.Mandel’štam è vivo. di Benny Nonasky

Zucchero, tè, farina, sale, sapone, cacciavite, topicida, inchiostro. Inchiostro. Ecco la parola che porta alla conclusione della storia. A cosa mai poteva servire l’inchiostro se il Poeta non scriveva più? Stalin non aveva mai perdonato quella poesia sbeffeggiante e carica di rancore verso il suo macabro operato. A Stalin interessava la poesia, la poesia che parlasse del Grande Partito, quando i poeti erano utili per risollevare il paese. Ma adesso a Stalin non fregava nulla, anche quando il Poeta, pur di esser riammesso nella vita sociale e letteraria, cosa che ormai lontana e impercettibile, aveva scritto un’ode di elogio al dittatore. Era pazzo Stalin, molto più del Poeta e del suo vaneggiare poesie tra i detenuti. Voleva pulizia. Una selezione forzata. O leccavi il culo da gran professionista – guarda quel sant’uomo di Pasternak e sua moglie – o eri destinato al confine da dove partivano i treni per la Siberia. Dove c’erano i gulag. Dove c’era il tifo, il gelo, le fucilazioni, la morte per via della fame. Anche se la fame era di casa. Quella lista della spesa della cara Nadežda era pura illusione. La carestia investiva tutta la Russia. Se non eri parte dell’elite, cioè colui che leccava i peli scuri del dittatore, eri destinato alla povertà perché non potevi lavorare e, quindi, non potevi comprare il cibo. Mentre nel centro di Mosca i ristoranti sfornavano carne e patate in continuazione, fuori lo stomaco si contorceva, rimpiccioliva, portava alla confusione e alla pazzia. Quella lista della spesa fu una doppia beffa. Nadežda era una di quelle donne che percepiva il pericolo, ma non lo confessava. Amava il Poeta più della sua esistenza. Se il declino era il destino di Osip, Nadežda fece di tutto per renderlo meno doloroso prendendosene una grossa fetta, rischiando tutto pur di non smarrire una sola poesia, un solo verso che usciva dalla bocca del Poeta. Quella poesia contro Stalin non fu il suo biglietto da visita. Osip Mandel’štam aveva già scritto e pubblicato Kamen’ (La Pietra) ed era considerato un grande intellettuale. Era devoto alla poesia, e fino alla fine tenterà di tutto per pubblicare i suoi versi. Per questo, dentro la loro coperta logora, ogni sera Nadežda e Osip, ripetevano a memoria le poesie che il Poeta scriveva nella mente mentre vagava nell’esilio di Voronež. Recitavano un verso ciascuno. E se per caso uno di loro ne dimenticava uno – bastava anche una sola parola – Nadežda, anche se fossero state le tre del mattino e fuori un drago a controllare che i fuggiaschi restassero rintanati nella loro povertà, correva da tutti i vicini o coloro che avevano avuto il coraggio di nascondere (nei cuscini, dentro il materasso, tra libri e dietro librerie) le poesie del Poeta per verificare e imparare nuovamente a memoria il pezzo mancante che ricuciva il loro mondo. Cazzo, Nadežda era troppo innamorata di Osip. Quando fu catturato e messo via in un campo di prigionia, Nadežda andava ogni giorno in stazione, dove partivano i treni per la Siberia, a bussare ad ogni vagone chiedendo se dentro si trovava quel pazzo poeta di Osip Mandel’štam. Chiedeva in giro ad ogni persona che incontrava, cercava la sua calligrafia nei foglietti che i detenuti facevano scivolare dalla carrozza. Invano. Osip non partì mai per la Siberia. Morì in un campo vicino alla sua Nadežda, a Samaticha, sempre a due ore da Mosca. La loro amata Mosca. Quella Mosca che gli aveva fatto scoprire la sfortunata e pasionaria Cvetaeva. Dove risiedevano gli artisti e gli amici. Dove si era suicidato Majakovskij perché tradito dalla rivoluzione, perché anche lui amava la poesia sopra ogni altra cosa e la poesia è verità e non paradigma della realtà. Osip ha tentato il suicidio. Nadežda ha avuto una crisi di nervi. Ma nessuno di loro si è arreso alla realtà. Pasternak voleva bene a Osip. La moglie di Pasternak invece l’odiava. Sapeva che era inviso al potere e non voleva che Pasternak si compromettesse. Avevano una bella casa dove c’erano sempre cibo e lenzuola pulite. Osip non cambiava i vestiti da tre anni e portava stivali che Nadežda aveva ricavato da una valigia di pelle. Pasternak amava l’intelligenza e la poetica di Osip. Ogni tanto gli lasciava dei rubli nella tasta del lercio cappotto prima che il treno per Voronež ripartisse. Osip mendicava tra gli amici per avere qualcosa da mangiare. La fame chiudeva il cerchio. Solo ceci. Tre per piatto. Nadežda doveva controllare che non si esagerasse. C’era solo quello per sfamarli. Lei sognava di comprare una mucca, dei polli. Di avere un bambino. Ma Osip rispondeva che fieno per la mucca, concime per i polli, non si trovavano. E i bambini non possono vivere di soli ceci. Osip cercherà in tutti i modi di essere riabilitato per poter pubblicare le sue poesie. Diceva che sarebbe morto solo quando le sue opere sarebbero state in commercio. Troppe chimere. Nadežda riuscirà a pubblicarle trent’anni dopo la sua scomparsa. Il Poeta diventò pazzo per la fame, e la pazzia lo portò a non avere più fame. Si lasciò morire su un letto dentro la sua cella. Ogni mattina portavano la sua razione, ma lasciava che i suoi vicini di letto gliela trafugassero dalle mani. Non gli interessava più nulla. Ogni tanto declamava i suoi versi come se fosse stato in trance. Ma nulla più. Fuori da quella cella qualcuno scriveva quelle parole sulle pareti. Qualcuno le ripeteva a qualcun altro e quest’altro a qualcun altro e così, i versi, viaggiavano per i campi. Questo lo scoprì successivamente Nadežda. Osip ormai era morto. E ai morti non serve a nulla la poesia o una statua nel centro di Mosca.

