Muovo dal concetto di iperletterarietà per attraversare il libro di Annamaria De Pietro Venti fusioni a cera persa (Manni Editore, Lecce, 2002), e lo faccio per indicare un metodo compositivo e speculativo di estrema raffinatezza e consapevolezza sia tecnica che concettuale che, però, nulla perde in capacità di emozionare e coinvolgere, stupire e avvincere. Penso che Annamaria De Pietro parta da un’acquisizione irrinunciabile e cioè che non possa essere data (ma è mai stata data?) poesia “spontanea” e “sorgiva” senza abilità tecnica e dominio sui mezzi linguistici e culturali; fatta subito piazza pulita dell’equivoco di “una poesia per tutti”, la poetessa intesse 20 prosopopee di 20 personaggi del mito classico che sono 20 sperimentazioni formali e concettuali intorno al tema del dire poetico. E un modo efficace per accostarsi a questo libro è partire dal testo in prosa (ma sfido il lettore a distinguere poesia da prosa in questo testo magistrale) che lo chiude e che s’intitola I passi, nel quale l’autrice riflette sulla scrittura (o, come dice lei, su scrittura, senza alcun articolo, come assolutizzandola): “Nella tecnica della fusione a cera persa – della scultura in bronzo, dell’oreficeria – il modello in cera dell’oggetto da conformare viene rivestito di un materiale refrattario; alla cottura, la cera fonde, lasciando la sua impronta nell’involucro indurito, la cui concavità sarà lo stampo di quel modello. La colata di metallo fuso, immessa nello stampo, riempie la cavità e ne prende la forma. Spaccato ed eliminato lo stampo, è dunque il metallo, da ora, e per sempre, la forma – la scultura, il gioiello -. E lo è, lo sarà, per eliminazione e sostituzione da, e contro, la sua origine prima, il suo seme, il modello accertato da uno stampo; per matricidio – per parricidio.
Così fa scrittura. Che, istruendo la sua misura – fluidità di possibili, solidificazione di presenti, cogenti fanìe – distrugge e uccide tutto quello a cui guardò, che le apparve – la “realtà”? i “referenti”? Scrittura spezza la catena di provvisorie, casuali cause che, per un istante, le vendette per prezzo i suoi anelli, e (re)inventa, superba, assassina per buon diritto, una nuova, un attimo prima impensata, catena di generazione, a tutto imponendo, violentemente, il suo patrimonio genetico, la sua serie formale. Ma è una serie che ha come passo e attrezzo l’interruzione, lo spacco, la crisi, l’impossibilità del ritorno. Conformando sé, deformando-riformando le sue madri, i suoi padri, scrittura stampa tacche e sigilli di morte, cavità-vivai della vita che vuole, e sa, istituire: la conformazione di un testo. Non cresce pianta senza la frana del seme, non si inizia un nuovo arazzo senza spezzare il filo.
(…) scrittura contrappone e sostituisce una sua misura del tempo, un tempo interrotto, discreto, un dispositivo di collocazioni (identificazioni per segni, nominazioni, nessi dentro luoghi), una disperazione fervida e viva di solitudini esatte che guardano indietro, invano (ma fu volontà, fu chirurgia, non fu destino, eppure), alla catena di “cose prime, esistenti, chiamanti” perdute, rifatte, altre, estranee, figlie snaturate: queste forme.
(…)
Dunque scrittura, negato il tempo come continuità indifferente, neutra, automatica, – (…) coglie tutti i dati che furono modello e primo stampo della sua operazione come strati, fogli, collocazioni ciascuna in sé evidente di comparse compiute, come tavole, o stanze, di attenzione, come segnature, conformazioni altrove (prima?) costituite e vigenti di luogo in luogo, di passo in passo, e nega loro, perché, imponendo la sua norma e catena, ne ha fatto scempio, l’idea, lo statuto, di quell’andare ipoteticamente spontaneo, entro l’automatismo ipnotico, fittiziamente certo, delle cause e degli effetti, che parve in un attimo iniziale, che pare, vivendo, natura. Di contro alla quale, scriptura facit saltus.
