L’InVerso fotografico di oggi parla dell’umanità in tutta la sua bruttezza. Siamo carne sotto la luce del flash. Pelle martoriata o depilata, corrotta dai vizi o mascherata dal trucco. Siamo esseri sfuggenti al senso. La macchina fotografica cerca di rappresentare questo scorrere dell’esistenza. La poesia ferma un punto, associa l’immagine alla parola, cerca significati. Non sempre li trova perché non sempre è possibile spiegare.
La vita semplicemente accade.
Esistono scrittori senza biografia o con biografia leggendaria e scrittori, come Anne Sexton e Nan Goldin, la cui vita diventa parte integrante della loro opera letteraria.
“Bella e dannata, sexy e infantile, sposata e sciupamaschi, indifesa ed esibizionista, plurisuicida con un incrollabile senso dell’umorismo, autodidatta e docente universitaria, atea e religiosa…”. Così la definisce Rosaria Lo Russo curatrice e traduttrice di numerosi volumi sulla Sexton.
Magia nera
Una donna che scrive è troppo sensibile e sensuale,
quali estasi e portenti!
Come se mestrui bimbi ed isole
non fossero abbastanza, come se iettatori e
pettegoli
e ortaggi non fossero abbastanza.
Crede di poter prevedere gli astri.
Nell’essenza una scrittrice è una spia.
Amore mio, così io son ragazza.
Un uomo che scrive è troppo colto e celebrare,
quali fatture e feticci!
Come se erezioni congressi e merci
non fossero abbastanza; come se macchine galeoni
e guerre non fossero già abbastanza.
Come un mobile usato costruisce un albero.
Nell’essenza uno scrittore è un ladro.
Amore mio, tu maschio sei così.
Mai amando noi stessi,
odiando anche le nostre scarpe, i nostri cappelli,
ci amiamo preziosa, prezioso.
Le nostre mani sono azzurre e gentili,
gli occhi pieni di tremende confessioni.
Ma quando ci sposiamo
ci abbandoniamo ai figli, disgustati.
Il cibo è troppo e nessuno è restato
a mangiare l’estrosa abbondanza.
Nan Goldin è una fotografa statunitense contemporanea. Nasce a Washington nel 1953 ma cresce a Boston, dove frequenta la School of the Museum of Fine Arts. Trasferitasi a New York nel 1978, raggiunge la fama con “The ballad of sexual dependency”, opera realizzata selezionando e giustapponendo un consistente numero di diapositive a colori scattate in differenti periodi, accompagnate da una colonna sonora punk, diffuso nei musei in più versioni. Ha poco più di cinquant’anni ed è già considerata una pietra miliare della fotografia a livello internazionale.
Fa parte del cosiddetto gruppo dei cinque di Boston e il suo lavoro è considerato rilevante nell’ambito della fotografia contemporanea, come Terry Richardson e Wolfgang Tillmans. Le fotografe americane del dopoguerra già da tempo hanno avviato un linguaggio fotografico che ha spostato la fotografia dall’essere un produttore di estetica al diventare un produttore di senso. Il suo esordio è decisamente autobiografico. Ritrae anche se stessa come nel celebre Autoritratto un mese dopo essere stata picchiata.
La Goldin rappresenta l’underground dannato dei tossici e delle drag queen, il mondo notturno e le creature che lo popolano del quale lei stessa fa parte. L’umanità metropolitana, in larga parte femminile, in diversi suoi aspetti: la maternità, l’amplesso amoroso, il gioco erotico, la violenza sulla donna, l’omosessualità, il dramma dell’AIDS. Frequenti sono le donne pestate e le atmosfere claustrofobiche. Dai segni sul corpo si legge la vita della persona ritratta, siamo nell’ambito del linguaggio metonimico perché si mostra l’effetto per parlare della causa. Tutte le trame della vita lasciano segni sul corpo.
Si caratterizza da subito per un’arte a favore dell’identificazione completa tra arte e vita. Ha uno stile immediato, senza fronzoli e a volte crudo, grazie anche all’uso frequente del flash come sistema di illuminazione. E’ un’artista che non lascia indifferenti. La vita in tutta la sua crudezza ma anche nella sua infinità varietà e bellezza.
Non ci sono filtri a modificare la realtà, le sue foto sono realistiche fino alle estreme conseguenze, a costo di sembrare impietose su scenari spesso sciatti e squallidi. La realtà si mostra per quella che è senza nessuna costruzione o artificio. Si dice che la fotografia postmoderna, non tenda a ricreare il mondo, ma a crearlo. A produrre cioè una finzione parallela al mondo reale. La fotografia di Nan Goldin, invece, crede ancora nella capacità dell’immagine fotografica di rappresentare le verità e di indicare delle esperienze autentiche.
“La fotografia mi ha salvato spesso la vita: ogni volta che ho passato un periodo traumatico sono sopravvissuta scattando. Il mio lavoro si basa sulla memoria. Per me è fondamentale avere un ricordo della gente che ho conosciuto, specialmente di chi mi è stato vicino, per consentirgli di vivere per sempre”.