Osip Mandel’štam costruiva le sue poesie partendo da visioni ancestrali e metaforiche strutturandole su un’Io esasperato dalla quotidianità ripetitiva, focosa e claustrofobica. Non c’è ideologia politica nella sua opera. C’è solo magnificenza, natura e orrore. Orrore per la politica assassina. Orrore per la morte, l’abbandono, i figli che piangenti rinnegano il padre che ha tradito la Nazione. Osip fu forse l’unico poeta civile nella Russia degli avvenimenti del diciotto. Nadežda tentò di smorzare questo suo accoramento e questo suo impeto sociale, per non essere scoperti e uccisi. Lo spingeva a scrivere poesie più intime e personali. Mandel’štam visse in questo binomio poetico. In entrambi i casi represso perché impossibilito di pubblicare le sue opere. Quindi Mandel’štam vedeva ciò che la Russia stava costruendo e seppellendo. Per capire meglio: Majakovskij scriveva basandosi sul concetto rivoluzionario della società. La sua identificazione col Partito, visto come grande movimento di cambiamento e novità, lo spinge a creare opere che si collocano tra teatro, utili per le letture in piazza, e marce e canzoni buone per gli slogan da manifestazione. Majakovskij era un rivoluzionario che credeva alla possibilità dell’uomo libero dentro una grande comunità laica e paritaria. La sua poesia era per gli ultimi e la grandezza stava nella sua spontaneità, nell’amore per la causa, la passione che sviscera da ogni verso, tra le allegorie e la musicalità trionfante, le amanti continue, i punti esclamativi e il dolore a tratti comico e a tratti sanguinante e indelebile. Le sue parole erano colpi di fucile dritte al cuore e al cervello. Lui scrisse: Ma se le stelle si accendono / significa che servono a qualcuno? / Significa che qualcuno le vuole? / Significa che quegli sputacchi per qualcuno sono perle?, rendendo le stelle apoteosi di dolore e bellezza. Perché leggendoli un brivido percorre il corpo. Perché nessuno può rispondere alla prima domanda, mentre le altre toccano i nostri sogni di grandezza e di amore. Majakovskij non è sopravvissuto alla sua stessa personalità perché era esplosivo e giovane in un periodo di sottomissione e bugie. Osip Mandel’štam veniva da una buona famiglia, aveva studiato in una delle più importanti scuole di San Pietroburgo. Ne era uscito rivoluzionario, ma non rivoluzionario come desiderava Stalin. Aveva percepito la mostruosità e non poteva voltarsi dall’altra parte. Voleva combattere con la sua compostezza, convinto che nessuno potesse azzittire l’intelligenza. La sua eleganza percuote il tempo e spinge il lettore di ogni età storica a fare i conti con la miseria individuale di ogni scenografia storica. I versi che lo hanno portato alla gogna sono i seguenti – nella prima versione perché è stata rimaneggiata diverse volte: Si sente solo il montanaro del Cremlino / l’assassino e il mangiatore di uomini. Osservate come in soli due versi riesce a racchiudere quell’intero percorso nefasto della Russia: abbiamo gli Urali per via del montanaro, quindi la posizione geografica; successivamente con la parola Cremlino si identifica il centro del potere, da dove partono le direttive e il permesso di vivere o morire. Ed ecco il secondo verso: l’assassino e il mangiatore di uomini: l’identificazione del colpevole e il suo potere sopra agl’uomini: poterli sterminare; come se li divorasse. Sarebbe simpatico, in modo eufemistico, scoprire se il detto “I comunisti mangiano i bambini” derivi da una storpiatura di questi versi. Karem’ (La pietra), unico libro pubblicato in vita, è un’opera sommersa dalla geometria del mondo. La natura fa da contenitore della parola. Tutto si affaccia da un mistico mondo fatto di architetture perfette, di amori passionali spinti alla deriva, di vetrate di chiese millenarie e solitudine inspiegabile. Ma nella sofferenza del poeta si nota il suo sguardo disilluso e contrario al mondo che lo circonda. La poesia è salvezza, ma al contempo pareti della fragile conchiglia (dalla lirica “La conchiglia”). Ricrea la natura con la poesia, e la poesia si fa natura. Riprendiamo queste due quartine: […] Cosa fare con un uccello ferito? / Il cielo che tace, è morto. / Da un campanile velato di nebbia /qualcuno ha tolto la campana. / E resta orfano
e muto lo spazio – / come una vuota torre bianca / dove sono nebbia e silenzio
. Qui Osip gioca con le parole e i significati si alternano: l’uccello ferito è il poeta che è anche nebbia e silenzio, ma l’assenza scaturisce dal silenzio del cielo e delle campane (tolte dalle chiese per fonderle e costruire armamenti). Il cielo è morto perché non c’è nessun Dio a gridare il suo sdegno ed è anche per questo che l’uccello-poeta è ferito. Inoltre, il poeta, si identifica con la torre bianca che è un riferimento occulto alla rovina, alla superbia che porta alla caduta. Ma il suo significato positivo è il legame tra la terra e il cielo, il rinnovamento, il costruire cose nuove dalle ceneri del passato. Questo restare orfano e muto lo spazio, oltre a descriverci un vuoto, simboleggia la possibilità di un qualcosa che può nascere ancora, la poesia perenne, che scaturisce dal gelo dell’oblio. Il freddo mi ha educato e mi ha messo una penna / fra le dita, per riscaldarle strette a pugno. Così scriveva Brodskij.