Le persone mitologiche che parlano in queste pagine non furono mai vere. Furono, di passo in passo, di foglio in foglio, segnature, strati di uno stratificarsi molteplice e complicato – per filiazioni, degenerazioni, ramificazioni, varianti che, ogni volta, furono uno strato di scrittura (orale, scritta – non conta). Ogni nuovo strato fu a loro morte e restituzione, uccisione e parto. (…) Ciascuna (sott. delle persone che parlano) non è quella che ci fu consegnata come continua, stabile per varianti, dalla tradizione mitografica: non è che un testo – tessuto -, che la distrugge e la ricostruisce altra, un vero falso storico. Ciascuna (…) ha solo il suo rettangolo irregolare di parole connesse (…) su un foglio di carta bianca per giocare tutte le sue carte, solo la sua ferrea scacchiera. Il rettangolo irregolare ma implacabile: un lato dritto e chiuso a nord, uno a sud, uno a ponente, uno – a chiamare il prossimo strato, segnatura di qualcun altro, forse – smangiato, sfrangiato, scheggiato, a oriente: l’oriente è sempre, nel suo gioco d’azzardo, un frattale di possibilità e congetture.
(…)
Ma, umanamente, io credo, io che, senza pietà, ma entro una ferma, e amorosa, pietas, che della pietà è il contrario (…) ne ho fatto i miei vicari, che pronunciano al posto mio (…) un pronome; un luogo sicuro che redima per condensazione, per forma chiusa e stretta, il loro non sapere, non ricordare, non potersi confortare nel caldo traino della storia – di una storia.
(…)
Forse, adiuvante il magistero di scrittura, qui e ora sarà concessa loro, finalmente, la sublimazione istantanea della morte, neve al confine dell’aria, pura soglia, puro gradiente di passo, senza dimensioni, senza dovere di sequenza lungo spazio e tempo, gomitolo infinitesimale e infinito nel quale si avvolga, e stia chiusa, affastellata, stretta tutta la linea, la serie, la dannazione della vita, o destino. Un Aleph di tutto e ogni cosa, un lampo, la gemma pulsante e immobile di tutte le rose.
È morte, dunque, il luogo esatto, e inconfinabile, della consumazione per scambio, per slittamento e subitaneo ricomporsi di segnature, ciascuna in sé, da sé, oltre sé, caduca e sovrana, sguardo e redini, nella fame, nella fretta, nello sconsigliato volere, nella caccia a tutto e a ogni cosa, nella mano che scrive?
Se è dato che un addio sia refurtiva” (pagg. 49-52 passim).
Proviamoci adesso a commentare alcuni dei testi del libro cominciando dal primo di pagina 21 e 22:
Prosopopea della chimera
A me ai tre terzi incutono tre fami
bocche di fiamme tre, e la prima e terza
liberi nervi pascolando a brani
l’arso dai fuochi vanno – ma ai mediani
denti solo inchinando stesa all’erba
come se riposando ai meridiani
schidioni gialli mi aggiogassi a basto
nutrimento consento – e si diserba
grande stesa di prato in medio monte.
Là dove già solo stanno le impronte
d’incenerite prede, i cavi ossami
per entro cui corvo non cerne pasto.
Senza recupero vana rovina,
triplice fame che secca la fonte,
scorta di ammanchi, ricrescente guasto,
morso maturo alla fragola acerba
che vizza eternità tripla trascina.
Fiamma che attizza mentre smembra e scerpa.
Fame di fame, di non più fame io grido,
tre volte io spezzo la corda cattiva
che tiene forte a triplici legami
e la fiamma a tre fiaccole la strina,
ma nuove fibre eternamente pronte
rifanno il fronte come onde addosso al lido.
O morta libertà a ogni vita viva
consunta a ognuna delle bocche infami,
inedia che dell’esca sua si priva –
morta voglia di spoglia cinerina
tre volte persa, per tre volte serva.
Che un cavaliere d’aria, io spero e fido,
galoppatore che nuvole sferza
né al trito della terra il volo inclina
la fiamma dei suoi ferri arda a contrasto
giù dall’alto sfrascando fronde e rami
e per tre volte schiantando la fronte
di noi misero gregge alla deriva
d’ombra e di neve per sempre mi sfami.
