“Poi tutte le volte tornavano a casa e il bambino si chiudeva nell’unico posto in cui si sentiva al sicuro, che non era un luogo, ma un sentimento, ovvero la nostalgia. Di quel sentimento il bambino aveva tutte le chiavi. La sua porta era l’unica che il padre e la madre non potevano aprire. Era lì dentro che il passato, con tutta la sua amplificata bellezza, accoglieva il bambino. Dentro quel sentimento il bambino passava la maggior parte del tempo. C’erano vetrate grandi da cui si vedevano i boschi e oltre i boschi il confine, e c’era un corridoio pieno di luce e tappeti e foto della bambina. Dentro la nostalgia era sempre contento, perché tutto era già successo e non doveva avere paura di niente. Per essere felici, pensava il bambino, sarebbe bastato non uscire mai da quel posto di cui aveva le chiavi. La felicità, si diceva camminando sui suoi tappeti rossi e guardando fuori dalle finestre, era chiudere a chiave le cose belle che erano successe. Diventare grande con le cose che aveva vissuto, e poi non vivere più. Quando lo pensava, il bambino accarezzava il suo dolore e si sentiva finalmente felice. E, tra tutte le cose, quella era la cosa più triste” (Andrea Bajani, Un bene al mondo, Einaudi, pp. 27-28).
Le parole creano un mondo. Un mondo di gioie fugaci, di sofferenze interiori e di eventi inattesi, di personaggi, di cieli, di neve, di boschi, fiumi, montagne, uccelli. E, soprattutto, di tormenti, e della loro memoria intermittente, che accompagnano bambini e adulti nel loro viaggio, alternando rimozioni e scoperte.
Al centro della storia, un bambino, il suo dolore e una bambina sottile a cui scrivere la propria storia. Intanto, il mondo degli adulti non sa che farsene dei suoi dolori e tanti vivono in un bolla destinata a scoppiare, senza consapevolezza e senza un disegno, in un paese che delimita i confini, anche se non per sempre. Poi, all’improvviso, complici gli eventi, il protagonista decide di partire in treno verso un altrove, verso una città sconosciuta. Incontra nuovi volti, nuove realtà.
Il nuovo romanzo di Andrea Bajani, “Un bene al mondo” (Einaudi), crea un linguaggio che unisce infanzia, adolescenza, sogno, fantasia, la spinta alla bellezza di chi è bambino e uno sguardo più maturo sull’esistenza. Il tutto senza giudizi, sovrastrutture o analisi psicologiche, ma attraverso il filtro di una scrittura che “diviene” le cose che racconta, nello sforzo di trovare un linguaggio infantile e adulto al tempo stesso. Una scrittura che scorre e fa emergere un’idea del mondo e della letteratura tramite il fluire degli accadimenti, intrecciati in uno stile poeticamente evocativo.
In un romanzo dove le parole sono “maniglie” per entrare in contatto con la sofferenza, in un confronto esplicito tra favola e racconto o apologo per adulti, ritroviamo, tra gli altri, echi di Italo Calvino, e della sua passione illimitata per la fantasia e la creazione, e del Saramago di Cecità.
In questa invenzione continua, fino all’epilogo, ci sono bambini che diventano grandi imparando a convivere (con alti e bassi) con i propri dolori, qui veri e propri personaggi che seguono i loro padroni e a volte disubbidiscono, e padri che invece li scagliano contro i figli perché incapaci di diventare davvero adulti.
Ci sono madri che cucinano cibi senza sapore. Ci sono violenze e crudeltà, spazi per reinventare la vita ed esseri che si perdono e si ritrovano alla ricerca di un senso e di una bellezza spesso soffocati dal presente.
Su tutto dominano l’assenza, la memoria, l’umanità e la dimensione onirica, la fine e un nuovo inizio. Con un uomo che si siede a un “tavolo, accanto alla finestra, apre un quaderno, apre una pagina nuova” e fa correre lì dentro un dolore. Un dolore universale e speciale come quello di ogni essere umano.
Con uno stile profondo e leggero, Bajani ci guida negli abissi della scrittura, della vita e del mondo, creando un ponte tra l’infanzia e l’età adulta, il non detto e la letteratura. Fra ciò che si è stati, ciò che avrebbe potuto essere e ciò che si diventa durante il difficile mestiere di vivere.
Come scrive Paolo Di Paolo (“il Venerdì di Repubblica”, 28 ottobre 2016), “Un bene al mondo è una fiaba e insieme il suo rovescio, un sortilegio triste, che all’improvviso diventa un incendio – un’onda di calore quasi insostenibile, da quando l’uomo inizia a scrivere a lettere”, dando “forma verbale, perciò un corpo, al dolore senza nome che accompagna la vita di un bambino”. Un romanzo originario, secondo la felice definizione della scrittrice Nadia Terranova.
Già autore degli apprezzati (tra gli altri) “Se consideri le colpe” (2007) e “La vita non è in ordine alfabetico” (2014), sempre per Einaudi, Bajani è uno scrittore che si fa conchiglia dentro l’abisso e scava per capire chi siamo, dedicando il suo viaggio ai “bambini che siamo stati” e a “quelli che, crescendo, siamo diventati”. La sua scrittura genera sofferenze, ricordi, riflessioni. E qualcosa si sedimenta in profondità, tra ombre, segni, riflessi, apparenze, cose reali o solo sognate.
Marco Olivieri
In copertina: La mappa del paese, illustrazione di Mara Cerri.
Progetto grafico: Bianco.
“Si faceva conchiglia in fondo all’abisso. E dal fondo dell’abisso, nell’oscurità più assoluta, sperava che qualcuno lo venisse a salvare. Ma sapeva anche di essere l’unico che poteva nuotare fino a laggiù”. (p. 87).
“Ma il tempo passava, la via di fuga non si trovava, e le parole rinchiuse avevano cominciato prima a tacere e dopo a morire. Perché anche una parola, se non ha nessuno a cui dire una cosa, smette di vivere. Era stato così, senza accorgersene, il bambino si era riempito la pancia di parole morte, andando in giro per anni con dentro un cimitero di cose mai fatte e di frasi mai dette.” (P. 98).
Per interessanti chiavi di lettura sul romanzo: leggi
http://www.minimaetmoralia.it/wp/la-mappa-un-bene-al-mondo/
Un pensiero su “Un bene al mondo di Andrea Bajani”