In risposta al dibattito sul ‘lavoro culturale’ che si è recentemente sviluppato sul sito di cheFare.
La lettera aperta di Paolo di Paolo, pubblicata qualche giorno fa su cheFare, è qualcosa di più di una richiesta di confronto. Dopo la replica di Raffaello Palumbo Mosca, in particolare, si è posti di fronte a un’incursione audace e al tempo stesso a un’accorata richiesta di approfondimento sullo stato dell’arte tanto della letteratura italiana contemporanea quanto del lavoro culturale in dialogo con essa.
Ora, spostando per un momento, ma non di molto il centro della questione, sembra tutto sommato facile poter osservare come “la logica del clan, dell’apparenza che definisce rapporti” si attagli molto bene a quello che, in particolare, è lo stato dell’arte della poesia italiana, negli ultimi anni, forse decenni. Padri, padrini e padroni, con l’episodica presenza di qualche madre e madrina, costellano questo panorama, organizzando e ri-organizzando continuamente gruppi e gruppuscoli che poi cercano di ammantarsi di definizioni di poetica, di scuola o anche di ‘ricerca’ che diano senso ex post a questi aggregati, in origine parrocchiali. Ed è pur vero che di poeti ne nasce uno o due ogni secolo, come ebbe a dire Moravia in morte di Pasolini, e che l’editoria italiana di poesia risente dell’affollamento di “libri modesti”, raddoppiando qui il commento di Wlodek Glodkorn.
Come tutte le sensazioni facili, tuttavia, è possibile articolarla entro una riflessione più ampia, lasciando così le lamentationes al tempo che trovano. Ed è il particolare statuto editoriale – con i suoi risvolti materiali, sia economici che politici – della poesia italiana contemporanea che può fornire da utile punto di partenza. Ciò che si definisce qui, temporaneamente, come “poesia italiana contemporanea” appare sempre di più un luogo pluriforme e fragile (in contrappunto, da subito, a certe tendenze omogeneizzanti della narrativa italiana).
Ma è anche un territorio difficilmente tracciabile, spesso invisibile. Lo è tanto nelle librerie quanto nel dibattito culturale, al punto da spingere, a ripetizione eppure sempre sporadicamente, qualche giornalista a compiere un reportage sulla “poesia che esiste e resiste”, regalando la gloria di un giorno a personaggi e libri poi assenti da scaffale, consultazione, conversazione (come ha avuto a consigliare Raffaello Palumbo Mosca, e vorrei aggiungere: conflitto).
È un luogo che appare sempre di più desertico eppure attraversato da molti, luogo tradizionalmente di prestigio, dove però la singola iniziativa individuale o collettiva gode di un carisma estremamente volatile, luogo che fa da puntello a una resistenza che si fa troppo spesso, idealisticamente, per la poesia e non contro di essa (come sarebbe pure logico, se questa resistenza avesse una dimensione politica e culturale più ampia).
Concorrono a questo scenario paradossale, a vario titolo: autori che pubblicano in serie, lasciando che il narcisismo del nome in copertina sovrasti la qualità dell’opera; editori che si adattano supinamente alle logiche di distribuzione (vantandosi di essere distribuiti anche nelle grandi catene, ma spesso unicamente dietro richiesta esplicita del lettore); critici che, davanti alla fine o all’estrema agonia delle riviste cartacee, si profondono nell’esercizio della recensione online (fino a farne merce di scambio piuttosto che esercizio di un’opzione culturale e politica posizionata, eppure indipendente); operatori culturali che replicano o inventano festival dove la logica della gratuità e della volontarietà, che pur si rende necessaria, si ritorce contro di sé, garantendo, in ultima istanza, irrilevanza…
Molto altro ancora si potrebbe dire, ma è cosa, in fondo, che si potrebbe riassumere con qualche semplice parola: se mancano, soprattutto nelle ultime generazioni “amore” e “lotta”, ciò accade forse anche perché ci sono troppo “amore” e troppa “lotta” a giustificare, se non a mistificare un particolare contesto materiale, sia economico che politico.
La lamentatio, infatti, è destinata ad avvitarsi su sé stessa se, come ha sostenuto anche Giacomo Giossi, il lavoro culturale di cui qui si discute non si interroga su se stesso non tanto e non solo come “culturale”, ma anche in quanto “lavoro” (rinnovando alcune delle istanze TQ, perché no). E a quel punto si potrà notare che, in termini di “lavoro”, vi sono case editrici di poesia con precise politiche editoriali e di distribuzione: non si tratta soltanto di escludere con un tratto aprioristico l’EAP (editoria a pagamento), fenomeno che pure piaga questa produzione culturale, ma anche di ragionare sul fattore “tempo” che rende ogni iniziativa, autoriale, critica o editoriale, estremamente volatile. Alcune case editrici vi pongono mano, riproponendo il proprio catalogo sulla distanza, anziché farne carta da macero nel giro di sei mesi. Vi sono, poi, operatori culturali che cercano di organizzare eventi che, fuori dalle logiche di clan, accolgono ospiti di diverse “parrocchie”, escono dalle logiche di gratuità e volontarietà (o, per contro, da quelle della sponsorizzazione di parte) e si immaginano un rapporto con il pubblico, invece di limitarsi a garantire 5-10 minuti di microfono a ciascun ospite.
Sostenendo queste iniziative, in luogo di altre, verranno anche critici di nuovo capaci di approfondimenti seri e dirimenti (e disponibili, in ultimo, a ritornare alla pratica di quella ‘stroncatura’ che possa infine sostituire la serpeggiante indifferenza verso l’estraneo al clan, forza eguale e contraria, all’esercizio del do ut des rispetto al proprio consanguineo) e autori che sapranno essere riconoscibili non solo ai propri adepti di setta.
Per chi volesse leggere quest’ultima frase come rigidamente deterministica, resta l’amore e la lotta di chi grida “la poesia è morta, viva la poesia” senza tracce di eccesso dadaista, ma con la triste passione impiegatizia di chi, in ferie, lancia un sasso nell’acqua, ogni estate, e poi nasconde la mano.
Lorenzo Mari