«IL BISOGNO DELL’ASSOLUTO E DI CINQUANTA LIRE».
I QUADERNI DI ANTONIO BRUNO
VII parte
di Antonio Lanza
Sostiene di avere ventitré anni, è simpatico il giovanotto, più di voialtri, continua la cameriera, poggiando confidenzialmente una mano sulla spalla di Aniante. Come fa poi uno che dice di essere nato nel 1900 ad averne ventitré, di anni, dato che, a quanto mi risulta, siamo nel 2016, questo è un mistero; ma siete tutti scrittori, oggi qua, no?, e mi sa che siete tutti strambi, voi scrittori, e i misteri sono il vostro pane quotidiano. Che, c’è un convegno stasera, o qualcosa del genere? Ad Acitrezza, magari: non so, su coso, lì, tiro a indovinare, aspettate, quello scrittore invece famoso, più famoso di voi almeno, quello che parla di pescatori, che si studia a scuola, com’è…?
La piazza di Acicastello comincia intanto a svuotarsi. Si sente un buon odore di frittura di pesce giungere dalla cucina del bar o dalle porte spalancate dei primi piani di qualcuna delle case vicine. Non so con esattezza che ora sia, ho un po’ di fame e fa caldo. Luigi La Rosa dà una sbirciata al telefono. Una donna passa con le buste della spesa, guarda la scena che si sta svolgendo tra i nostri tavoli con una curiosità da spettatrice, poi svolta l’angolo.
Prima di tutto, dice Aniante alzandosi con un libro in mano e avvicinandosi, ditemi voi se questa è carta che può definirsi scadente. Lo posa sul tavolo tra me e Luigi. È il mio primo libro, sfogliatelo, l’ho appena stampato: che ve ne pare?
Che è volgarissima carta e che veicola volgarissimi contenuti, risponde per noi Bruno. Perché non leggi loro la prima novella, così che ne abbiano anche loro un’idea?
Mi strappa la copia dalle mani senza lasciarmi il tempo di formulare un giudizio sulla carta, e va bene!, mi guarda astioso, fate anche voi parte del codazzo dei bruniani, ma sappiate che siete rimasti in pochi, ormai, e in cattivissima compagnia, poi: gli è rimasto amico soltanto quel giornalista del Corriere di Catania, quel Giuseppe Mauro Ittar il cui cognome è brutto tanto quanto la sua zazzera, e qualche altro povero diavolo: Ercolino Patti, per esempio, ma solo perché, giovane com’è, adora fare ancora i dispetti allo zio Peppino Villaroel e prendersi allo stesso tempo gioco di tutti e due…
E sarei io quello velenoso! Me ne infischio, Bruno batte un pugno sul tavolo, dell’amicizia e della stima dei catanesi, dei presenti e degli assenti! Solo dell’approvazione di Verga mi interessava, il più grande di tutti noi, e l’ho avuta, eh se l’ho avuta! Invece di dare giudizi in merito a cose che poco la riguardano, ci legga qualcosa: i miei amici qui, Antonio e Luigi, che del resto ho appena conosciuto, non le lesineranno elogi, nel caso la sua scrittura, ma dubito, ne meritasse.
Questi sono pazzi, s’infuria la cameriera, ma perché vi scaldate tanto? Perché non conservate questa animosità per il convegno, perché venite a fare baldoria proprio qui? Tieni una sedia, tu, stai comodo se vuoi leggere. Finisce che mi avete incuriosita e me la prendo anch’io una sedia, e ti ascolto. Ma che racconto sarà mai?
Non voglio nessuna sedia, preferisco leggere in piedi.
Attratta dalle grida, la signora con le buste fa di nuovo capolino dal vicolo dove era poco prima sparita, ne posa una a terra, la più piena, si guarda il palmo, apre e chiude la mano intorpidita, si mette a guardare, mi pare di essere il solo a notarla.
Renata la candida e il gobbetto malizioso, è il titolo, precisa Aniante, si schiarisce la voce.
Il gobbetto, lo preciso soltanto per farvi gustare meglio la novella, e addirittura, poi, malizioso, sarei io, lo interrompe Bruno.
Non è un dato così necessario alla sua comprensione, il tuo appunto, gli fa notare Aniante.
Ma per rimarcare quanto sei poco aduso a elevarti nella scrittura e anzi, a servirti della sacralità della scrittura per le tue bassezze, beh, il mio appunto è necessario sì, e desidererei che i tuoi ascoltatori, qui, ne tenessero conto.
L’avevamo intuito che potesse essere lei, interviene la cameriera prima di rendersi conto di risultare indelicata. Ma lo lasci cominciare, adesso, la prego.
Per me scrivere non è uno strumento di elevazione. Se ci si eleva troppo, si rischia di non vedere più cosa avevamo sotto i piedi, non le sembra? E a me interessa raccontare di quello che posso calpestare con le suole delle scarpe. A guardare troppo le stelle, caro Bruno, si rischia di inciampare. Ma se mi è permesso, ora, comincio volentieri.
E al nostro assenso, Aniante inizia a leggere:
Non mi ricordo più per quali motivi io abbia lasciato l’alta carica dei Sogni Imperiali, passando a far parte di un modesto ufficio consolare troppo a contatto con la realtà dura della vita. Dovevo, dalla mattina alla sera, aver da fare con una moltitudine di poveri emigranti disoccupati e dovevo per tutti avere buone parole, toglierli da ogni imbarazzo sia grave o no, con una facilità miracolosa e nel più breve spazio di tempo. In tale lavoro febbrile e pesante sciupavo le mie migliori energie, mi abbrutivo e mi perdevo di vista ogni giorno di più. La degna mia compagna della sera, fu, in questo periodo di lavoro acceleratamente umanitario e avvilente, una operaia di nome Renata, che lavorava undici ore al giorno, trine e ricami. Renata, piccola fanciulla gentile e modesta, era forse, quando io la conobbi, la più povera delle operaie parigine.
Paccottiglia, ammasso di già sentito, sciatteria della lingua unita a megalomania dello spirito, assenza totale di stile, strilla Bruno al nostro indirizzo, come volendo da parte nostra una conferma.
Per l’amore del vero, interviene Luigi, a me pare che sia esattamente l’opposto: una lingua piana ma efficace; l’attacco è intrigante, reale e allo stesso tempo immaginifico: il lettore viene subito trascinato per il bavero dentro la materia del racconto, senza fronzoli; mi pare ottimo.
Bruno illividisce di rabbia. Il suo sguardo si sposta su di me, che abbasso gli occhi al tavolo per non irretirlo ulteriormente confermando l’impressione di Luigi.
Io non ne capisco molto, fa la cameriera, ma mi pare che lei la prende troppo sul personale: il suo giudizio, dico, non è sereno.
La serenità l’ho persa ascoltando tutti voi, idioti imbrattacarte; e lei, poi, continui a servire ai tavoli e non si improvvisi critica letteraria o, peggio, psicologa: io sono lucidissimo, le dico. E tu, non nasconderti dietro a un dito, cosa ne pensi di questa novella?
Non trovo sufficiente averne ascoltato l’incipit per esprimere un parere, rispondo, e inviterei tutti a fare silenzio e ascoltare il resto della novella fino alla fine, prima di dirne alcunché.
Aniante, imbaldanzito, prosegue la lettura.