Ogni prosopopea è espressione di un io, ma in quanto proiezione e quindi oggettivazione e presa di distanza dal proprio io da parte dell’autrice, per cui se, come affermato, le persone mitologiche che parlano in queste pagine non furono mai vere, allora ogni io racconta una storia che permette la decantazione e il superamento del soggettivismo da cui la scrittura pur parte e la chimera bene appare quale affamata creatura che tutto distrugge (divora) attorno a sé, proprio come fa scrittura che mai sazia brucia e bruca la realtà. Ma è una chimera sofferente, che vive il proprio stato come una condanna: la ripetizione del numero tre (a me ai tre terzi incutono tre fami / bocche di fiamme tre) rappresenta e la tripartizione della Chimera e la sua unitarietà (i tre terzi) come se la scrittura stessa fosse creatura unitaria e dalle molte bocche, mentre il blocco di testo susseguente è, nella sua rappresentazione dell’animale mitologico, un vero e proprio atto di virtuosismo sia metrico che retorico che lessicale: e la prima e terza / liberi nervi pascolando a brani / l’arso dai fuochi vanno – ma ai mediani / denti solo inchinando stesa all’erba / come se riposando ai meridiani / schidioni gialli mi aggiogassi a basto / nutrimento consento – e si diserba / grande stesa di prato in medio monte. Non si trascuri il fatto che è la stessa Chimera a descrivere sé stessa, dunque, continuando a supporre che qui ci troviamo di fronte a una metafora della scrittura, è quest’ultima a mettere in scena sé stessa, esibendo tutta la propria potenza retorico-argomentativa.
Prosopopea di Medusa
Solo dentro lo specchio la mortale
mia fra le tre differente figura
mieterà a morte falce o curva spada.
Dentro il risguardo del timore, abiura
che sola aggruma il possibile male,
il possibile fermo oltre la strada.
Solo nella raggiera il varco è dato
fra l’uno e l’altro varco penetrando,
dall’altra zona partito il grido al volto,
solo oltre la lastra che spezzando
il filo duro alla linea rivolto
lo invola a volo novissimo e mutato.
Solo lontano da quella nube bianca,
oltre e lontano, recluso in altra parte,
perde carriera il mio inclemente sguardo.
Solo qui, dove luogo e spazio manca,
qui, dove al cavo forma sponda imparte.
Ma dallo scudo di colei che sparte
i fini e le ragioni ordendo io guardo (pag. 23).
Medusa è opportuna figurazione del nostro status cognitivo, sempre bisognoso di un medium per avvicinarsi alla realtà (nel mito lo specchio) e quindi l’atto conoscitivo conserverà sempre (Heisenberg docet) un margine d’indeterminazione; ma, altro Leitmotiv, ecco lo sguardo che impietra chi a sua volta lo guarda, lo sguardo infero con cui scrittura si deve misurare e quest’ultima può essere Perseo vincitore solo se percorre l’obliqua via del guardare nello specchio: solo allora la harpe (il falcetto per l’uva a doppia punta ricurva) potrà spiccare il capo dal corpo del mostro. E non a caso la Medusa di Annamaria De Pietro comincia la propria prosopopea descrivendo la sua stessa morte e lo fa, anche lei, usando mezzi retorici raffinatissimi.
Ed ecco come il Centauro descrive sé stesso:
Prosopopea di un centauro
Giocosa equitazione io muovo intero
né patisco la briglia.
Non mano a me consiglia
il passo ed il sentiero,
non comando di voce, non pensiero.
Io vado andando, io sono a me il mio andare
come nube che vento non scompiglia,
come ombra di veliero
sul riposo del mare (pag. 25).
Il movimento puro s’esprime traverso una coincidenza perfetta tra immagine e ritmo del verso, l’attacco (Giocosa equitazione) sembra alludere alla scrittura poetica, cosicché il libro di De Pietro si profila sempre di più quale rappresentazione da parte della poesia di sé stessa, capace com’essa è d’innumeri metamorfosi e anche di quest’andare ininterrotto, scrittura che non rimanda a nient’altro se non a sé stessa, ma non perché autoreferenziale, sì invece perché atto della nominazione, vale a dire azione che usa la lingua come strumento conoscitivo libero da implicazioni grettamente banausiche.
Prosopopea della parlante ninfa Eco
Voi che parlate in voi che è a voi la voce,
non ramo estremo di ramoso bosco,
non fretta e via che segue ala veloce
delle ultime parvenze in specchio fosco
– voce di fronte che in sé parla e svela,
volto di fronte d’acqua, e sia Narciso
la voce nella bolla che apre e gela
– volto d’acqua di specchio, finta e viso.
Oltre la mezzeria niente rivela
voce battente di salto diviso,
niente fra gli usci liquidi trapela.
Ed io non so dove si pone il posto
che dopo i passi spalanca la foce
– il senso del mio dire io non conosco (pag. 27).