Achmatova si autocensurò per evitare la morte del figlio. Marina Cvetaeva si suicidò abbandonata nella povertà. Gumilev fu fucilato. Pasternak si adeguò al sistema. Erano tutti amici di Mandel’štam in un periodo di odio, spie e miseria. La terra è morta, ma non lo sa ancora. Continua a girare. Mandel’štam diceva questo ormai fin di vita in un letto di pulci ed escrementi. Osip non riuscì mai a redimere il suo peccato. Né veramente ci provò. Era convinto che la poesia non dovesse mai scusarsi con nessuno. Ed è vero. La poesia è espressione dell’individuo, della sua visione del mondo, la bocca che riproduce in modo alterato la realtà che gli si presenta davanti. Lui era convinto che Stalin fosse il mostro da combattere. È aveva ragione. Per questo fu condannato a morte. Per questo fu lasciato solo, senza amici che lo aiutassero, senza possibilità di esprimersi, pubblicando. La ferita mortale. Paul Celan lo tradurrà in tedesco. Josip Brodskij in americano. La sua poesia ha dovuto attendere la morte per incorniciarlo nei nostri cuori variopinti. Effettivamente Mandel’štam non è mai morto. Rivive in ogni pagina di storia e di letteratura. Alcune volte, rileggendo le sue poesie, mi convinco di poter andare a Mosca e incontrarlo, di condividere le mie parole con le sue perché Mandel’štam è vivo e la sua triste agonia è solo pubblicità di qualche editore che vuole guadagnarci su. Alcune volte, ripensando alla sua vita, lo vedo immerso dentro a qualche racconto di Kafka. Può essere il signor Josep K. che viene accusato di un qualcosa che non avrà mai modo di sapere. L’inizio sarebbe esattamente così: Qualcuno doveva aver diffamato Osip M. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato. Oppure potrebbe esser l’agrimensore K. de Il castello: Era sera tarda quando M. arrivò. Il paese era sprofondato nella neve. Il colle non si vedeva, nebbia e tenebre lo circondavano, non il più debole chiarore rivelava il grande castello. E via verso l’incognito delirio di un potere che comanda con mani invisibili e porta all’inesistenza, al timore di ogni passo, ad essere ciò che Lui vuole tu sia.

