di Laura Di Corcia
Che cosa hanno in comune una mela, una patata, la cannabis e un tulipano? L’arcano si scopre leggendo “La botanica del desiderio” di Michael Pollan (Il Saggiatore, 255 pagg, 11 euro), un libro che colpisce non solo per riferimenti colti e sempre puntuali, ma anche per la capacità dell’autore – giornalista e e appassionato di tematiche legate al cibo – di proporre ampi inquadramenti storici e finissime considerazioni sulla natura delle cose, postille che appagano l’intelletto e che spesso si sciolgono in sorprendenti immagini poetiche. L’autore inizia attaccando una delle nostre convinzioni più radicate, ovvero quella di poter dominare la natura quando questa diventa “domestica”, asservita ai nostri bisogni: un melo, secondo il nostro punto di vista, sarebbe il risultato di una nostra azione direzionata e attiva cui risponderebbe la reazione passiva di chi (il melo, in questo caso) non possiede gli strumenti per decidere del proprio destino evolutivo. Una forma mentis, la nostra, rozza e superficiale, che non tiene conto del principio della “coevoluzione” (che potremmo definire un’evoluzione a quattro mani): se il desiderio di ogni specie è esistere e espandersi, risulta più intelligente il cane che il lupo, giacché il primo, rispondendo ai nostri desideri e stringendo con noi un patto di coevoluzione, ha posto le basi per una diffusione che il suo parente selvatico e boschivo manco si sogna. “La botanica del desiderio”, quindi, racconta dell’intelligenza delle piante – il melo, per esempio, ma tutti gli alberi da frutto, che allettandoci con la dolcezza dei frutti fanno in modo di espandersi e prosperare – ma non solo; osservando le stesse, possiamo capire meglio noi stessi e la raffinata sintassi dei nostri desideri. La storia del tulipano, a questo proposito, è emblematica: il fiore, che ebbe una grande popolarità nell’impero ottomano, giunse in Olanda tramite un ambasciatore e venne coltivato e fatto prosperare dal botanico francese Carolus Clusius, diventando a un certo punto una vera e propria ossessione per ampie fasce della borghesia olandese a tal punto da generare una vera e propria speculazione sul fiore, che a inizio Seicento eruppe nella famosa “bolla dei tulipani”, la prima bolla speculativa della storia del capitalismo. Il tulipano, che dalle ampollose atmosfere orientali giunse alle brulle terre d’Olanda – un paesaggio non proprio baciato dalla varietas – rispose all’esigenza di bellezza di una borghesia inquadrata, un po’ grigia e appiattita, che in quel sintagma appuntito vedeva il proprio opposto; la tulipomania, equiparata da Pollan ai bagordi carnevaleschi, era la ricerca di un’eleganza scomposta, mossa dal suo opposto. Ai tempi, infatti, i tulipani più ambiti erano quelli – oggi rarissimi – che presentavano delle screziature, a quanto pare effetto di un virus e quindi in seguito debellati: quelle increspature sembravano stravolgere la forma apollinea del tulipano, immettendovi improvvisamente e inspiegabilmente il dionisiaco, l’elettrone impazzito. È questo, spiega il giornalista, che cerchiamo nelle cose: esse ci appaiono belle quando ripropongono la regola e la sregolatezza, la sostanza pura e il caos originario. Dioniso ci porta dritti dritti al tema del selvatico, molto presente nel primo capitolo, quello sul melo, prosperato in America grazie a John Chapman, noto anche come Jonny Semidimela; ambientalista, ecologista, camminava a piedi nudi portando il messaggio cristiano. Un animo in bilico fra natura selvaggia e società civile, quindi pienamente calato in quella trama di rapporti chiamata “coevoluzione”, che ha portato piante e uomini a utilizzarsi a vicenda al fine di sopravvivere ed espandersi. La parte finale del libro, quella sulla patata, tira le somme: la storia del tubero, che si rivelò prima una manna per l’Irlanda e poi una feroce sciagura, mette in guardia dal pericolo delle monoculture. L’indice è puntato contro gli OGM, nello specifico le patate New Leaf della Monsanto: Pollan è troppo attrezzato per rinvenire in loro il male, ma propone un monito. Piante e uomini, selvatichezza e civiltà non devono mai cessare di dialogare. Il nostro tentativo di controllo della natura non può passare una soglia, una cortina invisibile e ciò nonostante ben presente al buon senso: se Dioniso sconfigge Apollo son guai, ma attenti anche al percorso inverso. La civiltà sta in piedi sono se sa contenere un nucleo incontrollabile e incontenibile di quel selvatico che Jonny Semidimela rappresenta come ipostasi.