Il grande progetto artistico e di vita di Nan Goldin è immortalare tutte le persone che conosce per le strade e nel sottosuolo della metropoli. Segnata dal suicidio della sorella diciottenne Barbara Holly, è proprio fotografando la propria famiglia che inizia il suo lavoro fotografico. Il risultato è un monumentale diario visivo, un immenso album di famiglia popolato da amici e amanti, ritratti in momenti di intimità, in serate nei bar e nei club.
Fortemente coinvolta anche sul piano personale presta le sue immagini alla campagna di sensibilizzazione contro l’AIDS. La fotografia di Nan Goldin mostra persone senza giudicarle, le rappresenta con occhio libero dagli stereotipi e dai moralismi. A differenza da Diane Arbus che fotografava in B/N, la Goldin fotografa a colori, e mentre la prima cercava di rappresentare l’immaginario individuale del soggetto rappresentato, la seconda cerca di cogliere, con crudo realismo, attimi veri dell’esistenza delle persone nei quali vengono espressi sentimenti di vario genere.
Anne Sexton, poetessa statunitense (Newton 1928 – Weston, Massachusetts, 1974). Approdata alla scrittura come forma di psicoterapia dopo lunghi periodi di degenza (in concomitanza con la maternità era rimasta vittima di gravi squilibri), entrò in contatto con W. D. Snodgrass e R. Lowell. Da queste esperienze nacque la raccolta di versi To Bedlam and part way back (1960), cui seguì All my pretty ones (1962). La sua poesia, di tipo “confessionale” come quella dei suoi maestri e dell’amica S. Plath, è attraversata dal motivo dell’assenza e da immagini ricorrenti di morte, non di rado filtrate da un’ironia che ne stempera l’aggressività. Confermate le sue doti con Live or die (1966), Love poems(1969) e Transformation (1971), negli anni che precedono la morte per suicidio pubblicò altre raccolte di versi (The book of folly, 1972; The death notebooks, 1974) che tuttavia tradiscono un’involuzione del linguaggio. Al postumo, disperato The awful rowing toward God (1975), si aggiunsero 45 Mercy Street (1976) e Anne Sexton. A self portrait in letters (1977), entrambi a cura della figlia Linda.
Fonte: “Sexton, Anne” in Treccani.it, L’Enviclopedia Italiana : http://www.treccani.it/enciclopedia/anne-sexton/
VERSI PER UNA CAMICIA DA NOTTE ROSSA
No, non proprio rossa,
ma del colore di una rosa che sanguina.
E’ un fenicottero sperduto,
da qualche parte detto Rosa Schiaparelli
e non direi rosa, ma color sangue
caramella cuoricini di cannella.
Ondeggia come mantelli negli impeccabili
villaggi di Spagna. Direi una falda
di fuoco e disotto, come un petalo,
una guaina rosa, tersa come pietra.
Direi una camicia da notte di due colori
e di due falde che fluttuano dalle
spalle le membra fasciando.
Per anni la tarma li ha bramati
ma questi colori sono cinti da silenzio
e animali larvati ma brucanti.
Si potrebbe immaginare piume e
non averne cognizione. Si potrebbe
pensare alle puttane e non figurarsi
le movenze di un cigno. Si potrebbe
immaginare il tessuto di un’ape,
toccarne i peluzzi e avvicinarsi all’idea.
Il letto è devastato da tali
dolci visioni. La ragazza è.
La ragazza spicca aleggiando
dalla camicia da notte e dal suo colore.
Ha le ali legate sulle
spalle come bendaggi.
Adesso la farfalla la possiede,
copre lei e le sue ferite.
Non l’atterriscono
begonie o telegrammi ma
certo questa camicia da notte ragazza,
questa mirabile creatura alata, non si avvede
di come la luna l’attraversi
fra due falde galleggiando.
*
Da L’estrosa abbondanza, Milano, Crocetti, 1997
COME BALLAVAMO
La sera del matrimonio di mio cugino
ero vestita di blu.
Avevo diciannov’anni
e ballammo, Padre, andammo in orbita.
Un movimento ondulato
come d’angeli in vasca da bagno
l’ondeggiamento di due uccelli infuocati
l’ondeggìo lento del mare in bottiglia,
sempre più lentamente ondulante.
L’orchestra suonava
“Come ballavamo la sera delle nostre nozze”,
nelle volute del walzer mi portavi
rigirandomi come la mensola in cucina,
ed eravamo cari,
tanto cari.
Ora che sei rigido
inutile come un cane cieco,
ora che non puoi più scrutarmi,
la canzone mi risuona nella testa.
Puro ossigeno fu lo champagne che bevemmo
e il tintinnìo dei bicchieri nel nostro cin cin.
Lo champagne respirava come un sub
e i bicchieri furono cristallo e la sposa
e lo sposo avvinghiati nel sonno,
come una coppia alle vecchie maratone danzanti.
Mamma ballò con venti uomini, faceva la bellona.
Tu ballavi solo con me, senza dire una parola.
Ma il serpente parlò
quando m’hai stretta più forte.
Quel serpente, beffardo
si destò al contatto
s’eresse come un grande dio.
E noi, l’una dell’altro
i colli reclini attorcigliammo
come due cigni solitari.
*
Da Poesie su Dio, Firenze, Le Lettere, 2003