L’aria era densa di umidità e fumo grigiastro derivante dagl’alti forni disposti a cerchio sul confine della capitale. Se nel Medioevo alte cinta murarie rendevano la città una roccaforte inespugnabile, dall’avvento del nuovo Magistero, l’industria degli armamenti e del carbone avevano preso il posto delle mura. Fu in quel periodo che la capitale si trasformò. Arrivarono grosse fette di popolazione dalle campagne limitrofe e lontane; vennero costruiti grattacieli; fiorirono negozi e bar ad ogni via e piazza. Chi era già residente nella città potette godere dei cambiamenti senza grandi scossoni economici e sociali. Ma questa era la minoranza. I poveri, i lavorati delle fabbriche e chi si era stabilito per trovare un po’ di fortuna, erano formiche che sostenevano l’andamento della città, fiaccando le ossa ventiquattrore al giorno senza un minuto di pausa. Leggenda narrava che chi entrava a lavorare in una fabbrica usciva non dall’ingresso, ma da una porta che dava direttamente al camposanto. Effettivamente, anche il cimitero si estendeva in forma circolare tutt’intorno alle fabbriche. Dopo il cimitero, sempre leggenda vuole, c’era la fine del mondo. Osip M. era un letterato. Era stato chiamato dal Magistero per dirigere una scuola sul lato est della città, dove vivevano i poveri della fabbrica dei cannoni. Il Magistero era un’entità fluida senza una collocazione precisa. Non esisteva una sede dove poterli contattare. Era sempre un tizio qualunque che veniva a trovarti dicendoti che da domani saresti diventato il nuovo direttore e insegnante della scuola dei poveri della fabbrica dei cannoni o un ufficiale delle forze armate o un lavoratore della fabbrica degli scudi antiatomici. Il Magistero impartiva e consegnava il vestiario e la razione di cibo che ogni anno doveva esser dato a ogni singola persona della città. Se si voleva parlare con il Magistero, bisognava lasciare un foglio col proprio nome dove capitava. In poche ore sarebbe arrivato qualcuno a prendere la missiva. Ma la risposta poteva non arrivare mai. C’era chi diceva di poter comunicare continuamente col Magistero. Chi ci lavorava dentro e chi, addirittura, confidava di essere parente o figlio o zio di qualcuno di loro. Era una menzogna. Tutto lì dentro si reggeva sulla menzogna. Era tutto florido. Ma era tutto grigio. La popolazione cresceva. Ma le retate erano continue e la gente scompariva senza motivo. Eravamo in guerra. Ma nessuno ha mai sentito un’arma sparare. Osip M. sapeva tutto questo, ma come tutti i suoi compatrioti doveva tenerlo per sé. Arrivato all’indirizzo che gli avevano specificato, si trovò davanti un grande casermone di mattoni rossi e massicci. C’era un grande portone in legno e, in alto, su tutta la parete degli spuntoni di metallo. Su alcuni c’erano anche dei colombi infilzati. <<Servono per non farci cacare in testa e buono per farci il brodo della cena.>> La voce era giunta dalle spalle di Osip M. Si voltò e vide un uomo basso e muscoloso, con i capelli a cresta proprio come tutti gli altri che vivevano in quella zona. Donne comprese. <<Lei è il nuovo insegnante>>, chiese l’uomo basso. <<Sì, sono il nuovo insegnante della colonia.>>, rispose Osip M. rigirandosi a guardare i colombi infilzati. <<Bene. L’aspettavamo. I ragazzi si stavano fottendo la testa con quel deficiente del prete ubriaco. Forse anche il culo!>>. Così dicendo l’uomo basso scoppiò in una fragorosa risata e, senza neppure chiedere consenso, prese sotto braccio Osip M. e lo accompagnò dentro la struttura. Osip M. lasciò fare. Sapeva che ogni reazione improvvisa poteva esser vista come un atto sovversivo. Bisogna esser rigidi e imperscrutabili. Nessun’azione spontanea. O almeno così recitavano gli anziani. In effetti era impossibile stabilire se questa legge fosse veritiera: chi aveva il coraggio di provare? A che fine poi? Fabbrica o chissà dove? Quando entrarono, Osip M. scoprì che la facciata era solo una barriera. Dentro c’era uno spazio aperto dove erano state costruite delle piccole case quadrate sparse a casaccio, strade ricoperte di fango e qualche bancarella che vendeva polli e verdura. E ovunque c’era un forte odore di aglio e metallo fuso. Osip M. si portò le mani alla bocca. <<Non si preoccupi Dottore>>, prese a dire l’uomo basso, <<ci si abituerà. Lo so che voi siete una classe di schizzinosi, ma qui si mangia bene e c’è gente che vuole imparare a fare le bombe e la rivoluzione.