Nella raffinatissima misura del sonetto la ninfa Eco, intessendo variationes imperniate proprio sull’eco che tra di loro si rimandano alcuni termini, induce la scrittura a riflettere sulle proprie caratteristiche di sonorità e di spazialità nell’apparente paradosso del non conoscere che la ninfa riafferma in chiusura (il senso del mio dire io non conosco); dopo la ripetuta allitterazione dei tre voi e della voce, il ramo trova la sua prolungata eco nell’aggettivo ramoso e poi torna la voce ad inizio del primo e del terzo verso nella seconda strofa (voce di fronte – la voce nella bolla) alternandosi con volto di fronte d’acqua – volto d’acqua di specchio, ma non trascuriamo la rima che lega Narciso e viso, né quella che aggioga insieme i verbi svela e gela; il rimbalzare della voce, il cui senso (da intendersi, probabilmente, come direzione) appare irriconoscibile (rileggasi l’ultimo verso del testo), ben dice l’assoggettamento d’ognuna di queste figure mitologiche alla forma che loro dà (la) scrittura, il rapporto complesso tra actor e auctor.
Appare inevitabile che Orfeo, l’incarnazione nel mito classico della potenza della parola poetica, ma anche della debolezza psicologica umana, reciti nel libro di Annamaria De Pietro la propria prosopopea e che Euridice chiuda le Venti fusioni a cera persa: se De Pietro si confronta a inizio di millennio con la tradizione poetica e conduce una riflessione sulla scrittura, deve ripensare la tradizione occidentale proprio nella figura mitologica di chi, grazie al canto, può penetrare nel regno dei morti e smuovere il cuore dei sovrani inferi:
Prosopopea di Orfeo
Da fiume a fiume lei fluì – Euridice –.
Da serpe a serpe discese e scendeva
– ed io a ponente scesi, e giù strisciai
e lacerai la veste contro il sasso
dello stipite in fumo, e la bagnai
contro un’acqua che al sasso discendeva,
e io non sapevo donde avesse passo.
Ma scendeva, e io scendevo a grado basso
sempre più al basso, alla casa indecente
dei senza sguardo, dei senza radice.
E tesi corda agli occhi, e lei riottenni,
occhi di vetro accecati ai millenni,
dei senza ascolto, dei senza dove.
E parlarono: non ti volterai
se non con danno e perdita –. Di fronte
e ovunque dritto a me di acqua che piove
io vidi al basso, giù, mentre pioveva
lo specchio nero dell’acqua cadente.
Il lago d’acqua dritta fu Euridice –
e per non più vederla io mi voltai.
Forse una vela, o un albero di altrove,
o la sua stessa veste alba e ponente
rapì girando la forma felice,
forse il pilone umido del ponte.
La stella mi spezza le mani calando le spranghe
i rocchetti dei raggi di ferro voraci valanghe
io batto alle porte di Hamelin pugni di sangue
io stanco insistendo le scolte che sognano stanche.
Buttateli dentro la terra questi vostri bambini
io poi ci provo suonando a portarveli indietro.
Ho infilato gli anelli d’argento su tutte le dita
che fanno dei suoni alle corde, che sono argentini –
e la polvere entra nei sandali, e la sabbia di vetro.
Io suono la musica e ditemi quando è finita (pagg. 30 e 31).
Il fluire, lo scorrere come acqua, la connessione con il serpente, l’intima relazione con la terra investono in modo totale i primi versi e Orfeo, che scende agli Inferi per riavere Euridice, esperisce un andare che è anche strisciare, lacerare le vesti (è questa una sorta di muta?) e bagnarle, proprio seguendo l’itinerario “occidentale” e ctonio dell’amata. La prosopopea inventata da Annamaria De Pietro è l’inseguimento di Orfeo dietro la sua Euridice che scende e scende fino alla casa indecente / dei senza sguardo, dei senza radice. Ed eccolo il tema fondante, il tema dello sguardo, assente nei morti e ben presente, invece, nel vivente Orfeo: E tesi corda agli occhi, e lei riottenni, / occhi di vetro accecati ai millenni, ché la morte è cecità, assenza di sguardo – infatti la condizione posta dagli dèi ctoni è il divieto di voltarsi, quindi di guardare e il poeta Orfeo, narrando la sua storia, dice in maniera icastica io vidi (la radice etimologica di vedere ci conduce, nelle lingue indoeuropee, all’idea di sapere, conoscere – ϝιδ- nell’antico greco, wissen in tedesco); quel che Orfeo vede è uno specchio d’acqua nera e verticale, Euridice è, inaspettatamente, proprio quello scorrere ininterrotto d’acqua oscura dentro cui Orfeo vede specchiata la sua angoscia di vivente che ha visto (conosciuto) la verità del trapasso nella morte e che si volta proprio per non più vedere… Euridice! E questa è solo la prima parte della riscrittura (della reinvenzione) del mito da parte di De Pietro, dal momento che nel salto anche strofico Orfeo diventa inaspettatamente il pifferaio di Hamelin, colui che, di nuovo, deve correre l’alea di sottrarre i morti alla terra, il musico della tradizione fiabesca popolare che, evidentemente, continua la tradizione mitologica più antica, come a voler accennare a un’ininterrotta tradizione d’una poesia che sfida la morte, ma che, nello stesso tempo, è con essa implicata, ché sedurre piante, animali ed esseri umani con il canto dischiude un potere non sempre benigno o non sempre capace di riaffermare la vita.
