ho sempre avuto la passione per la scrittura. Una volta esisteva l’Accademia Disney, che con la crisi ha chiuso. Formava gli sceneggiatori e i disegnatori Disney. Una scuola piena di paletti e di regole rigide dove ho imparato i rudimenti del mestiere. Queste regole servono a creare una storia Disney, ma poi si possono applicare anche ad altro. Dopo l’Accademia ho frequentato altre scuole, master brevi soprattutto, magari di dieci giorni, in Italia e all’estero.
ST: Per quanto mi riguarda il primo incontro coi fumetti è stato con Goscinny e Uderzo. Asterix e Cleopatra, era un fumetto di una mia zia. Tra l’altro me l’ha prestato e non gliel’ho mai restituito. Poi ricordo Asterix e il Regno degli dei. Già da bambino copiavo i disegni di Uderzo. In seguito è arrivato Topolino, ricordo per esempio Guerra e Pace di Giovan Battista Carpi. Quello è stato il mio battesimo fumettistico. Mia madre ha un fumetto mio che avrei fatto a tre anni, poi stai a vedere se è vero. C’erano un Pippo e un Topolino, ovviamente fatti da un bambino a tre anni, però si distinguevano. Anche per me la passione dei fumetti è continuata. Ci sono diverse strade affinché la passione si trasformi in mestiere. Alcuni ci arrivano da autodidatta. Io ho frequentato il liceo artistico, dove ho ricevuto le basi fondamentali per il fumetto: prospettiva e anatomia. Poi ho frequentato l’Accademia di Belle Arti che sconsiglio caldamente perché, secondo me, per produrre fumetti non serve. Il fumetto è un lavoro da artigiano, non da artista. Belle Arti concede troppa libertà. Il fumettista invece deve comunicare, essere chiaro, muoversi dentro le regole. Durante gli anni all’Accademia di Belle Arti, seguivo contemporaneamente i corsi della Scuola del Fumetto a Milano, dove poi ho insegnato. In seguito ho frequentato anche io l’Accademia Disney. Un corso molto intensivo. Uno dei miei insegnanti era Alessandro Barbucci, che ha lavorato anche nel campo dell’animazione con Monster Allergy. Ho imparato molte tecniche utili per il mio lavoro. Adesso ci sono le scuole di fumetto, ma alla base c’è studio e passione. Bisogna copiare tantissimo. Copiare gli autori che ci sembrano simili a noi, che ci piacciono.
SA: Cosa leggi adesso? A quali autori ti ispiri?
ST: Amo Cyril Pedrosa, non solo quello di Tre Ombre, che riconosco anche come ispirazione per Il Porto Proibito, ma le altre opere: Portugal, Gli equinozi. Sono stato un lettore di Hugo Pratt, Sergio Toppi, Dino Battaglia e Attilio Micheluzzi. Non sono mai stato un lettore di fumetti seriali. Ho letto solo Nathan Never di Medda, Serra e Vigna, e Ciber Six di Trillo e Medina, ma dopo un po’ mi stufavo, perché amo cambiare i fumetti.
SA: Dalla lettura de Il Porto Proibito si evince che avete una gran passione per i viaggi. Come avete portato la passione per i viaggi nel vostro lavoro?
ST: Io e Teresa abbiamo viaggiato tanto assieme. Siamo stati in Russia, Irlanda, Algeria, Canada, Grecia, Romania, ecc. Da quando sono arrivati i bambini programmiamo viaggi più tranquilli, soprattutto in Europa. Per esempio quest’estate siamo stati nel nord della Francia. Teresa porta il diario per scrivere; io porto gli acquarelli. Quasi tutti i nostri viaggi sono finiti nei nostri lavori. Il viaggio in Algeria e il viaggio in Grecia sono diventate storie per Topolino. In questo libro c’è sia il viaggio in Cornovaglia, ma anche un viaggio in Thailandia. Esiste davvero la Chicken Island, nel mare Andamano. I disegni sono tratti da fotografie scattate da noi. Ricordo che abbiamo girato l’isola con una jeep scassata, andavamo nei parchi, nelle foreste, in modo autonomo.
SA: Se doveste scegliere di essere un personaggio dei fumetti?
TR: Pippo perché mi somiglia: è svagato, un po’ hippie, la sua visione laterale delle cose mi piace molto.
ST: Obelix, ma non so perché.
Giancarlo Lupo