Con ogni probabilità, è in funzione di dichiarazione di poetica che al centro di Epica dello spreco (Dot.com Press, 2015) di Laura di Corcia appare la terna di versi: “Il peccatore originale è non portare a termine / rimanere nel centro delle cose / lasciare interrotto lo sgretolamento delle vetrine” (p 29). Pure, a quel “peccato originale” che consiste nel “rimanere nel centro delle cose”, e che può rinviare tanto a una manifestazione pseudo-referenziale del linguaggio (dimensione sulla quale non si può appiattire la parola poetica, a meno di rifarsi ad uno stilema unico e pervasivo, dunque noioso) quanto a una posizione critica verso quella linea lombarda mai del tutto abbandonata dalla post- o neo-lirica contemporanea, si potrebbe sostituire anche, come accesso critico preferenziale all’opera, un “peccato originale” che è, piuttosto, “rimanere nei pressi del corpo”.
Con ciò si intende la manifestazione iterativa della parola “corpo”, non adeguatamente sostenuta da un’esplorazione corporale o, almeno sensibile, e messa di conseguenza al soldo di una retorica già censurata, alcuni anni fa, nella poesia di alcune autrici dell’antologia Nuovi Poeti Italiani 6 (Einaudi, 2012) da Matteo Marchesini (apparentemente non disponibile in rete, si trova qui un intervento successivo di Andrea Cortellessa). Di Corcia, invece, scrive una poesia che s’interroga costantemente sulla retorica, ad un livello metalinguistico assai raffinato, dove, come nota argutamente Viola Amarelli nella postfazione, ci si esercita a “montare e smontare contemporaneamente i fondali delle metafore” (p. 52).
È questa una peculiare declinazione del “modo biologico” ravvisato in Epica dello spreco da Vincenzo Frungillo, nella quale si resta spesso sulla soglia del livello metaforico, ma, d’altro canto, non si rinuncia mai alla musicalità del discorso, talvolta indirizzato verso chiusure gnomiche (in alcune occasioni, queste sì, compiutamente post- o neo-liriche).
La soglia è anche “il confine tra chi sono e chi non sono” (p. 14), altra possibile via d’accesso al testo che, al pari forse dell’epica dello spreco citata nel titolo e poi ripresa in chiusura di libro, non risulta però tanto sviluppata come quella geografia del corpo di cui si è detto, sostenuta da un’impostazione cartografico-corporea tanto più abile quanto più giocata a livello linguistico e meta-linguistico. Tra i campi semantici del corpo e delle ossa – altra figurazione ricorrente (si veda, almeno, a p. 15: “Che cos’è un ginocchio? / Un osso a punta, / che ti ricorda quel cielo / e tutto il resto che andava avanti / mentre tu eri ferma, infiammata. // Sappiamo tutti cosa c’è / sotto la pelle: / sputi e grida / Caravaggio e santi.”) – si gioca infatti anche un’altra scelta formale, ossia quella struttura polimetrica, pienamente giustificata, che oscilla tra scarnificazione e rivestimento del verso.
Rivestimento, poi, che non è mai esplosione barocca, bensì apertura di uno spazio per la riflessione, per una poesia che costantemente ribadisce la sua profondità, a partire già dall’epigrafe iniziale – “La memoria, la gioia sono dei sentimenti; e persino le proposizioni matematiche diventano sentimenti, perché la ragione rende naturali i sentimenti, e i sentimenti naturali vengono cancellati dalla ragione”, dai Pensieri di Blaise Pascal – e al tempo stesso rivendica la sua complessa superficie, che è poi ciò che resta, se non si risolve in superficialità, dell’esperienza della poesia.
Qui? Resta.