Prosopopea di Circe
Ma quanti anelli nel cofano avevo.
Ma più non li ritrovo, e va toccando
la mano invano, e più quelli non vedo.
Sarà forse lo sciame che cercando
va di falene la luce di sego
quel che volò dal cavo oltre il comando
di questa mano di vuoto e ossa che piego? (pag. 33)
Riprendiamo, per questa Prosopopea di Circe, una riflessione dai Passi:“Scrittura spezza la catena di provvisorie, casuali cause che, per un istante, le vendette per prezzo i suoi anelli, e (re)inventa, superba, assassina per buon diritto, una nuova, un attimo prima impensata, catena di generazione, a tutto imponendo, violentemente, il suo patrimonio genetico, la sua serie formale. Ma è una serie che ha come passo e attrezzo l’interruzione, lo spacco, la crisi, l’impossibilità del ritorno”– e gli anelli nel cofano, ora scomparsi, sembrano rimandare alla catena di cause che scrittura ha spezzato per aprire lo spacco e la crisi (il cofano vuoto), immagine raddoppiata da questa mano di vuoto e ossa che piego e che ha davvero qualcosa di funebre, per cui, pensando alla verga, attributo della maga e ipotizzando che lo sciame di falene sia l’energia magica sprigionata dalla verga guidata dalla mano, ancora una volta s’istituisce una metafora dell’atto scrittorio.
Prosopopea di Atteone
Riferirò quel poco che conosco.
Cinquanta cani avventavo alla lassa
del comando obbedito in grande bosco
che trapassava l’ombra di passaggio.
Per fiume in stanca veleggiava bassa
lei, capitana a tutta la sua flotta
di cinquanta fiammelle a scaglia a raggio.
Io la guardai solo perché era bella,
e scivolava via senza le vesti
liscia ed intera come alba di maggio.
A lungo la guardai, doppiando il viaggio
di quella e le compagne lungo il bordo
del fiume che viaggiava dentro il fosco.
E me seguiva la muta fedele
dei cinquanta levrieri aspri alla lotta,
caldi nella mia mano, e al passo questi,
volto il muso di scatto, a un tratto quella
guardarono, e in follia mutò il coraggio
quella muta infuriante di candele.
Questa è l’ultima cosa che ricordo (pag. 39).
Aver contemplato la bellezza in tutto il suo fulgore sembra qui aver azzerato memoria e conoscenza (riferirò quel poco che conosco dice il primo verso, mentre l’ultimo: questa è l’ultima cosa che ricordo) e il perno del testo, bellissimo: Per fiume in stanca veleggiava bassa / lei, capitana a tutta la sua flotta / di cinquanta fiammelle a scaglia a raggio. / Io la guardai solo perché era bella, / e scivolava via senza le vesti / liscia ed intera come alba di maggio. La poesia-Atteone non può sfuggire alla fascinazione della luna pagata col venire divorata/o dai propri cani, accadimento che De Pietro lascia soltanto intuire costruendo dei versi che sono accenno e sottinteso, ma anche rivelatori del rapporto numerico tra i cinquanta cani/levrieri e le cinquanta fiammelle del seguito di lei (mai viene pronunciato il probabilissimo nome Luna o Selene o Diana/Artemide che sia); ma il tabù del nome non impedisce che il testo sappia essere anche un magistrale notturno lunare, forse un omaggio a una tradizione plurimillenaria in quanto l’iperletterarietà raccoglie dentro di sé in forma di citazione e di rimando l’intera storia della letteratura.
E in un libro di specchi e di rimandi non poteva mancare (l’avevo anticipato) la voce di Euridice:
Prosopopea di Euridice
A volte sento un suono – ma non sembra
niente che sembri questa o quella cosa.