>> Osip M. si fermò di colpo e strabuzzò gli occhi. Guardò il piccolo uomo basso e muscoloso e disse sottovoce: <<Bombe e rivoluzione?>>. L’uomo fece finta di nulla e lo spinse in una di quelle casette quadrate. All’interno non c’era nessuno, tranne la puzza di aglio e metallo fuso. L’arredo era molto frugale: un lettino, una scrivania ed una sedia, delle candele, un piccolo mobile con un fornello, un lavandino e una bacinella per le abluzioni mattutine. <<La latrina è in fondo alla strada, ma non credo le servirà>>, disse l’uomo basso uscendo dalla porta. Bombe e rivoluzione? Non gli servirà la latrina? Ma che storia era quella? Lui era stato spedito dal Magistero per insegnare ai ragazzini della colonia. Che ne sapeva lui di bombe e rivoluzioni? Uscì a cercare l’uomo basso, ma si trovò davanti una marea di gente che, appena lo vide, prese ad applaudire e ad abbracciarlo. Uomini e donne con la cresta stavano lì a stringergli la mano e a fargli complimenti. Era sbalordito e al contempo orgoglioso di quell’accoglienza. La massa di gente piano piano lo spinse verso un largo spazio e si mise a cerchio intorno a lui. Gli applausi e le grida erano ancora forti, ma in un attimo cessarono e lasciarono Osip M. confuso e impaurito. Se prima tutti sorridevano, adesso avevano uno sguardo serio, dritto su di lui. Si aprì un varco e da lì sbucò l’uomo basso e muscoloso. Arrivò davanti a Osip M. e lo prese, come prima, sotto braccio e gli fece fare un giro su sé stesso, come a volergli dimostrare l’impossibilità di fuggire dal quel muro di pelle compatto. <<Caro dottore, lei dice di non sapere nulla di bombe e rivoluzione, eppure dal Magistero ci dicono che lei con le parole ha offeso la nostra capitale e la sua struttura perfetta. O sbaglio?>> Osip M. prese a sudare. Osip M. non sapeva nulla. Osip M. era solo uno scrittore che amava il mondo, anche se del mondo aveva solo quello che la sua immaginazione gli permetteva di creare. Già. Creare. Con l’immaginazione. Stupido Osip M., stupido, si ripeteva Osip M. <<Non dice niente signor Osip. M?>>, disse in modo beffardo l’uomo basso e muscoloso. Osip M. lo guardò perplesso, ma non riuscì a dire nulla. <<Le persone scompaiono caro Osip M. per colpa di gente meschina come lei. Il Magistero proferisce regole precise per evitare disordini e sciocchezze per rendere grande la capitale e il suo popolo. Ognuno ha un suo destino. Dalla nascita alla morte. Siamo come farfalle. Forse più brutte e senza ali. Ma le nostre ali sono il rispetto verso il Magistero e le sue istruzioni. Come le stavo dicendo, la gente scompare per colpa di gente miserabile come lei che con le sue parole la spinge verso un baratro senza ritorno. La passione, signor Osip M. Parlo della voglia di scappare, di andare contro le leggi, di pensare di essere un uomo migliore se il mondo fosse colorato o non ci fosse la guerra. Si può pensare a qualcosa di più disumano di questo?>>. A queste parole il pubblico in cerchio rispose in coro <<No!>>. L’uomo basso parve compiaciuto e riprese a parlare: <<Vede signor Osip M. la gente ha bisogno di seguire una linea che li conduca dove non può sbagliare, ha bisogno di certezze, di un’identità comunitaria. La confusione e l’incertezza generano violenza e insicurezza. È quello che vuole signor Osip M.? Vuole che la gente paghi per le sue banali parole? Vuole che l’uomo si riduca ad animale e vaghi per le strade senza un progetto definito? Certo che vuole questo. Ma tutto ciò porta alla morte.>>

Osip Mandel’štam è vivo. È vivo perché la poesia è vita e non ci sarà mai nessuna dittatura o plotone d’esecuzione che riuscirà a sotterrare il verso pronunciato e per sempre liberato. Soprattutto quando quei versi vengono dal dolore e dall’amore verso l’innocenza e la forza destabilizzante, perché denuncia, ricostruisce e reinterpreta la realtà, della poesia. Un giorno qualcuno dirà che in questi tempi così connessi e, al contempo, così tristemente individualistici ed egocentrici si soffre di un torpore abissale e che davanti ad uno scaffale di poesie si andrà sempre a cercare Osip Mandel’štam perché è vivo e sa il fatto suo. Quel tizio che dice tutto questo ha la mia approvazione.

.NOTRE DAME.
(Osip Mandel’štam)

Dove un giudice romano giudicava gli stranieri,
degna basilica, e – felicità e principio –
come un tempo Adamo, distende i nervi,
gioca con i muscoli la leggera volta a crociera.

Ma tradisce dall’esterno il suo progetto nascosto:
qui la forza elastica si prende cura degli archi,
perché non si frantumino le possenti pareti,
e l’irriverente volta inibisca l’ariete.

Spontaneo labirinto, incomprensibile foresta,
abisso razionale dell’anima gotica,
vigore egizio e impacciato cristianesimo,
con giunco e quercia – ovunque lo zar – piombo.

Ma con quanta attenzione, fortezza Notre Dame,
io studiavo le tue costole possenti,
tanto più spesso io pensavo: dalla gravità funesta
anch’io un bel giorno creerò la Bellezza.

(da Karem’, “La pietra”, mia traduzione – ©BN)

.NOTRE DAME.

Где римский судия судил чужой народ,
Стоит базилика – и, радостный и первый,
Как некогда Адам, распластывая нервы,
Играет мышцами крестовый легкий свод.

Но выдает себя снаружи тайный план:
Здесь позаботилась подпружных арок сила,
Чтоб масса грузная стены не сокрушила,
И свода дерзкого бездействует таран.

Стихийный лабиринт, непостижимый лес,
Души готической рассудочная пропасть,
Египетская мощь и христианства робость,
С тростинкой рядом – дуб, и всюду царь – отвес.

Но чем внимательней, твердыня Notre Dame,
Я изучал твои чудовищные ребра,
Тем чаще думал я: из тяжести недоброй
И я когда-нибудь прекрасное создам.

 

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