Io fui colei che della verde rosa
colse solo la spina, e che la scala
toccando con la mano al fianco al basso
passo passo discese, e che alle membra
svestite rivestì vesti di gala.
Perché riuscii alle luci di una sala
mai vista e vidi, e riposai sentendo
solo un lieve dolore alla caviglia,
tale che mentre duole già non duole,
tale che duole ma non lo ricordo.
L’aria era bianca come garza rada.
Questo solo ricordo, che al contrario
di quell’esatto corridoio una notte
– credo fosse una notte – un flusso orrendo
indietro mi avviò, e per quella strada
due che non so, uno accanto, uno avanti,
mi accendevano un vento, un succhio sordo
che scompigliava le vesti – la mano,
le spalle di quell’uno, e di quell’altro,
dentro il braccio, negli occhi, come fiala
nel sangue, come quando non dirada
la pioggia avanti a un qualunque tuo passo
sentivo io, come sente la briglia,
forse, cavallo che in prato alle sue frotte
via derivò l’ammaestratore, a bada.
Pensai la spina che brucia e riposa,
e a nessun altro frutto rassomiglia,
la nobilissima ultima figlia
della treccia di terra, delle lotte
che vince il buio contro il chiaro nel bordo.
La guardai fondamente, consentendo
al suo sottile intervallo che smembra
al giunto esatto il cerchio, nel divario.
La guardai tanto che svoltò lontano,
la terza volta rivoltata in salto
– come sguardo allo specchio che lo inghiotte –
la strada contro, il suono delle suole (pagg. 47 e 48).
Il modo di poetare in questo libro ricorda la concettosità e l’abilità retorica della tradizione tassiana e di quella barocca spagnola, ma anche le coltissime e linguisticamente ardue tessiture poetiche di José Lezama Lima e le finissime orditure di suono e di senso di Giovanna Bemporad; certamente un libro come queste venti fusioni, proprio nella sua smaliziata e consapevole iperletterarietà, vuol mostrare tutto l’artificio della scrittura (modernamente consapevole d’essere un’architettura del pensiero, una sublimazione dell’ars e della τέχνη) e, anche, la felicità e la gioia della lingua, del costruire testi quali sfida alle proprie capacità compositive, del meditare e del riconsiderare la bellezza che deriva proprio dalla scelta dei vocaboli, dal loro accostarli secondo un ritmo non ovvio, non banale, non scontato; e, ripensando in particolare al dittico costituito dalla prosopopea di Orfeo e da quella conclusiva di Euridice, mettendo a confronto i due racconti, accorgendosi il lettore dell’incolmabile distanza che separa i due, il libro di Annamaria De Pietro esplora il rapporto tra morti e viventi, tra libertà e necessità, tra sguardo e buio, tra potenza e atto, tra assenza e presenza – la tecnica di lavorazione a cera persa sembra incarnare in modo persuasivo quello che la scrittura migliore di questi anni attua: cito un breve passo di Giorgio Agamben (da Autoritratto nello studio, Nottetempo, Roma, 2017): “il linguaggio non ci è stato dato soltanto per dire qualcosa su qualcosa, ma è innanzitutto tensione verso il nome, liberazione dell’onoma dalle interminabili trame discorsive del logos“ (op. cit. pag. 112), cosicché scrivere è, anche, accennare alla mancanza, all’assenza, alla faccia nascosta della luna, mettersi in cammino verso l’origine o l’assenza d’origine (sempre più presente, si noti, Hölderlin riverbera, con il suo Andenken, su numerose ricerche artistiche contemporanee); la descensio ad Inferos è pratica quotidiana della scrittura, se quest’ultima rifiuta sentimentalismo e arcadia, se essa è consapevole (e De Pietro lo dice splendidamente nei Passi) di scaturire da un atto di allontanamento, di separazione, di distruzione, di essere ombra o residuo d’un’unità infranta, ma anche di potersi costituire in campiture d’immagini e di suoni nelle quali la lingua torna a essere splendida per capacità inventiva, formidabile spettacolo e serissima meditazione sul proprio status di umani.
Le immagini che corredano l’articolo: Chimera (incisione) proveniente dal sito del Museo Archeologico Nazionale di Firenze; Centauro, incisione di Pablo Picasso, proveniente dal sito La belleza múltiple; un fotogramma relativo ad arpa di luce, invenzione dell’ingegner Gianpietro Grossi e suonata da Pietro Pirelli, dal cui sito ho tratto l’immagine; Circe, disegno preparatorio per il Camerino Farnese di Roma, conservato al Louvre.